Per molti artisti della generazione di Viola (New York, 1951), la tecnologia elettronica ha rappresentato una rivoluzionaria possibilità per lavorare con le immagini in movimento. Un’occasione straordinaria rispetto all’offerta data fino a quel momento dalla pellicola, materiale costoso e con una natura comunque statica. Con i suoi molteplici vantaggi – dovuti sia alla simultaneità e duttilità del segnale, che al supporto magnetico – la tecnologia elettronica ha aperto nuovi orizzonti di ricerca e conoscenza, con ripercussioni sorprendenti sulle dinamiche dello sguardo.
L’arte di Viola è parte di questo scenario, ma se ne è anche distinta, diventando un unicum nel contesto della sempre più numerosa famiglia videoartistica internazionale.
L’intero lavoro dell’artista statunitense, uomo colto e attento osservatore della propria epoca, ha tra gli elementi portanti una profonda e aggiornata conoscenza della tecnologia. Il suo utilizzo concorre a declinare una struttura, una forma e gli esiti estetici di una visione che in Viola assume i tratti di una pratica contemplativa. Contravvenendo agli schemi comunicativi dominanti, la visione di Viola è, infatti, innanzitutto un’«idea» al servizio della conoscenza. Per essere alimentata ha bisogno di scorrere lungo le linee del tempo, dello spazio e del sapere che, nelle varie indagini estetiche condotte dall’artista nell’arco della sua carriera, appaiono dilatati, potenziati e infranti nei rispettivi limiti. Inoltre, per essere condivisa, l’idea, o visione, necessita anche di essere tradotta in una forma adeguata, chiaramente accessibile e percepibile dallo spettatore.
Nel corso del 2014, a Parigi, quanto qui sintetizzato è emerso in modo eloquente.
Il 21 luglio 2014 si è conclusa quella che, a detta di molti, può essere considerata la più imponente esposizione dedicata finora a Bill Viola. Ospitandone le opere all’interno del novecentesco Palazzo ‘delle arti’, il Grand Palais de la Ville, Parigi ha reso un importante omaggio all’artista statunitense celebrandolo per la prima volta, e a più di quarant’anni dal suo esordio, all’interno del circuito dei Musei nazionali francesi (che, per inciso, prima d’ora non avevano mai accolto una mostra di videoarte).
Nel 1983 questa stessa città era stata la prima in Europa a esporre una sua piccola monografica, e lo aveva fatto nell’allora sezione del Musée d'Art Moderne riservata alla sperimentazione contemporanea, l’ARC - Animation/Recherche/Confrontation. Poco più che trentenne e già un nome nel panorama videoartistico internazionale, in quell’occasione Viola – cognome italiano che si pronuncia come si scrive – era giunto nel capoluogo francese con alcuni suoi videotape e due nuove installazioni, An Instrument of Simple Sensation e la più conosciuta Room for St. John of the Cross. Quell’esordio ha lasciato il segno in un bel catalogo e nei saggi di firme diventate prestigiose,[1] ma ha pure contribuito, con il suo ragguardevole seguito, all’affermazione dell’artista ben oltre il contesto statunitense.
Per il valore della sua arte e la portata dell’evento, la mostra del Grand Palais rimarrà anch’essa nella storia. Per chi non ha avuto la possibilità di visitarla, il presente testo potrà essere, forse, un modo alternativo per farlo. Chi ne scrive, invece, approfitta di ciò che ha visto per fare, a freddo, il punto su uno dei più importanti artisti contemporanei, nel tentativo di mostrarne il lavoro al di là del momento e delle tendenze. Il perché cerco di spiegarlo in poche righe. Come in genere accade per le grandi mostre, anche in occasione dell’esposizione parigina dedicata a Bill Viola tantissime sono state le recensioni della stampa internazionale.
