Una donna emerge dal buio: il busto di tre quarti, il volto semicoperto da una veste, una mano alla bocca e le sopracciglia leggermente aggrottate. Lo sguardo cattura l’attenzione, l’unico occhio che le si vede è velato, metallico, innaturale: cieco. Si tratta del ritratto fotografico di una rifugiata, scattato nel 1985 in Mali da Sebastião Salgado.
La voce che ce lo rivela è quella di Wim Wenders, regista del documentario Il sale della terra, diretto a quattro mani con il videomaker Juliano Ribeiro Salgado che ha iniziato la propria carriera seguendo il padre in alcune campagne fotografiche.
È difficile stabilire se il regista tedesco dica la verità quando racconta di aver acquistato la foto in questione da un gallerista molti anni prima, senza conoscerne l’autore, attirato solo dalla forza magnetica del non-sguardo espressivo e dolente di quella donna e dalle ombre pesanti che le disegnano il volto e le mani. O se questo non sia solo un espediente narrativo per mettere in moto la trama del documentario che parla della vita (delle ‘vite’, verrebbe da dire) e delle opere di Sebastião Salgado. Classe 1944, brasiliano, studi in Economia, in fuga dal proprio paese sul finire degli anni ’60 durante la dittatura. Dopo l’arrivo in Europa con la moglie Lelia, Salgado dapprima gira il mondo al seguito di alcune importanti aziende per le quali lavora. Nel 1973, d’accordo con Lelia, decide di abbandonare la professione di economista e di seguire la propria vocazione di fotografo. Si assenta da casa per settimane, e a volte mesi, per inseguire i propri soggetti: lavoratori, profughi, bambini, donne. Si reca più volte in Africa (Mali, Mozambico, Angola), in America Latina, in Medio Oriente, in Artide. E ogni volta che imbraccia la sua inseparabile Leica scandaglia i corpi e le anime delle persone che ritrae, senza mai mancare di rispetto al loro dolore, anzi riesce a tal punto a imprimere nelle immagini le sofferenze dei soggetti ritratti che queste sembrano risuonare attraverso le fotografie. Da tali lunghi viaggi scaturiscono le sue opere, monumentali sia per la quantità degli scatti che per la forza espressiva: Other Americas (1986), frutto del suo lungo soggiorno tra le comunità andine del suo continente; Sahel: Man In Distress (sempre 1986), sulla terribile carestia che aveva afflitto la regione africana; Workers (1993) una sorta di internazionale dei lavoratori di tutte le latitudini; e infine Genesis (2003) monumentale fatica (fino ad un mese fa in mostra anche a Milano) in cui l’elemento umano lascia spazio al paesaggio, in un corpus di immagini che sembra realizzato nella notte dei tempi, all’origine di tutto.
Il sale della terra racconta quindi della fotografia come vocazione e come mezzo per avvicinarsi alle persone e alle loro storie. Le raccolte di Salgado sono importanti soprattutto per due aspetti: l’innegabile forza iconica degli scatti da un lato e dall’altro il potere di testimoniare e di portare alla conoscenza del mondo alcune tragedie dimenticate e altrimenti completamente ignorate.
Dal punto di vista artistico la tavolozza di Salgado è composta da una vasta gamma di grigi, tra il bianco abbacinante dei ghiacci artici e il nero degli occhi dei bambini africani in fuga dalla fame e dalla guerra: in tutti i casi i suoi soggetti sono complici di questi ritratti, quasi presaghi dell’affetto e dell’empatia che sarebbero emersi dopo lo sviluppo delle foto. Wenders non è indifferente al puro valore figurativo delle immagini: nonostante il suo sia un cinema prevalentemente narrativo, spesso realizzato a partire da opere letterarie, si è formato a una vera e propria école du regard (fra pittura e architettura) prima di scegliere come ambito d’elezione la settima arte. Il regista oscilla spesso tra il cinema di finzione e il documentario (sintesi perfetta il commosso Nick’s Movie sugli ultimi mesi di Nicholas Ray), tuttavia ne Il sale della terra abdica a molte delle sue scelte linguistiche per uniformarsi all’universo salgadiano: alla sua cromia minimale, contrastata, alle sue immagini statiche. Non rinuncia però al racconto, che assume contorni epici grazie alla magniloquenza delle opere di Salgado, mosse da una forte tensione antropologica ed etica.
La forza degli scatti sta infatti nell’aura che conferiscono ai soggetti senza alterarne umanità e immediatezza: Salgado dà vita a una galleria di persone e non di personaggi, siano essi lavoratori di una miniera brulicante di uomini, donne profughe, orfani affamati, vigili del fuoco impegnati a spegnere pozzi di petrolio in fiamme in un paesaggio più simile all’inferno che alla Terra. Ed è così che Wenders dipinge il fotografo: ritratto contro un fondo nero, il volto in primo piano che emerge con la forza plastica di un busto rinascimentale, mentre racconta dei suoi viaggi e dei suoi incontri e di come abbia trascorso gli ultimi 40 anni in bilico tra la voglia di raccontare gli orrori non di una ma di tante guerre e carestie e il dolore di condividere le sofferenze degli altri.
Questo del resto Wenders dice di aver capito di Salgado, ancora prima di incontrarlo: «Gli importava davvero della gente: dopotutto la gente è il sale della terra».