Intervista a Mariangela Gualtieri

di , ,

     

Nel novembre del 2017, in occasione di una lezione con gli studenti del Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania, abbiamo incontrato Mariangela Gualtieri e le abbiamo chiesto la disponibilità a dialogare con noi. Dopo un breve scambio di battute, il dialogo è avvenuto a distanza, al riparo da distrazioni e condizionamenti. Quello che qui pubblichiamo è l’esito di un confronto aperto e ragionato, che conferma una volta di più il fatto che Mariangela Gualtieri sia una delle voci più coerenti e appassionate del nostro presente.

 

 Mariangela Gualtieri © Rolando Paolo Guerzoni

 

D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

 

 

D: Tra tutti i poeti viventi, si potrebbe dire che in nessuno come in te sembra incarnarsi una modalità di fare poesia che sembra ricondurla direttamente alle sue origini. Così come avveniva, ad esempio, nella Grecia antica, la tua poesia nasce, per usare l’espressione che utilizzi nella chiusura di Fuoco Centrale, «sempre a ridosso della scena», ossia già per la voce, per un corpo che la dice o la canta, per il suono. Ti andrebbe di dirci in che modo senti una simile peculiarità, che ti pone in una sorta di terra di mezzo tra la poesia scritta e la tradizione orale, tra la parola da leggere e quella ascoltata?

 

R: Grazie per quello che dici: sento il nostro lavoro molto vicino alle origini, al teatro dei tragici greci soprattutto. La poesia è nata dapprima come fatto acustico, come parola orale, ritmica e musicale e per noi questo ancora resta l’elemento centrale. Come dicevo, sono nata come poeta dentro una modalità o cifra in buona parte imposta dal modo di comporre di Cesare. Il suo teatro non è mai narrativo, né esattamente progettuale. Si parte dalla scelta degli interpreti e di un luogo in cui provare, e questi direi che sono i fattori basilari della scrittura registica. Poi ci si raccoglie intorno ad un germe luminoso che spesso è definito ma spesso non lo è, e da lì anche io comincio a scrivere. Ciò che sento è di fare un salto nel vuoto, e questo dà grande ebrezza ma anche una certa paura, e il clima è sempre quello di un esordio. Il passato viene dimenticato, si tiene di esso solo ciò che si è depositato in noi, solo ciò che facendosi nutrimento è diventato noi, e si va leggeri, senza storia, senza a priori. In questo senso riconosco un nomadismo strutturale alla base del nostro fare teatro, anche se in apparenza siamo a Cesena, in realtà il nostro bagaglio è il bagaglio minimo di una tribù nomade. (Anche materialmente, ciò che dall’inizio continua ad essere con noi sono lunghe canne, tele, colori basilari come il bianco il rosso e il nero). Appena scritto, ogni mio testo passa al vaglio dell’oralità, viene dopo poco pronunciato dall’attrice o dall’attore per il quale è stato scritto, e che già nel momento della precipitazione poetica tengo con me, nel mio cuore/mente. È una strana scrittura, quasi un luogo impossibile della scrittura perché da un lato si chiede al testo di vibrare della forza dell’ispirazione, e dall’altro vi sono requisiti ai quali il testo deve rispondere e soprattutto un tempo obbligato. Una strana condizione di libertà coatta, se l’ossimoro non fosse eccessivo, di libertà nell’obbedienza.

 

D: In un’intervista che hai rilasciato di recente all’Acting Archives Review sottolinei il fatto che la tua carriera da poetessa si inaugura con i versi «PARLAMI CHE / IO ASCOLTO PARLAMI CHE / MI METTO SEDUTA E ASCOLTO», versi che accosti a una sorta di invocazione alle Muse riconducibile a Omero o a Dante. Ci sembra che proprio un simile esordio, che si fa quasi manifesto della tua poetica – o, meglio, della modalità in cui ti avvicini alla poesia – delinei al meglio il ruolo quasi profetico che in te assume l’essere poetessa, non inteso come portatore di una verità da rivelare, ma come il farsi tramite di qualcosa che non si possiede ma che piuttosto ti possiede per venire alla luce. In che modo ritieni che avvenga questo tuo divenire quasi un mezzo inconsapevole del discorso poetico, che sembra quasi portarti a ‘essere scritta’ piuttosto che a scrivere o a ‘esser detta’ piuttosto che a dire?

 

R: Forse questa è la presunzione più grande, cioè pensare che qualcosa venga alla luce tramite noi, che qualcosa ci scelga per venire al mondo. Tuttavia è esattamente ciò che provo, cioè l’essere presi dalla parola piuttosto che prendere la parola. Per questa nascita della parola, che pare così accolta e spontanea, vi è a monte un lungo, accurato, incessante esercizio di attenzione alla parola. Attenzione nell’ascolto di chi prima di noi ha scritto, della voce di chi è vivo adesso insieme a noi, dell’ascolto del mondo, dell’ascolto di ciò che sbrigativamente chiamiamo natura. E anche dell’ascolto di ciò che non sappiamo, ambito per il quale non serve l’intelligenza ragionante ma ne serve piuttosto una intuitiva, o quello che Cristina Campo chiamava l’organo del mistero.