Di fronte a questa marea di pagine, alcune delle quali tese a mettere in evidenza, come sempre capita nei confronti di questo artista, l'aspetto ritenuto new age, orientale, spirituale, mistico e via di seguito, ho sentito il bisogno di un approfondimento che, pur prendendo le mosse dalla esposizione, prendesse in esame tutta una serie di aspetti generalmente meno studiati e che necessitano – sia perché snodi estetici, sia per il sostegno alla riflessione su alcuni temi – un richiamo anche a opere non contemplate per la mostra. Poiché, però, il testo si collega alla retrospettiva del Grand Palais, dopo una breve introduzione biografica (finalizzata a una migliore comprensione del profilo professionale di Viola), alcune righe sono dedicate all’ambientazione della mostra, allo sfondo intellettuale e, tra una dimensione pubblica e una più privata, agli intrecci che hanno permesso la realizzazione della stessa. Successivamente, attraverso lo sviluppo del tema individuato dai curatori e seguendo il filo delle opere esposte, le pagine si aprono all’esperienza artistica di Viola, cercando di farla emergere attraverso un articolato lavoro di scavo. Partendo da un’analisi delle opere, il tentativo è quello di mettere in rilievo i dettagli della sua poetica, sconfinando nei vari retroterra culturali che ne hanno permesso la maturazione.
A causa dei molteplici richiami, il testo è ricco di raccordi. Per questo motivo, ai fini di una migliore fruibilità, è stato suddiviso in alcuni paragrafi introdotti da un titolo indicativo. Per concludere la premessa, la scelta di riprendere alcuni concetti, praticata di tanto in tanto, è stata adottata come aiuto per non perdere il filo!
1. New York, i viaggi, le esperienze
Cresciuto nel clima iconoclasta della New York degli anni Sessanta, Viola intraprende il proprio percorso creativo agli inizi del decennio successivo, tra il 1972 e il 1973,[2] in un periodo che si arricchisce di collaborazioni con artisti già affermati, quali Bruce Nauman, Peter Campus, Richard Serra, Nam June Paik e David Tudor.[3] Questi incontri risuoneranno nella sua ricerca e si combineranno sia con le esperienze nate dai suoi studi a indirizzo musicale e storico artistico, sia con un insieme di interessi, coltivati, da un lato, all’interno delle correnti di pensiero post strutturaliste, diffuse nel clima artistico newyorkese del momento, e dall’altro, nel contesto di ambiti di ricerca differenziati: dall’antropologia alla fenomenologia, agli studi sulla percezione. A questi si aggiungerà un ampio ventaglio di influenze: dal New American Cinema di Hollis Frampton e Stan Brakhage a quello di Michael Snow; dalle teorie di McLuhan e Gene Youngblood[4] al pensiero di Henry Bergson; dai testi poetici di William Blake e Walt Whitman agli scritti dei grandi mistici come Teresa d’Ávila, Ibn all-Arabi, Jallal-din Rumi, Giovanni della Croce e altri ancora. Degli inizi della sua carriera fanno anche parte l’incarico di consulente tecnico per l’Everson Museum of Art di New York (1972-1974), la direzione tecnica e produttiva di Art/Tapes/22 a Firenze (1974-1976), la residenza artistica al WNET/Thirteen Television Laboratory di New York (1976-1981), il successivo lungo soggiorno – diciotto mesi – presso gli studi della Sony in Giappone e i numerosi viaggi, compiuti tra il 1977 e gli anni Ottanta (ed effettuati soprattutto grazie a un crescendo di borse di studio e premi), che lo hanno portato a Java, a Bali, in Indonesia, nel nord dell’India (Himalaya), in Australia, nelle steppe canadesi, nel versante tunisino del deserto del Sahara, alle isole Fiji e nel Dakota del sud.
