Il teatro e la musica erano un tutt’uno, e poi si sentiva il riferimento a un luogo preciso del mondo che sotterraneamente dialogava con tutti gli altri. [...] In certi passaggi del concerto era impossibile stare fermi; la musica ti comunicava un’eccitazione del corpo incontenibile, la testa ondeggiava veloce, il piede batteva sul pavimento, la poltrona del teatro dondolava.[1]
La musica degli Osanna, scoperta dal protagonista del romanzo di formazione di Silvio Perrella nella città partenopea Giùnapoli è esperienza del corpo. E come tale, potente eccitamento dei sensi e della mente.
Il corpo è ritmo e movimento: ogni esperienza estetica lo attraversa in maniera dinamica, stimolando una percezione della realtà nuova, diversa, multimodale, potenziata, acuita e, al contempo, una produzione di senso determinata dalla pervasività dei sensi e dalla condivisione empatica con gli altri. In questa esperienza sentimento e ragione, emozione e pensiero interagiscono in modalità sempre diverse e irripetibili, in parte determinate dalla soggettività, in parte dall’interazione emotiva e cognitiva con l’altro.
Come era ben noto sin dall’antichità, nella performance teatrale l’esperienza estetica è totalizzante: coinvolge la vista, l’udito, l’olfatto, il battito cardiaco, le ghiandole sudorifere, la salivazione, in breve la dimensione corporea nella sua interezza. E tramite il corpo, che si fa specchio di quello attante in scena, in grado di simulare forti emozioni ʻartificialmenteʼ indotte dalla tecnica attoriale, sviluppa la sua efficacia empatica di condivisione emotiva e cognitiva con gli altri, come sa bene chi maneggia gli strumenti della scrittura teatrale. Uno per tutti Thornton Wilder, che afferma lucidamente in un’intervista: «I regard the theatre as the greatest of all art forms, the most immediate way in which a human being can share with another the sense of what it is to be a human being».[2]
Sin da Aristotele sappiamo che la tecnica teatrale è capace di indurre nello spettatore paura, terrore, pietà, in breve la catarsi delle emozioni. Ciò accade in virtù delle risposte empatiche, che in parte sono dovute all’attivazione delle aree cerebrali implicate anche nell’esperienza in prima persona.[3]
La visione dello spettatore, come dimostrano le neuroscienze, non si esaurisce nella semplice attivazione delle aree visive del cervello. Essa, infatti, è un processo multimodale che implica l’attivazione non solo delle cosiddette aree visive del cervello, ma anche di circuiti cerebrali sensorio-motori, viscero-motori ed affettivi.[4] Quindi non vediamo solo con gli occhi, ma anche attraverso il movimento, il tatto e le emozioni. In altre parole ciò che vediamo non è la semplice registrazione ‘visiva’ nel nostro cervello di quanto ci appare di fronte, ma il risultato di una complessa costruzione ed elaborazione cui contribuiscono in modo fondamentale il corpo con le sue potenzialità di movimento, i sensi, le emozioni, l’immaginazione e le nostre memorie. Dobbiamo definitivamente abbandonare l’obsoleta concezione solipsistica e ‘puro-visibilista’ della visione. Quest’ultima infatti è un’esperienza complessa e sempre ‘sinestesica’, fatta cioè di attributi che vanno oltre una mera trasposizione in coordinate visive di ciò che proviamo quando posiamo il nostro sguardo su qualcosa.
Inoltre, la visione non consiste semplicemente nel guardare, ma è sempre visione ‘per’ qualcuno. Osservare il mondo significa gettare uno sguardo che è situato, personale e al contempo intersoggettivo e condiviso.
Tornando alle specificità della fruizione teatrale, intesa come esperienza multimodale e totalizzante che implica la corporeità tutta dello spettatore, essa è stata addomesticata in una prassi che costringe il corpo all’immobilità sulla poltrona. Certo questo non avviene nel teatro di sperimentazione che punta a un coinvolgimento del pubblico a 360º, come dimostra in maniera emblematica il gruppo La Fura dels Baus il quale, sin dal suo primo decennio di attività fra il 1979 e il 1989, operava sulla decostruzione della performance multimediale in una dislocazione spaziale che implicava il movimento degli spettatori.[5]
Cosa è successo in questi decenni nella prassi performativa dell’opera lirica, epitome dello spettacolo emozionante e catalizzatore di commozione empatica? Essa rivendica un’efficacia ʻtotalizzanteʼ in quanto è l’incarnazione moderna dell’opera d’arte totale dell’antichità; e questo accade sin dalle sue origini, quando a partire dal Seicento a Firenze furono rappresentate l’Euridice di Jacopo Peri e quella di Guido Caccini, entrambe su libretto di Ottavio Rinuccini. Questa sua dimensione pervasiva, in grado di coinvolgere il pubblico in maniera trascinante, è stata potenziata ulteriormente da diverse altre operazioni, come quella wagneriana[6] o la moderna sperimentazione primonovecentesca[7] di Strauss e Hofmannsthal, a livello di impaginazione musicale e testuale. Tuttavia, tale aspetto raramente è stato messo in luce dalla prassi registica. Piuttosto l’opera lirica è stata oggetto di rivisitazioni e modernizzazioni, soprattutto da parte del teatro di regia tedesco, a volte con esiti interessanti, ma sempre innescando relazioni empatiche imperniate sulla frontalità esecutiva, solo apparentemente necessaria all’esecuzione musicale.