 

 

D: Nella medesima intervista accenni al fatto che la tua poesia diviene maggiormente ‘lirica’ al di fuori del lavoro scenico di Cesare Ronconi, mentre all’interno di esso assume una dimensione più «epica», «coreutica» ed «elegiaca». Ti andrebbe di spiegarci meglio queste differenze e in che modo e perché avviene questa variazione?

 

R: Quando scrivo al di fuori della scena, sono sola e in ascolto di qualcosa che non so. So che qualcosa si è accumulato dentro di me, e in modo lento e libero, lascio che fluisca, che si componga sulla pagina. È spesso una scrittura che celebra la natura e le forze arcaiche che nella natura riecheggiano, oppure una scrittura che precisa le sottigliezze d’un sentire, dettagli della così detta realtà che vengono all’evidenza e assumono una densità particolare. Nella scrittura per la scena, i miei versi sono solo una parte della più vasta scrittura scenica, nella quale vi sono vari elementi: i corpi e le voci degli attori, le azioni, le luci, i suoni, gli oggetti di scena, ecc. Cioè, in teatro i miei versi debbono in qualche modo servire un più complesso giro di forze, allo stesso tempo farne parte e concordare musicalmente, ritmicamente coi dettami della regia e con tutto il resto. Poi posso dire che il lavoro di Cesare si addensa spesso attorno al coro: tutti gli interpreti hanno lo stesso rilievo, non ci sono prime attrici o primi attori, e tutti sono sempre in scena, perché appunto è l’energia di tutti che tiene sospesa la scena. Sono quindi chiamata a scrivere per un coro, per una tribù, e il ‘noi’ diventa inevitabile, come pure l’afflato comune, quasi ci fosse un comune nemico contro cui battersi. Tutto questo porta immediatamente all’epica, anche perché questo teatro, nei meccanismi profondi che tocca, fa sì che anche il pubblico divenga comunità, quasi comunità istantanea. Nell’epica l’ ‘io’ viene bruciato a favore di uno sguardo più dilatato che individua nei movimenti della tribù umana i riverberi delle potenze cosmiche. Nell’epica insomma l’occhio è puntato sul destino della specie, su quegli aspetti che il tempo non modifica e che dunque attraversano la storia, le generazioni, riproponendosi. La poesia fa proprio questo, rivela quanto vi è di permanente nel trascorrere delle epoche storiche e delle mode.

 

 

D: Leggendo le tue opere e ascoltando e leggendo le interviste che hai rilasciato, si percepisce in modo netto la centralità del silenzio nella tua ricerca e, insieme, la forza centrifuga esercitata da esso sulle tue parole, che finiscono per rifiutare ogni narratività e ogni significato univoco e strutturato, in favore, piuttosto, degli inesauribili echi e richiami dati dalle infinite possibilità dei significanti. Come spieghi il tuo rapporto con la parola, in questa quasi paradossale necessità di ricorrere ad essa come strumento per trascenderla e pervenire al silenzio che essa cela?

 