Tutte congiunture di crescita professionale e di consolidamento individuale che hanno determinato, dopo un primo periodo di sperimentazione tecnologica, il passaggio da una ricerca orientata verso l’osservazione di fenomeni esterni ad una di stampo introspettivo. Un nuovo tipo di indirizzo che si rivela, già a metà anni Settanta, come interprete ed evocatore di problematiche di ordine percettivo ed emozionale, sollecitate dalla dialettica tra una dimensione temporale concretamente misurabile (il tempo dell’orologio) e una più intima, indotta da riti e ciclicità dipendenti da leggi individuali, quanto comuni, universali.
Il confronto tra tempi oggettivi e soggettivi diventa il cardine delle sue opere e sarà gradualmente sviluppato attraverso la mediazione di tematiche e termini tra loro apparentemente contrapposti, in realtà correlati e complementari. Corpo e mente, nascita e morte, maschile e femminile, luce e buio, micro e macrocosmo, interno ed esterno, visibile e invisibile si trasformeranno con gli anni in segni distintivi. Binomi veicolo di contenuti esistenziali appartenenti a una memoria ancestrale e condivisa; a guida dell’artista, prima, e di chi guarda le sue opere, poi.
Viola oggi è tra i maggiori artisti del mondo. I suoi viaggi, gli incontri, i riferimenti culturali e visivi si sono esponenzialmente moltiplicati. Di pari passo è cresciuta la produzione che da circa una ventina d’anni si è pure arricchita di un team di attori, comparse e tecnici. A partire dal 2000, è diventato sempre più frequente l’impiego di schermi piatti LCD (al plasma), i cui formati, oscillando da pochi centimetri a dimensioni gigantesche, in linea con le tipologie di schermo utilizzate in precedenza, continuano a coprire un’estesa gamma di opzioni. All’interno della progettazione dell’opera, è maturato l’interesse per la videoproiezione, più che per la videoinstallazione comunemente intesa e anche i sistemi di ripresa sono diventati più complessi. Ciò, però, non ha comportato l’abbandono delle vecchie tecnologie, che, anzi, di tanto in tanto fanno capolino e contribuiscono, insieme a quelle di ultima generazione, alla resa estetico-concettuale del suo lavoro.
2. Bill Viola, 2014
A circa trent’anni di distanza da quel 1983, la selezione delle venti opere,[5] realizzate tra il 1977 e il 2013, esposta al Grand Palais è apparsa come una considerevole panoramica sull’evoluzione del percorso artistico di Viola. La scelta, curata da Jérôme Neutres, ma ideata insieme all’artista e a Kira Perov, moglie di Viola e direttrice di produzione del Bill Viola Studio, ha escluso, dunque, le prime realizzazioni. Nonostante questo, l’impianto della mostra ha comunque mantenuto un carattere retrospettivo e a farlo emergere è stata proprio quella dialettica sulle due dimensioni del tempo e sulle questioni ontologiche, definitesi, di fatto, come sopra accennato, a metà degli anni Settanta, qui riassunte nella formula: «Chi sono? Dove sono? Dove vado?».[6]
Articolata su due piani, tra le sale impeccabilmente allestite di una delle ali del Palazzo, l’esposizione, però, sembra aver mantenuto memoria anche della piccola monografica del 1983, di cui ha conservato il titolo: Bill Viola. Lo scivolamento deonomastico dal nome dell’artista alla mostra in corso non ha implicato una correlazione diretta, tanto che le opere scelte nel 1983 non sono state ripresentate. Tuttavia, in seguito alle esperienze compiute da quel momento in poi, e alle relazioni sviluppatesi tra l’artista e la Francia, l’uso dell’omonimia è come se avesse stabilito un passaggio di testimone, e avesse identificato, in quell’inizio, anche una vigorosa cassa di risonanza, alla cui amplificazione hanno contribuito istituzioni e studiosi.