Nella prassi consolidata, sul palco inondato di luci, il cantante affascina con doti vocali costruite con una severa disciplina del corpo, o suscita boati di disapprovazione, in particolare dai temuti loggionisti, nel caso in cui il suo strumento vocale s’incrini per piccole défaillances del corpo. Sempre isolato in un’aura di sacralità, che disincarna la fisicità della sua performance, l’interprete appare come una sorta di automa non tanto dissimile dal settecentesco pavone meccanico di Caterina la Grande.
La quarta parete non viene sfondata, come accade nel teatro di prosa, tranne in rare occasioni, come nella Divara di Azio Corghi su libretto di José Saramago, allestita a Münster nel 1993 da Will Humburg con l’impiego della sala per gli ingressi del coro e dei palchetti di proscenio per lo svolgimento di alcune azioni. Non a caso l’opera trattava di una rappresentazione di orrori della storia, ovvero i massacri perpetrati a Münster negli anni Trenta del Cinquecento intorno all’emergere della setta degli Anabattisti, con le conseguenti lotte fratricide. Coerentemente le scelte registiche portarono alla realizzazione di una sorta di sacra rappresentazione, che sconvolse il pubblico per la cupa immediatezza e la vibrante effusione di un sentimento pacifista e di fratellanza tradita dagli interessi del potere. In quel caso la decostruzione dello spazio scenico fungeva dunque da potenziatore delle emozioni e dei rapporti empatici fra spettatori e attanti, e diveniva canale per veicolare l’attualità della scottante tematica delle lotte fratricide.
Questa tipologia sperimentale giunge alle sue conseguenze più elevate nell’allestimento dello Stiffelio ad opera di Graham Vick, nell’ambito della rassegna I Maestri al Farnese allestita per il Festival Verdi 2017 di Parma, spettacolo che costituisce una sorta di manifesto per una nuova prassi scenica dell’opera lirica del futuro.
La regia prende le mosse dallo spazio ostico del Teatro Farnese, capolavoro dell’architettura tardo-rinascimentale fatto costruire nel 1618 dal Duca di Parma Ranuccio I ad opera di Giovan Battista Aleotti, e utilizzato come spazio per tornei e sala d’armi, o anche per una naumachia nel 1628 all’interno dell’opera Mercurio e Marte con musiche di Monteverdi. Il teatro consta di una cavea a forma di U, costituita da 14 gradini sui quali al tempo potevano prendere posto più di 3000 spettatori, oggi inaccessibile per via delle norme di sicurezza. Il salone immenso (87 m x 32 m) è lo spazio che il team creativo di Vick ha gestito con sapienza tecnica e consumato mestiere, rispondendo alla sfida lanciata da questo luogo impervio, di fatto mirabile ma impraticabile per via della difficoltà di visione del pubblico qualora si adoperasse il palcoscenico effettivo. Ma di fatto l’esperimento nasce non solo dal bisogno di trovare una diversa articolazione dello spazio, ma anche dalla volontà di inventare una pratica scenica in grado di scuotere le coscienze, svelando la bruciante attualità dello Stiffelio verdiano. E questo accade al di là di un tentativo forzoso di attualizzazione, che ben conosciamo dalle pratiche fuorvianti di camuffamento dell’opera lirica in abiti moderni, azioni per lo più prive di vera intenzione interpretativa, miranti a stupire con un ʻnuovoʼ fine a se stesso.