R: In questo tempo storico, la mia impressione è di vivere su un foglio già fittamente scritto e scarabocchiato e dunque ogni altra scrittura, ogni altro atto espressivo viene inghiottito da questa pagina, che non è più bianca ma densa di segni ormai illeggibili, per quantità e rumorosità di fondo. Sento con certezza che il silenzio è il luogo in cui meglio ora si accumula potenza (non potere ma potenza), il luogo in cui ogni vocazione può precisarsi e fiorire. Ma c’è come dicevo una congiura del silenzio, tutto pare determinato nel non farlo accadere, nel tenerci lontani da questa dimensione che in fondo abbiamo abitato per migliaia di anni e che ora abbiamo abbandonato, almeno in occidente. Chiunque voglia frequentare il silenzio deve ora con grande determinazione, con ostinazione direi, ritagliarsi una bolla nel frastuono del mondo. Lo si può fare dunque soprattutto astenendosi da pratiche quotidiane molto affascinanti ma di grande intralcio per chiunque voglia per davvero cominciare a diventare ciò che è. L’assillo dei telefoni cellulari, ad esempio, questo canale continuamente aperto con tutto il folto gruppo di persone che costituiscono per ciascuno il proprio mondo; ecco, questa possibilità che in qualunque istante qualcuno possa intromettersi fra me e me, fra me e la mia preghiera, fra me e il mio ascolto, fra me e la mia demenza perseguita, o fra me e la mia più brillante follia, fra me e il mio abbandono… Come si può servire un’arte, una vocazione, lasciando la porta aperta a qualunque intromissione? C’è una troppo fitta rete di frequentazione fra umani e questo indebolisce la salutare, vitale relazione di ciascuno col proprio sé e col proprio silenzio. Ma oltre al cellulare, lo sappiamo, vi sono tutte le altre fascinazioni tecnologiche che ci rapiscono in un continuo intrattenimento. Senza silenzio, io credo, non si arriva alla sala del trono. Senza silenzio non ci vengono riempite le mani di doni. E il silenzio è uno degli elementi naturali, il quinto, secondo me: acqua aria fuoco terra e silenzio. Soprattutto mi preoccupa negli adolescenti questo diminuito dialogo di ognuno con se stesso, sempre impedito appunto dalle varie fascinazioni tecnologiche. C’è una sorta di sponda interiore che si crea spontaneamente in giovane età, che dovrebbe crearsi spontaneamente, una sponda su cui appoggiare il mondo, tutto il fuori di noi che chiamiamo mondo. E su questa sponda cadono gli eventi del mondo e noi impariamo a collocarli nel loro giusto posto, dando ad ognuno il peso ed il valore che merita. Ora questo meccanismo che per millenni ha funzionato, nel silenzio, anche nella noia, viene inceppato dall’assillo tecnologico che ci tiene sempre occupati fuori di noi. E dunque si finisce con l’essere interiormente senza appoggio, in un caos dove si confonde il valore delle cose e delle esperienze. Da ultimo vorrei ricordare che la poesia ha proprio questa peculiarità: è parola che tiene con sé il silenzio, parola che ha al proprio centro il silenzio, a differenza della narrativa che pone al centro la parola stessa. Credo che ogni poeta sia esperto di silenzio.

 

 

D: Nel momento, poi, in cui questa tua specifica modalità quasi sacrale di utilizzo della parola incontra la scena e il corpo degli attori, genera, attraverso il lavoro di Cesare Ronconi, quella dimensione teatrale e visiva potente che caratterizza da sempre i vostri spettacoli. Una dimensione visiva che, al pari della relazione tra parola e silenzio che attraversa la tua ricerca di poetessa, sembra perennemente tesa alla creazione di immagini che contengano in sé costantemente anche il loro silenzio, ossia il buio dal quale provengono e nel quale precipiteranno. In che modo si rapportano queste due ricerche parallele tra parola e silenzio e tra immagine e buio nel vostro percorso e nelle opere che realizzate insieme?

 

R: È sempre difficile precisare il come o il perché. C’è un bel motto di Fausto Melotti che recita così: «L’arte è tempo felice, è teatro dell’anima e il perché si nasconde». Ed è proprio così. C’è un perché che si nasconde: a volte tutto si addensa, si condensa, prende forma e voce, e noi stessi non sappiamo bene come ciò sia avvenuto. Posso dire che io cerco di sottomettermi ai dettami della regia e mi attengo alle indicazioni che da questa provengono. Porto le mie ragioni e spesso non capisco in che direzione Cesare stia procedendo. Ma in ogni modo la mia fiducia in lui mi zittisce e mi fa stare in paziente attesa dei suoi tempi e delle sue scelte che spesso sono per me sorprendenti. E questo è anche ciò che mi piace. Poi ci sono a volte conflitti e tensioni, incomprensioni o impazienza, anche perché tutto avviene dentro tempi stretti, in una economia minima e dunque non c’è tempo per lentezze o rimandi. Ma poi è la scena a indicare la strada e fino ad ora tutto si è risolto in buona armonia, e questo perché al fondo vi è un identico sentire, fra me e Cesare, pur nelle nostre diversissime ritmicità, uno stesso modo di intendere il teatro come arte e come rito, la stessa aspettativa e lo stesso rispetto nei confronti di chiunque entri a fare compagnia con noi e lo stesso grande rispetto nei confronti del pubblico e del tipo di intensità perseguita nel rapporto col pubblico.

 

D: Sia tu che Cesare Ronconi avete studiato Architettura all’Università. Inoltre, la peculiarità della tipologia del vostro lavoro, il vostro essere una compagnia di ‘teatro di ricerca’, vi avrà certamente portati ad attraversare spazi molto differenti, probabilmente non convenzionali, sia prima di approdare alla vostra attuale sede a Cesena, che nella circuitazione delle vostre opere. E, ancora, Ronconi ha più volte fatto riferimento al fatto che, nell’elaborazione dei vostri lavori, è sempre il luogo a ispirarlo, in una direzione che vada contro ogni possibilità di ‘capitalizzazione’ di esso. Ti andrebbe di raccontarci il rapporto che si instaura tra gli spazi dei vostri laboratori, delle vostre prove e dei vostri spettacoli e questi ultimi? Quegli spazi, inoltre, modificano in qualche modo anche la tua scrittura, quasi scrivessi le tue opere per il teatro con un occhio – e un orecchio – ai luoghi che esse abiteranno?