Come riferimento per le prime, si possono prendere La Fondation Cartier pour l'Art Contemporain di Parigi e la 3e. Biennale d’Art Contemporain de Lyon, al Musée d’Art Contemporain di Lione, due tra le sedi prestigiose che hanno ospitato il lavoro di Bill Viola nel corso degli anni Novanta, concorrendo a far conoscere opere magistrali come He Weeps for You (1976) e The Sleep of Reason (1988).[7] Inoltre, per indicare ulteriori esempi, il rapporto con il Musée des Beaux-Arts di Nantes ha dato luogo alla produzione di Nantes Triptych (1992), videoinstallazione appositamente pensata per la Chapelle de l'Oratoire del museo stesso, mentre il teatro dell'Opéra di Parigi è stato la sede di esordio, nel 2005, di Tristan’s Ascension, scenografia multimediale del Tristan und Isolde di Wagner da cui, tra l’altro, è partito il primo embrione ideativo della mostra.[8]
Sul versante intellettuale è, invece, doveroso citare alcuni studiosi di media e arti elettroniche, come Anne-Marie Duguet – insieme a Jérôme Neutres curatrice del catalogo dell’esposizione – Dany Bloch, Raymond Bellour e Jean-Paul Fargier, tra i principali conoscitori ed estimatori dell’arte di Bill Viola, diffusasi in tutta Europa anche per merito del loro apporto critico. Tra i primi testi di spessore analitico e internazionale usciti sul suo lavoro, ci sono Les Vidéo-paysages de Bill Viola, di Dany Bloch, su «Art Press» (Parigi, 1984), Les vidéos de Bill Viola: Une poétique de l’espace-temps, di Anne-Marie Duguet, tradotto in francese e inglese per «Parachute» (Canada) e la celebre, almeno per chi si occupa di video e dintorni, An Interview with Bill Viola di Raymond Bellour, entrata a far parte della storia della videoarte, apparsa inizialmente su «October» (Cambridge, Massachusetts, 1985) e poi pubblicata sui «Cahiers du cinéma» (Parigi, 1986).[9] Altrettanto si può dire per Jean-Paul Fargier, che ha dato, pure lui come la Duguet, un proprio apporto alla mostra del Grand Palais, realizzando per l’occasione Bill Viola, expérience de l’infini,[10] video che si offre come un ulteriore omaggio all’artista. Tra i suoi studi, sparsi in volumi, saggi specifici e riviste di settore, come gli stessi «Cahiers», risalta The Reflecting Pool di Bill Viola,[11] pubblicazione dedicata a una delle opere maggiormente note (da cui il titolo) e considerata, qui, da Fargier il manifesto «più radicale» di tutta la videoarte.
Non è dato sapere se e quanto il saggio abbia influito, certo è che aprendo la retrospettiva Bill Viola (2014) The Reflecting Pool (1977) ha avuto un posto e un ruolo speciali.
Teorizzata intorno al concetto originario di battesimo, simbolo di purificazione e iniziazione, l’opera oltre a rappresentare un anno, e per più motivi (anche il sodalizio Viola-Perov risale al 1977),[12] è innegabilmente tra le prime in cui Viola affronta, a prescindere dall’alto riconoscimento di Fargier che ne celebra soprattutto il virtuosismo linguistico, concetti di natura ontologica; ed è la prima che vede la rappresentazione del ‘sé’ argomentata in relazione a un ‘dove’, esposto come grandezza visibile e invisibile. A fare da mediatrice tra i due spazi, personificando il ‘sé’, è la figura dello stesso artista. Il suo corpo è indagato come un’essenza transitoria che oscilla tra la labilità degli eventi, visti soprattutto come condizione riflessa, sfuggente e sospesa, lo sdoppiamento fisico (la figura è esposta contemporaneamente come reale e virtuale) e un’idea di immobilità solo apparente, che allude sia al suo contrario, sia al concetto di infinito.
Il bordo di una piscina come soglia da superare, l’acqua in essa contenuta come specchio da infrangere, fluido purificatore e medium riflettente (di immagini e azioni reali e illusorie), il fitto bosco che le fa da quinta e incornicia ieraticamente il tutto, sono, tra natura e artificio, gli elementi del dispositivo scenotecnico che attraverso lo schermo – con caratteristiche sia di confine, che di specchio – si prolunga nello spazio di chi guarda con il proposito di creare una dialettica tra un ‘al di qua’ e un ‘al di là’, dai molteplici significati, e questo nel tentativo di sollecitare un risveglio visivo ed emotivo.