La lettura registica di Vick, una scommessa su cui ha intelligentemente puntato il Festival capitanato dall’indomito direttore Anna Maria Meo, parte dalla forza di un’idea interpretativa che non mira a straniare il testo ma a farne emergere la portata rivoluzionaria, al di là di cliché stratificatisi nei decenni e della strumentalizzazione che, già nel passato, era stata fatta di certe opere del primo periodo verdiano. Un caso per tutti: I Lombardi alla prima crociata, melodramma erto a veicolo di propaganda bellica nel contesto delle guerre risorgimentali di liberazione, fatto rivivere da Lamberto Puggelli, in clima di incipiente Guerra del Golfo, a manifesto di pace e fratellanza: «È impossibile accingersi a mettere in scena tale testo senza accorgersi che a Gerusalemme ci sono uomini che uccidono altri uomini, e donne e bambini. I Lombardi alla prima crociata è un testo che parla di uomini che uccidono uomini a Gerusalemme».[8]
Similmente Vick trova in Stiffelio il nucleo di una riflessione sugli orrori dell’ideologizzazione, intesa come pratica di snaturamento della coscienza e della collettività. Partendo da questo nucleo centrale si pone una domanda: in che modo far ragionare il pubblico d’oggi, che come in passato è vittima di strumentalizzazioni e manipolazioni da parte dei detentori di un potere occulto, sia esso di natura religiosa, mediatica, politica? Vick cerca di realizzare una messinscena in grado di intervenire in maniera efficace sulla coscienza dello spettatore, e quindi di fargli compiere un percorso di trasformazione interiore durante la fruizione dell’opera. Tale trasformazione avviene soprattutto grazie al diretto coinvolgimento corporeo degli spettatori, portati nel cuore dell’azione scenica. Tutto ciò viene messo in atto esaltando le peculiarità dello spazio dispersivo e destabilizzante del Farnese, un grande ‘ventre’ senza un obbligato vettore di polarizzazione. Vengono così portate alle loro estreme conseguenze le intuizioni che, da Appia e Craig, hanno visto nello spazio teatrale uno strumento di relazione tra attore e spettatore, in una costante ricerca della mediazione dell’attualità dentro e fuori la scena. In Stiffelio prevale la volontà registica di modificare i rapporti empatici fra performer e pubblico mediante l’evidenziazione della dimensione corporea, che diviene anche il cardine per un’inedita riflessione sulla dimensione spaziale del luogo.
Lo spettatore viene coinvolto come ʻpartecipante in piediʼ dell’evento, ruolo sancito da un badge consegnatogli dalle maschere all’ingresso, un cartellino che sul retro riporta la stilizzazione di quattro figure che si tengono per mano, papà, mamma, figlio e figlia, come da iconografia del Family Day. Il pubblico viene accolto ora con strette di mano, ora con sorrisi, immediatamente immerso in una strana dimensione di bigotta devozione religiosa, sancita, a ridosso dell’orchestra, da una postazione di attivisti che regalano brochure e volumi edificanti dei sermoni del predicatore Stiffelio, ed invitano a firmare appelli contro le ideologie gender.
Sottoscrive davvero il pubblico tale clima di esaltazione di una morale bigotta e ipocrita che celebra il diritto di famiglia? Chiamati a partecipare all’evento mediante discreti avvicinamenti dei figuranti che li esortano a condividere la loro devozione, gli spettatori, o almeno una parte di essi, provano un senso di fastidio e vengono così indotti ad assumere una prospettiva critica, attraverso la quale vagliare gli eventi. Questi ultimi vengono introdotti dal primo sermone del ministro assasveriano Stiffelio, che combatte «pe’l santo vero eterno» contro una società in cui constata «oppressa la virtude». Un’agghiacciante visione del mondo sancita dal sacro vincolo coniugale, condivisa dal coro e sbattuta in faccia al pubblico insieme ad altri striscioni disposti sulle scalinate del Farnese: «I maschietti sono maschietti» e «le femminucce sono femminucce», con tutto ciò che ne consegue in quanto a divisione di ruoli e vincoli familiari, prima che sociali. Come nella spietata condanna dell’amore extraconiugale, che nello scottante e coraggioso plot del libretto rischia di condurre al divorzio Stiffelio e la moglie Lina, rea di tradimento per un adulterio consumato nell’abbandono da parte del marito, distante emotivamente e fisicamente dalla moglie. Proprio il male nell’unità familiare è il coraggioso soggetto di Verdi, che scrive un’opera ambientata nella sua epoca rinunciando a soggetti storici. La profonda delusione maturata all’indomani del globale fallimento della fiammata rivoluzionaria del 1848 porta Verdi a ripiegarsi sull’osservazione degli intimi conflitti individuali, evocando un mondo claustrofobico di ipocrisia e intolleranza, di cui lo stesso compositore era vittima avendo vissuto al di fuori del vincolo matrimoniale con Giuseppina Strepponi, donna già sposata e reietta dalla comunità di Busseto. Ma al di là dell’implicazione personale, il soggetto scelto da Verdi appare sempre animato dalla sua fortissima passione civile. Il tema affrontato in Stiffelio rimane di scottante attualità e, come metafora della lotta contro le ipocrisie e le menzogne sociali, lo è ancora oggi. Così dichiara il regista:
Stiffelio è un’opera che ci aiuta a riflettere contro tutte le ipocrisie e le chiusure che minano la società e la società di oggi ha bisogno di riflettere su questi temi. Ha bisogno di combattere tutti quegli atteggiamenti di chiusura sociale, politica, civile che ancora ci sono in tutto il mondo, con uomini di stato, con movimenti, con partiti che certo non si battono per una società civile, aperta e moderna, per l’uguaglianza, per il rispetto dei diritti di tutti.[9]
Nella messinscena di quest’opera, che anticipa lo studio della psicologia del protagonista messo in atto in Otello, il conflitto tra legge scritta e pratiche sociali, tra legge morale e libertà individuale, e tra la legge del perbenismo sociale e quella del cuore esplode in tutta la sua lacerante attualità, anche con riferimenti all’omofobia, ben evidenziata dal pestaggio di una coppia gay all’inizio della scena del cimitero, «qui dove tutto è orrore!».
Il corpo dello spettatore si confronta con quello dell’artista in un contatto immediato, di vicinanza estrema, poiché il pubblico è in piedi e si muove liberamente nella sala in cui lo scenografo Mauro Tinti ha reso possibile condensare o dilatare l’azione attraverso dei carri mobili, a volte distanti fra loro, disposti agli estremi dello spazio, a volte invece addossati l’uno all’altro, spesso a forma di croce. Su questi carri, piccoli palcoscenici itineranti come nella tradizione del mistery play medievale, fra i quali il pubblico sosta o si muove, di volta in volta si svolgono le scene, non più esposte alla luce unificante del palco ma frantumate in uno spazio mobile e cangiante, che è luogo di una sola interiorità, o dimensione di dialogo con le altre, in un crescente avvolgimento dello spettatore da parte del coro – guidato dalla sapiente e potente bacchetta di Guillermo García Calvo a capo dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna.
L’intento del regista, come dichiarato in diverse interviste, è proprio la partecipazione attiva del pubblico, l’immedesimazione nei turbamenti dei personaggi, il sentire nelle proprie viscere i loro sentimenti più oscuri e i tormenti dell’anima e del corpo. La ‘distanza di sicurezza’ che normalmente separa lo spettatore dal lontano palcoscenico in cui si svolge l’azione drammatica qui è annichilita: lo spettatore si trova a ridosso dei protagonisti dell’opera. In questo modo, lentamente il pubblico diviene attore del dramma, non è più una massa indistinta ma un insieme di persone partecipanti a un evento, all’interno del quale è necessario assumere una posizione: a favore dell’integralismo familiare sancito da un altro striscione, «TU sei un bene per me», che domina la sala a mo’ di sipario sul boccascena, o a favore della legge del cuore, incarnata da una Lina ancora bambina, forse per coercizione familiare, certo ingenua vittima del seduttore di turno, il tenebroso Raffaele, ma in grado di intonare quella forza che viene dall’autenticità dei sentimenti, capovolgendo la disposizione d’animo severa e impietosa di Stiffelio nel Finale ultimo. Nell’allestimento al Farnese di Parma questo numero musicale rivela tutta la sua potenza, fra i figuranti che si abbracciano sugli spalti delle scalinate, il coro che sparso tra il pubblico intona un possente «Miserere», il suono dell’organo che scuote il legno del teatro e il cuore di ogni spettatore trascinato dal grido di perdono rivolto a Lina, la quale con il suo coraggio, condensato nel sapiente gesto registico con cui strappa il collare ecclesiastico a Stiffelio, fa emergere tutta la sua umanità.
Protagonista di questo processo di metamorfosi del sentimento e del pensiero è proprio il pubblico, trascinato in maniera straordinariamente efficace nel dipanarsi in crescendo degli eventi, con un grande coinvolgimento della propria corporeità a stretto contatto con quella dei cantanti, con tutto il peso e lo strazio della loro fisicità, esperita in presa diretta: sudore, sforzo fisico, saliva che fuoriesce nell’empito canoro. E anche nella dislocazione degli artisti del coro in mezzo al pubblico, accanto agli spettatori, che vibrano dei loro acuti e dei loro bassi, registrandoli nel proprio corpo, e divenendo così parte di una collettività sancita dal canto.
