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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

C’è una costante che calcola il peso specifico dell’atto creativo per Carla Cerati ed è come un bisogno di dire e di dirsi, un impulso alla narrazione, che ha molto spesso a che fare con il corpo delle donne: il suo, raccontato quasi solo a parole, e quello delle altre, impressionato in immagine.

Il corpo femminile designa da subito un orizzonte di ricerca per la vocazione artistica di Cerati: bergamasca d’origine, milanese d’adozione, ha circa vent’anni quando progetta di iscriversi alla facoltà di scultura di Brera. Si esercita praticando ritratti in bassorilievo e forme di nudo, usando spesso sé stessa come modella. Passa con successo l’esame di ammissione all’Accademia, ma la famiglia, contrariata, la costringe ad abbandonare la velleità artistica e a sposarsi, ancora giovanissima.

La sua è una vita matrimoniale sofferta, infelice e opprimente, che la costringe a un silenzio espressivo, lungo un decennio. Ma il destino dell’arte non rimane a lungo latente e, prima con la fotografia, dopo con la scrittura, Cerati risarcisce la sua necessità creativa.

La macchina fotografica sostituisce la creta. Sono gli anni Sessanta, quando Carla Cerati fotografa lo spettacolo Niente per amore messo in scena da Franco Enriquez a Milano e intraprende la carriera da professionista. Esordisce come fotografa di scena e parallelamente si afferma come fotoreporter indipendente. Teatro e cronaca, pur nella loro specificità, localizzano uno spazio di lavoro comune per la fotografia di Cerati, che si configura come uno strumento non di documentazione ma di elaborazione del presente: grazie all’obiettivo, Cerati guarda ai materiali senza lasciarli semplicemente accadere, senza accontentarsi della prima visione, ma cercando nelle immagini significati non immediati, da sovrascrivere, elaborare.

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…in verità non siamo che immagini e somiglianze; artificio, simulacro, imitazione, copia, eco, invenzione, arte, falsità.

Max Aub

 

«Io sono un voyeur. Penso che qualsiasi fotografo sia un voyeur: che faccia fotografie erotiche o altro è comunque un voyeur. Si passa la vita a guardare attraverso un buco della serratura. Se un fotografo dice di non essere un voyeur è un idiota» (Newton, Grafis 1989). Non c’è risposta migliore, alla sfacciata provocazione di Helmut Newton, della mostra di Nan Goldin, che esibisce fin dal titolo l’idea che la fotografia consista innanzitutto nell’esercizio del guardare. Il recupero della dizione arcaica “scopophilia” (“amore per il guardare” ma anche “perversione sessuale”) intende ribadire la centralità del desiderio come traccia e forma della sua scrittura, da sempre votata al racconto per immagini delle zone più recondite del ‘sentire’ dei personaggi, figure di un eros instabile, pulsante, a tratti persino ‘indecente’ (si pensi alla potenza di The Ballad of Sexual Dependence).

Il progetto Scopophilia nasce per effetto di un sistematico e appassionato pellegrinaggio al Louvre: per molti mesi, ogni martedì – giorno di chiusura al pubblico – Goldin visita le stanze e fotografa, catturando attraverso l’obiettivo la cifra segreta dei grandi capolavori dell’arte. Il contatto ravvicinato con le opere rende possibile una straordinaria messa a fuoco di segni e dettagli, da cui scaturisce l’idea di accostare ai quadri e alle statue immagini vecchie e nuove del suo vivido catalogo di soggetti. L’esito di tale corpo a corpo è una rete di sorprendenti rime visuali, di citazioni, di pose, un sistema di somiglianze che toglie il fiato, per la forza inedita degli accostamenti, e rimette in discussione il concetto stesso di imitazione.

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Ricci/forte’s poetics fundamentally aims at stirring the emotional state of spectators. The fragmentary structure of many performances of them does not turn in a lack of form, but is, on the contrary, part of a creative process which combines in a new way languages, music and images of a cultural tradition the expressive and communicative capacity of which has been irremediably lost. By mixing a rigorously structured architecture of the pièce with improvisation and role switching – a kind of theatre which challenges the idea of performance itself – a contaminated cultural product takes shape, grounded, at the same time, on contemporary aesthetics and on the recovery of the most primitive, Dionysian, sense of poetry. The unveiling of the innermost mechanics of power, based on the role of modern media, which have generated a real anthropological turn (a paradoxically social man, incapable of any form of communication and unable to express his feelings), can be regarded as the manifest achievement of ricci/forte’s approach to theatre and art in general.

Stefano […]: «da qui indietreggi e cadi».

Mario: «quindi non guadagno il centro?»

Stefano: «No. Mai. Non stiamo mica facendo teatro».

Nulla è più fisico della pratica mistica.

Lea Vergine

Se l’etichetta o la classificazione di un fenomeno culturale diventano spesso un elemento di appiattimento e di riduzione piuttosto che un supporto ermeneutico, l’estrema plasticità e ‘adattabilità’ di un oggetto estetico a molteplici generi e correnti, senza che nessuno di essi sia in grado di definirlo pienamente, rischia altresì di rendere generica e superficialmente universalistica la sua interpretazione. Tanto più che nel variegato universo del postmoderno, le estetiche del camp, del queer, del post-pop e dello stesso postmoderno sono sovente banalizzate e relegate a una mera dimensione di provocazione fine a se stessa e dunque priva di qualsiasi dignità artistica. Difficile dunque, eppure necessario in questi casi, rintracciare pochi ma chiari elementi fondanti dell’idea che anima un progetto artistico e sondare le diverse modalità attraverso le quali tali nuclei prendono forma nella concreta realizzazione plastica.

In un recente articolo lo studioso Hans-Thies Lehmann ragiona sulla relazione tra teatro e politica nella Germania attuale, questione tornata di evidente pregnanza con l’acuirsi della crisi. Riflettendo sulla poetica di René Pollesch, miglior drammaturgo tedesco nel 2002 secondo la storica rivista «Theater heute», Lehmann scrive:

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