«Un antidoto all’accontentarsi». La poesia di ricci/forte

di

     

Ricci/forte’s poetics fundamentally aims at stirring the emotional state of spectators. The fragmentary structure of many performances of them does not turn in a lack of form, but is, on the contrary, part of a creative process which combines in a new way languages, music and images of a cultural tradition the expressive and communicative capacity of which has been irremediably lost. By mixing a rigorously structured architecture of the pièce with improvisation and role switching – a kind of theatre which challenges the idea of performance itself – a contaminated cultural product takes shape, grounded, at the same time, on contemporary aesthetics and on the recovery of the most primitive, Dionysian, sense of poetry. The unveiling of the innermost mechanics of power, based on the role of modern media, which have generated a real anthropological turn (a paradoxically social man, incapable of any form of communication and unable to express his feelings), can be regarded as the manifest achievement of ricci/forte’s approach to theatre and art in general.

Stefano […]: «da qui indietreggi e cadi».

Mario: «quindi non guadagno il centro?»

Stefano: «No. Mai. Non stiamo mica facendo teatro».

Nulla è più fisico della pratica mistica.

Lea Vergine

Se l’etichetta o la classificazione di un fenomeno culturale diventano spesso un elemento di appiattimento e di riduzione piuttosto che un supporto ermeneutico, l’estrema plasticità e ‘adattabilità’ di un oggetto estetico a molteplici generi e correnti, senza che nessuno di essi sia in grado di definirlo pienamente, rischia altresì di rendere generica e superficialmente universalistica la sua interpretazione. Tanto più che nel variegato universo del postmoderno, le estetiche del camp, del queer, del post-pop e dello stesso postmoderno sono sovente banalizzate e relegate a una mera dimensione di provocazione fine a se stessa e dunque priva di qualsiasi dignità artistica. Difficile dunque, eppure necessario in questi casi, rintracciare pochi ma chiari elementi fondanti dell’idea che anima un progetto artistico e sondare le diverse modalità attraverso le quali tali nuclei prendono forma nella concreta realizzazione plastica.

In un recente articolo lo studioso Hans-Thies Lehmann ragiona sulla relazione tra teatro e politica nella Germania attuale, questione tornata di evidente pregnanza con l’acuirsi della crisi. Riflettendo sulla poetica di René Pollesch, miglior drammaturgo tedesco nel 2002 secondo la storica rivista «Theater heute», Lehmann scrive:

Questo non è tanto distante dal concetto di teatro politico di Brecht quanto potrebbe apparire. Il teatro, così trasformato, raccoglie una funzione antica dell’arte, quella di farci gettare un’occhiata alla realtà, là dove la realtà mostra i suoi tratti invero incomprensibili, folli e surreali. […] Attraverso percorsi molto diversi, come il ricorso alla performance, a forme di azione e al gioco condiviso con il pubblico, si tenta di far sì che il teatro si apra a ciò che potrebbe essere una specie di ricerca sociologica; ogni forma di ricerca pubblica avviene come “teatro”.[2]

La drammaturgia di ricci/forte va discussa tenendo presente questo contesto, che parte da alcuni punti ‘estremi’ della riflessione brechtiana e, passando per i movimenti degli anni Settanta e Ottanta legati all’utilizzo del corpo come forma di espressione artistica, arriva alle performance contemporanee. L’intento è di colpire lo spettatore mettendolo di fronte a una realtà che riconosca come propria e della quale possa intravedere aspetti e dimensioni che la quotidianità non lascia fuoriuscire dalle sue pieghe. «Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi dello spettatore, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra» scrive Antonin Artaud nel 1926, sottolineando come l’illusione, effetto fondante dell’estetica teatrale, debba scaturire non dalla verosimiglianza dell’azione, bensì dalla sua «forza comunicativa» e dalla sua «realtà».[3]