Dall’opera del 1977 fino a The Dreamers (2013), ultima installazione del percorso espositivo, la natura temporanea del mondo fenomenico si trova reiterata in varie forme di riflessione, rifrazione, immersione, sospensione e sublimazione del corpo, nonché impostata intorno alla nozione di limite, concetto concreto, ma anche effimero e mobile, alla base della consapevolezza. Linea che separa, solo razionalmente nell’ottica di Viola, ciò che è contemplabile dallo sguardo da ciò che non lo è, il tangibile dall’incommensurabile, il reale dall’immaginario.
L’acqua, la sua stretta relazione con la vita e la morte, il fuoco, il paesaggio, la luce, il buio – o anche il vuoto, il «posto [che c’è, n.d.c] prima e dopo l’immagine»,[13] – sono di volta in volta soglie e contenitori; metafore di un tempo e uno spazio, considerati sia come elementi finiti, misurabili, malleabili, sia come potenzialmente infiniti e non quantificabili; prefigurati come grandezze tra loro comunicanti che accolgono e accompagnano di opera in opera il visitatore, alla ricerca di quel «Chi sono? Dove sono? Dove vado?» citato poco sopra.
3. Fisicità e trasparenze del medium
Chi visita una mostra con opere di Bill Viola si trova catapultato nello spazio espositivo attraverso un’oscurità avvolgente che azzera ogni contatto con l’esterno. Può rappresentare più cose: «l’oblio», «la morte», «l’inconscio», «la notte dei tempi», o il colore delle nostre menti, buie se non vengono esplorate e illuminate dalla conoscenza.[14]
Al Grand Palais, dopo aver affidato i preliminari allo spazio in cui è stata collocata The Reflecting Pool e all’opera stessa, con le installazioni che seguono, da Heaven and Earth (1992) a The Quintet of the Astonished (2001), prende forma la prima delle tre domande, «Chi sono?», e si ha subito un assaggio della varietà di media, formati e modalità narrative che incontreremo nell’intero percorso. Pur disattendendo una rigida disposizione cronologica, il clima retrospettivo è immediatamente percepibile e lo è anche la forza estetica e storica delle singole installazioni, che rimanda a opere non contemplate per la mostra, ma a cui, nel testo, come è stato anticipato nella premessa, faremo di volta in volta un richiamo utile ad approfondire la comprensione della sua poetica.
In questo caso il raccordo è con un lavoro che oggi possiamo comprendere forse meglio di ieri.
All’idea di uno spazio e di un tempo come dimensioni totali, frammentate e riflesse così come le abbiamo viste in The Reflecting Pool, Viola aveva già lavorato in He Weeps for You, e in realtà anche prima, nella ricerca svolta da lui, come, tra l’altro, da tutti gli artisti che in quegli anni esploravano le proprietà dell’immagine elettronica e le «caratteristiche di unicità del medium».[15] Per capire il ‘come’ è però necessario fermarsi un attimo e argomentare il contenuto dell’affermazione delineando un profilo dell’opera del 1976.