Si determinano nuovi meccanismi empatici, che sono a un tempo emotivi e riflessivi. Il paradosso consiste proprio nel fatto che la finalità di indurre nello spettatore una disposizione critica, rendendolo partecipe di un evento che può co-determinare con il suo movimento e la scelta della prospettiva di visione, passa per un’amplificazione del coinvolgimento emotivo.
Il riferimento a Brecht è evidente sin dai cartelli disposti sulle scalinate del Farnese, che riportano scritte quali «difendiamo la libertà di opinione», oppure «famiglia: noi la difendiamo!», «i’m a woman not a womb». Ma la pratica straniante brechtiana mostra il suo paradosso in una sorta di ulteriore de-familiarizzazione degli strumenti de-familiarizzanti del teatro tradizionale: l’intento di un’interazione critica con la vicenda, perseguito con effetti di straniamento, culmina in un coinvolgimento emotivo totalizzante, in grado di attivare una trasformazione critica del fruitore. La scena si frammenta ma l’illusione non si dissolve, anzi si trasforma nella celebrazione di un rito collettivo più vero di ogni finzione scenica, che finisce per accentuare la disposizione critica dello spettatore.
Tempo e spazio si fondono: la sospensione della temporalità lineare della vicenda culmina nell’intrico delle differenti azioni frammentate, anzi moltiplicate dalle diverse prospettive dei personaggi, che vivono, patiscano e raccontano ciascuno una storia diversa, pur intonando le loro voci in duetti, terzetti e quartetti (gli straordinari quartetti verdiani, punta di diamante di ogni opera).
Il coro è disorientato come gli spettatoti, o meglio finge disorientamento in questo nuovo contatto, questo scambio di fiati e saliva e odori con il pubblico, uniti reciprocamente dall’inedito ruolo di ʻpartecipante in piediʼ. La libertà di movimento degli spettatori permette a ognuno di essi non solo di partecipare più da vicino alle vicende della performance, amplificando così le emozioni da esse generate, ma fornisce anche la possibilità di realizzare un nuovo e idiosincratico ‘montaggio’ dell’azione scenica, sulla base della scelta individuale sul dove posizionarsi rispetto a questa, dislocata in punti diversi della sala. In questo modo l’esperienza spettatoriale diviene unica e irripetibile.
Ne scaturisce una singolare tensione fra le parti costituenti l’impaginazione dello spartito, in un vigile abbandono emotivo, in cui la musica verdiana diviene l’occhio critico attraverso cui guardare in maniera nuova il mondo di oggi.
1 S. Perrella, Giùnapoli, Milano, Neri Pozza, 2006, p. 32.
2 J. R. Bryer (a cura di), Conversations with Thornton Wilder, Jackson and London, University Press of Mississipi, p. 72.
3 Cfr. B. Bernhardt, T. Singer, ‘The neural Basis of Empathy’, Annual Review of Neuroscience, 35, 2012, pp. 1-23.
4 V. Gallese, ʻBodily Selves in Relation: Embodied simulation as second-person perspective on intersubjectivityʼ, Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, 2014, 369, 28 April 2014; Id., ʻArte, Corpo, Cervello: Per un’Estetica Sperimentaleʼ, Micromega, 2/2014, pp. 49-67; Id., ʻBodily framingʼ, in C. Jones, D. Mather, R. Uchill (a cura di), Experience: Culture, Cognition and the Common Sense, Boston, MIT Press, 2016, pp. 237-247.
5 F. A. Pinhero Villar de Queiroz, ʻWill all the World be a Stage? The big Opera Mundi of La Fura dels Bausʼ, Romance Quarterly, 46.4, 1999, pp. 248-254.
6 Cfr. G. Pulvirenti, ʻAlla ricerca dell’utopia smarritaʼ, in Richard Wagner, Die Walküre, programma di sala del Teatro Massimo Bellini, Palermo, Teatro Massimo Bellini, 2001, pp. 41-45.
7 Cfr. Id., ʻAltre scritture. Il Gesamtkunstwerk nel primo Novecentoʼ, in Id. (a cura di) Le Muse inquiete, Firenze, Olschki, 2003, pp. 39-58.
8 L. Puggelli, ʻIdeologia per una messinscenaʼ, in I Lombardi alla prima crociata, Teatro Regio di Parma, Festival Verdi 2003, p. 47.
9 G. Vick, ʻUn’opera modernaʼ, intervista a cura di G. Landini, L’opera, 6, 2017, p. 47.