Non vogliamo che gli spettatori siedano a teatro su belle poltrone rosse assistendo passivamente, come davanti al televisore, alla nostra proposta. Al contrario, vogliamo offrire loro l’accesso a una performance che è strutturalmente frammentata. È come un’esplosione, come una bomba le cui schegge schizzano in tutte le direzioni. Con una metafora, noi diamo al pubblico una sorta di mappa grazie alla quale può costruirsi la propria performance. […] Forse il senso del nostro lavoro sta nel porre lo spettatore a confronto con un interrogativo, un interrogativo che originariamente proviene da noi, ma durante la messinscena si trasmette al pubblico. L’arte ci permette di diventare la voce dell’altro, di comunicare aspetti condivisi.[4]

Il passo dell’intervista è relativo all’ultima produzione dell’ensemble ricci/forte, IMITATION OF DEATH (2013), ispirato all’universo romanzesco di Chuck Palahniuk, un esperimento costruito sulla presenza in scena di sedici corpi e delle loro storie. L’assenza di trama e di personaggi strutturati è un carattere fondante del lavoro dei due autori, e nel corso degli anni e della pratica teatrale ha assunto una forma sempre più estrema. Le costruzioni che vanno in scena però non soffrono di assenza di forma, la struttura delle performance rigida e flessibile al contempo – lo scheletro drammaturgico si modella di volta in volta sulla base di parti lasciate all’improvvisazione – descrive una parabola esistenziale perfettamente conchiusa. L’avvio di IMITATION OF DEATH è una lenta, gravosissima nascita: gli attori a fatica si tirano su da terra barcollando sui loro altissimi tacchi,[5] simili ai quadrupedi che appena usciti dal ventre materno devono immediatamente imparare a stare in piedi e a camminare, procedendo a scatti con le zampe ancora malferme.

La conclusione è una bulimica, feticistica copula dei performer con oggetti appartenenti al proprio vissuto, accarezzati, leccati, amati e trangugiati in una riappropriazione letterale, anzi carnale, del proprio sé e della propria identità. Tra i due estremi una serie di quadri in cui corpi, suoni, parole, oggetti, luci si incrociano, si sovrappongono, si accavallano, si susseguono in un ordine chirurgicamente determinato che non teme nemmeno il buio assoluto sul palcoscenico. Ogni trancio, ogni «deflagrante innesco riflessivo»[6] è un’offerta totale e assoluta dei performer e degli autori al pubblico, che grazie alla rappresentazione decostruttiva di segni precostituiti – «una sorta di attentato simbolico/linguistico» –,[7] prova a riassemblare in un rito collettivo, di ricostruzione prima individuale e poi comune, un nuovo senso.

L’estetica fondata sul frammento come elemento base di un sistema poetico e artistico in genere, si muove sostanzialmente in due direzioni: la prima è quella del recupero di una autenticità legata all’utilizzo dello strumento espressivo nella sua forma più pura ed essenziale. La seconda è quella della fertilità, della capacità di produrre e dar vita a ulteriori nuove combinazioni, capacità che deriva dal suo essere un elemento di carattere micrologico e sintetico (il frammento non è il frutto di uno smembramento o di una parzializzazione, ma già prodotto di una sintesi) in grado di accelerare la dinamica e lo scambio delle idee. In termini medici è un «procedimento anatomico» che «fa a pezzi l’unità organica di un corpus drammaturgico e lo ricompone in un corpo spettacolare diverso, in cui l’orizzonte è contemporaneo, dove il paesaggio ha assunto altre forme, dove esiste una segnaletica attuale e il rapporto con il pubblico si nutre di rinnovate esperienze».[8] La riduzione a unità del molteplice, forma peculiare del misticismo, crea elementi che a contatto con altri materiali riflessivi si rigenerano poi in mescolanze inedite. «Scorciatoie» le definiva Umberto Saba, facendo riferimento a uno stile che aveva individuato nella scrittura di Nietzsche e di Freud, in cui brevitas e densità convivono in una forma aperta, dai confini permeabili e dunque con una incondizionata disponibilità a configurazioni differenti e a contaminazioni. La «via eccentrica», la chiamava Hölderlin, un percorso ellittico, imperfetto, con due fuochi, nel quale alla perfetta circolarità della sfera si contrappone un cammino che passa inevitabilmente attraverso il dolore della scissione:

La nostra scrittura, il pneuma implacabile dei nostri lavori, è un errore. Nel senso di spostamento dalla retta conosciuta. Collezioniamo tutta una serie di sbagli. Fallibili e incerti testiamo la nostra sopravvivenza attraverso questo clinamen. Lo scheletro ardente, che prova ad emettere conati di soccorso, le arterie soffocate da una tracimazione di sangue stanco di immobilità condizionata dalla ripugnante giostra delle apparenze, deviano la traiettoria modificando l’essenza dell’equilibrio.[9]

È in questo percorso eccentrico, in queste scorciatoie, che prende forma anche il rapporto di ricci/forte con il contemporaneo, oggetto quasi esclusivo della loro indagine teatrale. «La contemporaneità» scrive Giorgio Agamben riprendendo alcune riflessioni nietzscheane dalle Considerazioni inattuali, «è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo».[10] Lo sguardo sfasato è il necessario presupposto a cogliere l’aspetto costitutivo della realtà che si vive «poiché il presente non è altro che la parte di non-vissuto in ogni vissuto e ciò che impedisce l’accesso al presente è appunto la massa di quel che, per qualche ragione (il suo carattere traumatico, la sua troppa vicinanza), in esso non siamo riusciti a vivere. L’attenzione a questo non-vissuto è la vita del contemporaneo».[11]

La ricerca può articolarsi all’interno di un unico spettacolo o essere oggetto di una serie di performance, come accade in Wunderkammer Soap[12] in cui il nucleo vivo del teatro marlowiano è vivisezionato in sette squarci di circa mezzora: dal cortocircuito tra una visionarietà immaginifica fondata sul principio di accumulazione museale (Wunderkammer) e un sentimentalismo spicciolo, greve ma con un fortissimo effetto di compensazione (Soap opera), scaturisce una rappresentazione feroce di quella abissale frattura tutta contemporanea fra l’abuso di potere della realtà sull’individuo – soprattutto attraverso la televisione – e l’insopprimibile istinto a cercare una diversa pienezza di senso dell’esistenza.

Nelle architetture sovraccariche di oggetti, maschere, giocattoli prende vita un processo di graduale mondatura dei corpi, privati in un crescendo di interazioni perlopiù violente, di tutti gli strati accumulatisi nel corso di una sottomissione ai rituali di massa parodizzati sulla scena, che finiscono per annichilire la percezione del proprio soma. Il corpo, finalmente nudo e vivo, può tornare a essere oggetto di una vera e propria sacralizzazione, o, se si vuole, di una iconizzazione pittorica[13] o scultorea, quasi classica.

La nudità, che nella nostra cultura è inseparabile da una «segnatura teologica» (solo dopo aver violato l’imposizione di Dio Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi), torna ad essere veste sacra in quanto esposizione emotiva priva di riserve. È a tutti gli effetti la riconquista di quella «veste di grazia» o di luce che l’essere umano ha irrimediabilmente perduto dopo il peccato originale, abito sovrannaturale del quale è stato privato al momento della ‘caduta’, che lo ha costretto a coprirsi con foglie di fico e pelli di animali.[14]

Il performer indorato, incoronato, scritto, estratto a forza da una pelle di coniglio come un Cristo deposto (Macadamia Nut Brittle, 2009), è il segno tangibile della possibile riconquista di quella dimensione del divino che la carne ha strozzato in un compiaciuto, abbandonato addomesticamento privo di qualsiasi tensione vitale:

Il luogo dove l’invisibile diventa palpabile necessita di uno stato di concentrazione-trance del performer dove l’incandescenza ritmicoespressiva (sic!) muta stato trasformandosi in conduttore del divino. Il corpo è fuso sciamanico per scatenare sul palco le energie atte a dare significato all’azione. Il ritmo, l’assenza di intonazioni o lo sfrondamento da qualunque psicologismo borghese […] vengono coltivati per togliere, sedimento dopo sedimento, alla maniera dei non finiti michelangioleschi, ogni orpello di compiacimento. Lasciando lucente ed elastica una carenatura splendente d’osso di balena che funge da bussola in garanzia contro ogni tempesta magnetica fuori e dentro le nostre convinzioni.[15]

Lo scandalo allora non è il corpo nudo o il sesso violento simulato in maniera più o meno verosimile sulla scena, unico elemento di catarsi in un teatro che ambisce non tanto alla purificazione dalle passioni, quanto piuttosto a un graduale, cosciente processo di riconoscimento della loro essenza più autentica. Il corpo è denudato nell’estremo tentativo di acquisire il diritto a una rinascita, a un ritorno nel mondo: il nucleo poetico, estetico, ideologico su cui si basano le forme d’arte ‘estreme’ degli anni Settanta, così come lo ha sintetizzato Lea Vergine già nel 1974 – questi artisti sono alla ricerca dell’essere umano non castrato dal funzionalismo della società, che viva al di là delle leggi del profitto –,[16] si ritrova condensato e attualizzato in uno scontro diretto, spietato con il mondo contemporaneo. Lo scandalo sta tutto nella ossessionante perdita di senso degli sprazzi di non-vita sociale che compongono la nostra esistenza: la nudità non mette in mostra i corpi degli attori, serve piuttosto a disvelare l’ottusa sterilità di meccanismi fondati sulla sovraesposizione di un sé posticcio capace di agire soltanto sulla base di strutture precostituite, siano esse linguistiche, mimiche, intellettuali. È un processo critico, notava ancora Lea Vergine, anche se frequentemente ispirato da una estetizzante nostalgia per relazioni reali di cui non si è più capaci.[17] Una ambivalenza tutta postmoderna che porta sulla scena, con «l’uso dei corpi crudi […] la realtà e la materialità dell’esperienza performativa e fruitiva», ma che al contempo, con l’utilizzo di un linguaggio ipertrofico, poetico e triviale, alto e basso, ridondante, ci introduce «in una babele martellante di segni e significati».[18]