Il nodo tematico di He Weeps for You[16] è il collegamento tra macro e microcosmo ricreato mettendo in relazione due spazi separati, di diverse dimensioni, ma contigui ed equipaggiati, l’uno con un sistema meccanico ed elettronico, e l’altro con un solo schermo di proiezione. Nel primo spazio, quello più contenuto, oscurato e sede dell’azione principale, il visitatore si trova di fronte, come prima cosa, un dispositivo costituito da un sottile tubo idraulico di rame, che scende dal soffitto e si ferma all’altezza dell’osservatore. Nella parte finale il tubo è provvisto di un rubinetto, al di sotto del quale, appoggiato sul pavimento, è stato sistemato un tamburo. Il lento formarsi e fuoriuscire di gocce d’acqua è ripreso in primissimo piano da una telecamera, allineata con lo stesso rubinetto e collegata, via circuito chiuso, allo schermo installato nell’altro spazio. L’immagine della goccia è, dunque, mostrata nello spazio adiacente in tempo reale e qui, in seguito alla combinazione del primissimo piano e delle dimensioni dello schermo, appare invece ingigantita rivelando il proprio potere riflettente. Come una lente ricurva,[17] la goccia rispecchia tutto quanto le sta intorno e nel momento in cui atterra sul tamburo viene ingrandita e riflessa anche la sua consistenza sonora. All’ingrandimento visivo risponde quindi, simmetricamente, un’amplificazione del suono, dovuta, anche in questo caso, a una forma di sinergia prodotta dal microfono posto al di sotto del tamburo (che, come per l’immagine, permette di riprendere in primissimo piano il suono della goccia che vi atterra sopra) e dagli altoparlanti disposti nello spazio. Nella stretta relazione tra la parcellizzazione e il tutto si crea così un sistema spazio-temporale «armonico», come lo definisce Viola,[18] e contemporaneamente autoriflettente, dove la telecamera, il tamburo, il rubinetto, la conduttura in rame, parte della stessa scena, sono mezzi ostentati alla stregua delle immagini e dei suoni prodotti, e riprodotti in loop.
Per queste caratteristiche l’opera si pone esattamente a metà tra le esperienze precedenti, dedicate all’apprendimento e al perfezionamento delle conoscenze tecniche,[19] e quanto accadrà in seguito. È il reale spartiacque tra un prima e un dopo, in cui si amalgamano sia un’attenzione alla natura e all’opacità dell’informazione elettronica, esibite come media e concetti (sullo stile di Paik da un lato, e di Bruce Nauman[20] dall’altro), sia la corrispondenza simbolica tra la realtà fenomenica, la percezione di questa e un ordine superiore che sfugge al controllo soggettivo – nel caso di He Weeps for You, l’occhio del visitatore non sarà mai in grado di contemplare contemporaneamente tutto quello che accade nei due spazi.
È anche utile osservare che soprattutto nel corso della prima parte degli anni Settanta, dalle videocamere di sorveglianza usate per Bank Image Bank (1974) a installazioni più complesse, come appunto He Weeps for You, la strumentazione tecnologica oltre a essere studiata è talvolta anche esposta. È materia tra le materie, corpo tra i corpi (strumenti e visitatori). Le cose cambieranno dalla seconda metà del decennio in poi, con una produzione più raffinata e con una visibilità e ‘trasparenza’ dell’immagine che muta i propri connotati: ovvero, fa sempre meno parte di un pensiero che mette in mostra la tecnologia, mentre si mescola sempre più alle dinamiche percettive dell'opera, dove i media tendono a restituire allo spettatore una dimensione emotiva valorizzata proprio grazie a essi.
