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…in verità non siamo che immagini e somiglianze; artificio, simulacro, imitazione, copia, eco, invenzione, arte, falsità.

Max Aub

 

«Io sono un voyeur. Penso che qualsiasi fotografo sia un voyeur: che faccia fotografie erotiche o altro è comunque un voyeur. Si passa la vita a guardare attraverso un buco della serratura. Se un fotografo dice di non essere un voyeur è un idiota» (Newton, Grafis 1989). Non c’è risposta migliore, alla sfacciata provocazione di Helmut Newton, della mostra di Nan Goldin, che esibisce fin dal titolo l’idea che la fotografia consista innanzitutto nell’esercizio del guardare. Il recupero della dizione arcaica “scopophilia” (“amore per il guardare” ma anche “perversione sessuale”) intende ribadire la centralità del desiderio come traccia e forma della sua scrittura, da sempre votata al racconto per immagini delle zone più recondite del ‘sentire’ dei personaggi, figure di un eros instabile, pulsante, a tratti persino ‘indecente’ (si pensi alla potenza di The Ballad of Sexual Dependence).

Il progetto Scopophilia nasce per effetto di un sistematico e appassionato pellegrinaggio al Louvre: per molti mesi, ogni martedì – giorno di chiusura al pubblico – Goldin visita le stanze e fotografa, catturando attraverso l’obiettivo la cifra segreta dei grandi capolavori dell’arte. Il contatto ravvicinato con le opere rende possibile una straordinaria messa a fuoco di segni e dettagli, da cui scaturisce l’idea di accostare ai quadri e alle statue immagini vecchie e nuove del suo vivido catalogo di soggetti. L’esito di tale corpo a corpo è una rete di sorprendenti rime visuali, di citazioni, di pose, un sistema di somiglianze che toglie il fiato, per la forza inedita degli accostamenti, e rimette in discussione il concetto stesso di imitazione.

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Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

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Poco più di un anno fa Costanza Quatriglio scriveva un intenso pamphlet* in cui poneva al centro della sua lucida riflessione la forza (e la necessità) di un ‘cinema dell’attenzione’, capace di superare i vincoli e le censure di produttori e case di distribuzione. Riproponiamo oggi quel testo per ribadire l’urgenza di un cambio di rotta delle logiche di produzione e per rivendicare uno spazio di libertà e d’azione che consenta agli autori di costruire una sempre più convincente ‘drammaturgia della realtà’.

In Italia, negli ultimi dieci anni, è fiorito un cinema che mi piace definire il ‘cinema dell’attenzione’. È quel cinema fortemente legato al sentimento del nostro tempo, che fa dell’ascolto la sua forza, dell’esperienza il proprio fondamento. Nel cinema dell’attenzione la restituzione è qualcosa di più del risultato di un procedimento di analisi e sintesi; ha a che fare con l’interpretazione e con la scelta del punto di vista, quello attraverso cui ogni cosa ha valore perché fa parte di un disegno organico, coerente, di bellezza e necessità, che è la drammaturgia.

È un cinema capace di raccogliere le istanze di comprensione del presente, di cittadinanza, di partecipazione. Usa l’esperienza come veicolo per raccontare storie importanti, che ci riguardano, per proporre personaggi che siano davvero nella Storia, capaci di cogliere le trasformazioni e interpretare il proprio tempo. È sorprendente trovarsi nel mezzo della Storia e capire che puoi esserci, devi esserci. Perché le tue storie e i tuoi personaggi sono radicati nel loro tempo e portano con sé il futuro, perché le vicende che li riguardano parlano di tutti noi, di chi siamo e di cosa diventeremo.

È il cinema che si interroga sul linguaggio, che non ha paura di mescolare il documentario con la finzione, che non si considera sperimentale quando usa entrambi i linguaggi, perché entrambi i linguaggi li ha praticati, assimilati.

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«Quello che mi interessa – sostiene Paolo Gioli – è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. Prima dell’immagine c’è la materia».

Ridurre, sgretolare, trasformare la fotografia in materia fotografica, in qualcosa di malleabile per poi manipolarla: la metodologia di ricerca di Paolo Gioli percorre da sempre questo binario. La mostra Abuses. Il corpo delle immagini (Villa Pignatelli – Casa della fotografia, Napoli 12 aprile-1 giugno 2014, a cura di Giuliano Sergio), una selezione di oltre cento immagini dell’artista veneto, affronta alcuni dei temi attorno i quali ruota l’intero lavoro e il percorso artistico di Paolo Gioli: l’indagine sul corpo, in tutte le sue sfaccettature, e sulla natura morta.

In un’epoca nella quale la tecnologia ha reso difficile rintracciare la specificità del mezzo fotografico, avvicinando la fotografia stessa a quella «condizione postmediale» descritta da Rosalind Krauss, Paolo Gioli riesce a fermare l’istante sottraendolo all’effimero dell’esperienza ordinaria attraverso la costruzione di immagini fatte di innesti, suture e artifici.

L’artista oltrepassa, in tal modo, i confini strutturali dell’immagine restituendola all’osservatore in tutta la sua drammaticità. Quella di Gioli è un’operazione che oserei definire di archeologia visuale, caratterizzata dall’esplorazione incessante dell’intero universo dei processi fotografici proto-storici, storici e moderni: dal foro stenopeico, al classico procedimento positivo/negativo, al positivo diretto su diversi formati polaroid. La fotografia di Gioli (e le opere in mostra ne sono una prova) porta, dunque, alle estreme conseguenze l’intera parabola evolutiva di quella riproducibilità tecnica postulata da Benjamin, estremizzandone dinamiche e processi, e rendendo palesi i meccanismi ad essa interni e le difficoltà e incertezze da essa derivanti.

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