La rappresentazione fondata su questa poetica dell’autenticità non può tollerare né testo né personaggio. Il primo si riduce a «trama vocale», a «bolo fonetico»,[19] scaturito dal lavoro con gli attori, non precede, bensì segue la costruzione della ‘struttura corporea’ dello spettacolo, nata a sua volta dalle suggestioni del testo di ispirazione. Dalle lunghe sedute di prove e di colloqui con i performer, ai quali si lascia anche ampio margine per esprimere attraverso l’improvvisazione aspetti della propria individualità, nasce una tessitura dalle maglie strettissime che si muove in perfetto equilibrio tra lirismo, ironia, violenza verbale, poesia e intermezzi musicali dei generi più diversi: «Il testo perde così la sua funzione di capocomicato e aspetta, paziente, che altri segni rispondano all’appello prima di lui».[20] Il nucleo dell’ispirazione originaria – talvolta espressamente dichiarata nei titoli, come in Pinter’s Anatomy (2009) – è anch’esso ricreato grazie a un principio di sfasatura in cui dominano «il tradimento, lo sviamento, la dispersione» come procedimenti capaci di garantire «vitalità a un autore, alla sua maniera di intendere i rapporti tra gli uomini, nel suo e nel nostro tempo» consolidandone la memoria.[21] Ancora: «Un approccio barbaro, che non guarda all’autorità e alla normatività del sapere testuale tradizionale, ma procede per approssimazioni e collassi, ellissi e schianti. Il riferimento letterario si intreccia al caos quotidiano, alle sue marche, alle sue mode, ai suoi slang, a parole e nomi calcati come luoghi comuni».[22] Dal lavoro sulla scena e per la scena si genera dunque la scrittura di un teatro la cui peculiare natura non può sostenere un elenco dei personaggi, dei ruoli fissi, una gerarchia. Se la pratica teatrale ‘classica’ prevede di rappresentare l’umanità attraverso dei tipi che ne incarnino gli elementi costitutivi o una loro sintesi, nella ripetizione sempre uguale del testo, il percorso di ricci/forte si muove in direzione opposta. La persona – il performer – con il bagaglio del suo potenziale emotivo e passionale, talvolta con il proprio nome, la propria biografia e con i propri oggetti, nella sua dimensione creaturale, contribuisce alla creazione di uno spazio di realtà nuovo e unico: «Cercando insieme un nuovo modo di essere attori come co-autori, ci facciamo il regalo di queste scritture collettive irreplicabili, che per vivere ogni volta hanno bisogno di noi e di un pubblico disposto a beccarsi sputi e sudore, molliche e lacrime».[23] Il personaggio si fa persona, diventa carne, la performance non può ripetersi in maniera sempre uguale. Non ci sono mai repliche, mai partiture ritmico-gestuali fisse con parti prestabilite: sia la rotazione di alcuni ‘ruoli’, sia lo spazio lasciato all’improvvisazione del performer, prima nel percorso di costruzione dello spettacolo, poi in alcuni frammenti dell’opera conclusa, abbattono, in maniera ancor più radicale che non la violenza mimetica e linguistica o gli apparati scenografici, la quarta parete. È il concetto stesso di spettacolo teatrale che viene così messo in discussione, accogliendo in sé forme espressive più ‘moderne’ – la performance appunto – ma riavvicinandosi al contempo alla natura rituale e sensuale delle origini della poesia, alla sua dimensione dionisiaca. Emerge allora chiaramente il trait d’union che unisce immedesimazione e straniamento, realtà e rappresentazione, i due costituenti essenziali di un realismo paradossale e grottesco.

Così anche la dimensione spazio-temporale della performance non può essere assoggettata a dinamiche precostituite, ‘imposte’ dalla tradizione o dai canoni della rappresentazione teatrale. Bastano venti minuti o mezzora in un ambiente chiuso, claustrofobico, per assistere – in numero esiguo così da favorire l’interazione e la partecipazione – alla visione condensata, sintetica, pregnante di un brandello di contemporaneità spogliato di ogni possibile elemento consolatorio, di lacerti di vite ingabbiate in una dimensione priva di ogni forma di reale comunicazione. La tragedia, sfrondata dell’azione e del suo sviluppo in un tempo e uno spazio ‘ortodossi’, diviene campo di azione e di indagine dell’umano all’interno di quella «corrente comunicante» che si genera «tra noi e la lontananza mitica» e dalla quale, urlata e «nitida», fuoriesce «la voce dello sforzo che facciamo oggi».[24] Uno sforzo teso al recupero di quella forma di «amore primario» – il bisogno di essere amati per ciò che si è e per ciò che si vuole essere, il bisogno per un tipo di amore che concede diritti illimitati – quasi sempre irraggiungibile, e che per questa sua natura si tramuta nell’aggressività tipica delle azioni e delle performance.[25] Uno sforzo, ancora, teso a liberarsi di quella «cattiva, impotente memoria» prodotta dalle immagini televisive nel tentativo di ricostruire una «“buona memoria” […] rigettando ogni genericità e costruendo la durata attraverso un montaggio regolato di immagini singole prese nell’ampio rizoma delle proprie relazioni».[26]