Heaven and Earth,[21] seconda installazione esposta, come opera degli anni Novanta fa però eccezione e, in linea con quello sguardo orientato un po’ indietro e un po’ sul presente, tipico di Viola, ha più di un richiamo con He Weeps for You. L’installazione del 1992, giocata anch’essa sulle simmetrie, sposta di colpo il tempo in avanti di una quindicina d’anni. Nel profondo buio della sala, a cui gli occhi si devono abituare, l’unica fonte luminosa è limitata a uno spazio di pochi centimetri e si trova letteralmente in mezzo alla stanza, come sospesa nel vuoto. Lì si fronteggiano gli schermi di due monitor in bianco e nero identici, la cui essenza di puri apparecchi catodici (privi dunque dell’involucro che normalmente li nasconde) può essere notata solo dopo un po’. Entrambi sono collocati alle estremità di due colonne di legno, strette e lunghe, una che parte da terra e l’altra che scende dal soffitto. Ancora una volta, come per He Weeps for You, gli strumenti sono in scena con i loro apparati di sostegno. Ma la lezione degli anni Ottanta è stata ben assimilata e i monitor, colti nella loro essenzialità strumentale, ‘incarnano’ il «messaggio» ancor prima di veicolarlo; lo dichiarano in quello spazio centrale, luminoso, posto tra ‘terra’ e ‘cielo’. Qui, le due superfici in vetro trasmettono e riflettono l’una sull’altra il primissimo piano di un bambino appena nato e quello di una donna anziana, malata e in fin di vita.[22] Un dialogo sospeso, continuo, lentissimo, che avviene a distanza molto ravvicinata tra i due estremi della vita: la nascita e la morte. A questa eterna ciclicità fa eco, in Nine Attempts to Achieve Immortality (1996),[23] nella sala adiacente, una forma di contrappunto armonico che ha per filo conduttore il tema del respiro. Poiché il respiro tiene insieme l’impianto della vita grazie alla sua silente sonorità, il video che Viola realizza per quest’opera – proiettato su un pannello quadrangolare, posto a mezz’aria e di circa tre metri e mezzo di lato – è costituito da una sequenza di suoi primissimi piani in bianco e nero, con lo sguardo rivolto costantemente in macchina. Il ritmo naturale della sua respirazione è alterato dai nove tentativi che lui stesso fa per trattenerlo sempre più a lungo, e il bianco e nero, ottenuto in questo caso impiegando una telecamera a infrarossi, usata molto negli anni Ottanta, rafforza e radicalizza la contrapposizione tra il silenzio e il suono del respiro, liberato dopo i nove sforzi, ogni volta più intenso e violento.
Nove sono pure i sottilissimi pannelli di proiezione che in The Veiling,[24] presentata a Venezia nel 1995, occupano la sala centrale della prima parte del percorso. Lo scenario mediatico cambia ulteriormente. Distanziati l’uno dall’altro da poco più di mezzo metro, i pannelli sono calati dal soffitto con una disposizione parallela. In ragione della natura «traslucida e trasparente» del materiale di cui sono composti, già usato per la proiezione centrale di Nantes Triptych,[25] su di essi scorrono, senza mai depositarsi del tutto, le immagini di un uomo e di una donna che sembrano avanzare l’uno verso l’altra, originate da due fonti di proiezione opposte. In sottofondo, in entrambe le proiezioni, i suoni prodotti dallo spirare di un vento leggero, dal frinire delle cicale e dal fruscio dei rami. Nella loro specificità, o associati gli uni agli altri, tali suoni incidono sulla visione facendola uscire a tratti rafforzata e a tratti indebolita. E il folto contesto boschivo, attraverso cui ognuna delle due figure cerca di aprirsi un varco, a differenza di quanto accade in The Reflecting Pool, qui muta progressivamente e perde la somiglianza con l’immagine iniziale. Al concetto di nascita e morte subentra quello del viaggio vero e proprio, «un viaggio che deve essere intrapreso da soli, l’uomo e la donna di The Veiling non si incontreranno mai»,[26] se non come intreccio confuso di presenze velate.
4. La funzione del passato e il valore ‘sacro’ e ‘organico’ della consapevolezza
Le quattro installazioni in mostra dopo The Veiling appartengono al periodo 2000-2001. Il richiamo all’individualità si ripresenta con Catherine’s Room, Four Hands, Surrender e The Quintet of the Astonished, opere del ciclo The Passions realizzate in seguito a un’importante ricerca sull’esplorazione dei sentimenti, su cui ci soffermeremo più avanti, e nate anche in conseguenza a una consistente svolta produttiva.