 

R: I luoghi, così come le attrici e gli attori, sono elementi basilari e fondanti della drammaturgia. Direi quasi che a volte vengono prima loro e solo dopo arrivano le parole. Il luogo è il campo di forze, è innanzi tutto un punto del corpo celeste che abitiamo, un punto in relazione con l’universo. È dunque lontana da noi l’idea del travestimento di quel luogo in altro, cosa che invece avviene spesso in un certo modo di intendere la scenografia. Ciò che Cesare dispone nello spazio e come lo acconcia, è quasi sempre il minimo, il tanto che serve per togliere i connotati distraenti e farne pagina bianca. E anche per far sì che la luce, altro elemento naturale, vivo, manifesti appunto il proprio incanto, nel suo gioco con l’ombra. Poiché il nostro teatro si muove sul presente e direi che è un atto d’attenzione piena e d’amore verso il presente, il luogo in cui quel presente accade ha una ovvia centralità. Abbiamo amato moltissimo certi spazi aperti, come le cave di tufo dismesse del Salento, il greto del fiume Marecchia, le Crete Senesi, punti del mondo talmente potenti da sostenere il nostro entusiasmo malgrado la fatica estrema di lavorare nella polvere, sotto il sole o con la pioggia, in condizioni davvero estreme. E più di recente l’Arboreto di Mondaino, col suo bel teatro e il bosco e la campagna intorno. Lì siamo rimasti tre mesi e il teatro e il bosco hanno certamente influenzato sia la mia scrittura che la regia di Cesare.

 

D: Nel tuo lavoro utilizzi quasi esclusivamente la lingua italiana, eppure, lungo il tuo percorso, hai fatto ricorso anche al tuo dialetto, al romagnolo. Quali sono per te, se ci sono, le differenze principali tra le due lingue nella tua ricerca poetica? Senti che, in qualche modo, la lingua romagnola – che è una lingua forse più intima, viscerale, infantile, vicina alle radici – possa pervenire in modo più efficace a quel fondo enigmatico, incomprensibile e ancestrale nascosto dietro il linguaggio, cui costantemente tenti di attingere attraverso la tua poesia?

 

R: Certo, la tua domanda contiene anche parte della mia risposta. Ho scritto in dialetto soprattutto per Gabriella Rusticali, attrice storica della compagnia che parlava molto bene il dialetto romagnolo. Altre volte ho scritto in quella che io definisco ‘lingua rotta’. Spesso l’italiano corretto non funziona in scena, soprattutto quando si tenta di comunicare una particolare intensità del sentire, o dentro una certa scompostezza del corpo. In questi casi anche la lingua deve scomporsi, rompersi appunto, e allora cerco di cadere dentro la memoria delle mie nonne semi-analfabete e di ritrovare la loro lingua, quel loro italiano che, quando cercavano di parlarlo uscendo dal dialetto, era ricco di invenzioni linguistiche. Ricchissimo e molto espressivo. Non è un caso che i più interessanti drammaturghi italiani del mio tempo facciano uso di dialetto – penso a Scaldati e a Moscato – o di lingue rotte come nel caso di Testori. In altri casi ho inventato delle lingue: per Fuoco Centrale ad un certo punto ho sognato una lingua, la parlavo in sogno, e appena sveglia ho trascritto i suoni che ricordavo. Ma anche nell’italiano, credo sia una peculiarità della mia scrittura l’avere in sé alcune scorrettezze sintattiche e grammaticali, l’uso improprio delle preposizioni ad esempio, o certi echi dell’italiano duecentesco, e penso che tutto ciò sia legato alle mie nonne romagnole e alla lingua monumentale e buffa che parlavano con solennità quando cercavano di parlare italiano. Io ho trascorso la mia infanzia con queste due donne, - di cui una era una specie di orchessa, grande, irruente, molto teatrale, e l’altra era invece una vecchia fatina, magra, esile, silenziosa - e dunque considero questo loro italiano mia lingua madre. D’altro lato il dialetto stesso è lingua carica di affettività e di uguaglianza: si è subito fratelli quando si parla in dialetto, subito tutti figli della terra e dunque fratelli e sorelle. Tutto ciò mi sembra tenga viva la lingua, viva e parlante, non intimidatoria come invece è certo italiano alto, non troppo cerebrale, ma vicina al corpo, alla sapienza ed espressività del corpo. Come ho detto altre volte, mio sommo maestro in questo tentativo è Dante: da lui ho preso l’immenso ambire verso una lingua bassa capace però di dire il Paradiso, cioè le cose più alte e indicibili. E questa è anche la richiesta del mio regista che mi esorta verso una scrittura dotata di immediatezza e di intensità.