Così come non esiste scandalo nella nudità dei corpi, nella sessualità esibita o nell’utilizzo sfrontato di un linguaggio estremo – tutti elementi, come si è già detto, impiegati come mero strumento di disvelamento delle dinamiche socio-culturali e mediatiche, quelle sì scandalose, che sviliscono il corpo e il linguaggio –, la natura trasgressiva della poesia di ricci/forte non è da rintracciarsi in un semplice gesto di contestazione, ma va ricercata in quello spazio di interazione, di gioco continuo, con il senso del limite. L’atto estetico eversivo assume allora un valore che non è più, o non è solo, di rottura dei generi letterari e delle convenzioni sociali, diventa invece illuminazione di una zona di incertezza – «di certezze subito rovesciate» – capace di mettere il pensiero in una momentanea condizione di disagio:

La trasgressione non sta dunque al limite come il nero sta al bianco, il proibito al permesso, l’esteriore all’interiore, l’escluso allo spazio protetto dalla dimora. Essa è legata al limite, piuttosto, secondo un rapporto di avvolgimento di cui nessuna effrazione da sola potrà venire a capo. Forse qualcosa di simile al lampo nella notte, che dal fondo del tempo conferisce un essere denso e nero a ciò che nega, la illumina dall’interno e da cima a fondo, le deve pertanto la sua viva luminosità, la sua singolarità lacerante ed eretta, si perde in questo spazio che si designa con la sua sovranità, e infine tace dopo aver dato un nome a ciò che è oscuro.[27]

La similitudine di Foucault, legata in questo caso a una riflessione generale sulla nascita e lo sviluppo del linguaggio e al suo utilizzo letterario, richiama alla mente uno dei frammenti più impressionanti di IMITATION OF DEATH, in cui il gruppo dei performer si muove nel buio completo sulla scena e una sequenza di lampi a intervalli regolari ne illumina, pietrificate nella fissità del bagliore improvviso e folgorante, le diverse pose, quasi acrobatiche. Chi assiste vede in questa sequenza di flash, di quadri viventi a intermittenza, la rappresentazione del fondo viscoso su cui il contemporaneo homo videns scivola di continuo, alla ricerca di una identità salda che sfugge per la costante oscillazione tra l’esortazione insopprimibile al «sii te stesso» e l’altrettanto insopprimibile desiderio di autorappresentazione, di persistente esposizione mediatica.


1 A. Porcheddu, Impronte emotive del nostro tempo. Colloquio con Stefano Ricci e Gianni Forte, in ricci/forte, Macadamia Nut Brittle (primo gusto), a cura di A. Porcheddu, Corazzano, Titivillus, 2010, p. 37.

2 H.-T. Lehmann, Dramma didattico, teatro post-drammatico e questione della rappresentazione, «CoSMo. Comparative Studies in Modernism», 2, 2013, p. 20. Nell’articolo il teorico del teatro post-drammatico e post-brechtiano (cfr. Id., Postdramatich Theatre, New York, Routledge, 2006), mette in luce come alcuni aspetti del teatro ‘post’ fossero presenti in nuce nel complesso frammento di Brecht Fatzer. Secondo Lehmann, il fondamento di questo articolato progetto cui Brecht lavorò fra il 1926 e il 1931, sono elementi quali: la «performatività che genera senso» in «un teatro in cui il senso viene scoperto, in primo luogo, recitando» (p. 23), e la dimensione rituale e collettiva della rappresentazione in cui «l’opera […] avviene soltanto nell’evento della cerimonia di rappresentazione, che si realizza insieme al pubblico» aprendo «lo spazio di un teatro al di là (del primato) della rappresentanza», che così «archivia la sua condizione di separatezza da sapere, dibattito, festa, scuola, eccetera, come semplice finzione estetica» (ivi, p. 27).

3 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio. Con altri scritti teatrali, a cura di G. R. Morteo, G. Neri, prefazione di J. Derrida, Torino, Einaudi, 1968, p. 7.

4 «Wir wollen diesen kindlichen Blick wiedererlangen», intervista a «Aurora. Magazin für Kultur, Wissen und Gesellschaft», http://www.aurora-magazin.at/medien_kultur/wolf_rifo_frm.htm (ultima consultazione 10.05.2013; traduzione mia).

5 Un’analisi dettagliata della funzione simbolica di questo accessorio nel teatro di ricci/forte, con uno sguardo all’estetica camp e queer, si legge in F.P. Del Re, I senzascarpe di ricci/forte. Desideri di fluidità mediale e identità alla deriva, in ricci/forte, Mash-up Theater, a cura di F. Ruffini, Roma, Editoria & Spettacolo, 2010, pp. 81-99.

6 A. Porcheddu, Impronte emotive, cit., p. 29.

7 Ibidem.

8 R. Canziani, Anatomie per Harold Pinter. Alcune osservazioni a proposito di pinter’s anatomy, in ricci/forte, Mash-up Theater, cit., p. 120.

9 ricci/forte, Fata Morgana, ora pro nobis (cupo splendore). 4 passi nel bosco di ricci/forte, conversazione con Anna Maria Monteverdi, in ricci/forte, Grimmless, prefazione di O. Ponte di Pino, Corazzano, Titivillus, 2012, p. 69.

10 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, Roma, Nottetempo, 2009, p. 20.

11 Ivi, p. 30.

12 Le prime cinque vanno in scena nel 2007 al Festival Internazionale Castel dei Mondi, le ultime due sono state realizzate per il Romaeuropa Festival nel 2011.

13 «Le wunderkammer sono percorse da un’ossessione per il “quadro” (inquadratura cinematografica, ma soprattutto quadro pittorico), cosicché la trasmutazione-metamorfosi dell’eroe tragico può dirsi completa soltanto con la fissazione pittorica di un’immagine della sua nuova forma». Così Ranzini, a proposito di Wunderkammersoap, nel suo saggio Una riscrittura postmoderna del mito letterario, in ricci/forte, Mash-up Theater, cit., p. 60.

14 Cfr. G. Agamben, Nudità, in Id., Nudità, cit., pp. 85-87.

15 ricci/forte, Fata Morgana, ora pro nobis (cupo splendore), cit., p. 70.

16 Cfr. L. Vergine, Body Art and Performance. The Body Art as Language, Milano, Skira, 2007, p. 8. Molte volte, scrive l’autrice, abbiamo a che fare con esperienze che sono «autentiche» e di conseguenza «crudeli e dolorose».

17 Cfr. ivi, p. 12.

18 F.P. del Re, I senzascarpe di ricci/forte, cit., p. 75.

19 ricci/forte, Fata Morgana, ora pro nobis (cupo splendore), cit., p. 70.

20 F. Ruffini, Conversazione (doppia) con Stefano Ricci e Gianni Forte, in ricci/forte, Mash-up Theater, cit., p. 25.

21 R. Canziani, Anatomie per Harold Pinter, cit., p. 129.

22 F.P. del Re, I senzascarpe di ricci/forte, cit., p. 68.

23 F. Ruffini, ricci/forte: teoria del gioco, in ricci/forte, Mash-up Theater, cit., p. 12.

24 F. Ruffini, Conversazione (doppia), cit., p. 28.

25 Cfr. L. Vergine, Body Art, cit., p. 7.

26 Così G. Didi-Huberman, Costruire la durata, in J.-L. Nancy, G. Didi-Huberman, N. Heinich, J.-C. Bailly, Del contemporaneo, a cura di F. Ferrari, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 52. La riflessione dell’autore prende spunto dall’analisi di una scultura di Pascal Convert, esaminata alla luce della labilità delle immagini di guerra e sofferenza cui veniamo quotidianamente esposti, e confrontata nell’ultima parte del saggio con la critica radicale alle immagini televisive e della carta stampata in alcune riflessioni di Agamben, frutto a loro volta di una rielaborazione dei principi teorici del testo di G. Debord, La Société du spectacle (1976).

27 M. Foucault, Prefazione alla trasgressione, in Id., Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 59.