A metà degli anni Novanta Viola comincia a lavorare su «fenomeni da riprendere in tempo reale»,[27] su cui, ad essere precisi, aveva lavorato anche in passato, benché in un’ottica differente. Nel 1973, infatti, dopo un primo anno di intensa sperimentazione elettronica e tanta esercitazione tecnologica sfociati nel video Information (1973),[28] Viola sceglie di abbandonare il lavoro in studio per andare alla ricerca «di immagini del mondo reale, immagini realizzate con la videocamera, registrate fuori, nelle strade o sulle montagne».[29] Ma a circa metà degli anni Novanta il lavorare in studio ritorna ad essere prioritario. Avere a che fare con il «reale» non implica quasi più un lavoro con le immagini da gestire «fuori», negli spazi aperti. È il tempo e non lo spazio, in termini di estensione “esteriore”, l’oggetto di maggiore interesse. Il lavorare su «fenomeni da riprendere in tempo reale» comporta un’organizzazione registica di tipo cinematografico, il che significa, sul piano gestionale, un impegno consistente di varie professionalità che ruotano intorno all’allestimento e alle esigenze dei set; su quello estetico, invece, vuol dire dirigere degli attori e concentrarsi sul «fenomeno» da indagare, progettato e curato nei minimi dettagli, ma performativamente predeterminato solo parzialmente. Tutto accade di fronte alla telecamera, in un arco temporale necessario a seguire un inizio, un’evoluzione e la possibile[30] parte conclusiva di un’intera azione, su cui si interverrà, in fase di post produzione, per rallentare e/o valorizzare il lavoro di ripresa, rifinendo le textures, le tonalità cromatiche e sonore. Le riprese, realizzate in continuità, sono dei piani sequenza a camera fissa, in cui il filo degli eventi si segue dall’inizio alla fine all’interno di un’unica, invariata, inquadratura.
Pure i due video di The Veiling e Nine Attempts to Achieve Immortality rientrano in questa scelta stilistica, Con The Arc of Ascient (1992), e in parte anche con Nantes Triptych,[31] l’orientamento si delinea ulteriormente fino ad arrivare a Déserts (1994) e poi a The Greeting (1995), in cui viene messo a punto.
Catherine’s Room e gli altri lavori di questa sezione, come tutte le opere nate dopo il 1995, sono dunque figli di un avvicendamento graduale, annunciato da alcune tappe principali.
Il 1995, lo sì è percepito, è un altro importante anno spartiacque nella storia artistica di Viola, un anno da sottolineare più volte in rosso sul calendario dell’artista. Viola viene invitato a rappresentare il Padiglione degli Stati Uniti d’America alla 46ª Biennale d’Arte di Venezia, esce la sua prima raccolta di testi, Bill Viola: Reasons for Knocking at an Empty House. Writings 1973-1994[32] e, in sintonia con le esigenze dell’artista, il Bill Viola Studio amplia il proprio sistema produttivo. Già l’anno prima con Déserts – menzionato poc’anzi per questo motivo – Viola aveva avuto la necessità di realizzare un set per elaborare il proprio progetto. Parte del girato del video deriva da lavori precedenti, ma alcune delle riprese sono realizzate ex novo, in linea con quella che sarebbe diventata dal 1995 una via preferenziale. Alla 46ª Biennale di Venezia Viola si presenta con un ciclo di opere, Buried Secrets,[33] appositamente realizzato per l’appuntamento italiano. Delle cinque installazioni che ne fanno parte, pianificate intorno al tema della comunicazione – nelle varianti che vanno dalla sua negazione alla sacra conversazione – abbiamo già incontrato The Veiling e troveremo Presence un po’ più avanti. Tra le opere del Grand Palais non compare, invece, The Greeting,[34] la più conosciuta del percorso veneziano e sua estrema sintesi, esposta, però, nelle stesse date parigine a Firenze, nella mostra Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della Maniera.[35] L’opera determina, grazie all’eccellenza tecnologica, alla partecipazione di attori e alla costruzione di set, il passaggio irreversibile da un prima a un dopo 1995, ed è anche un ponte attraverso cui si consolida il rapporto con il passato e si esplicita, attualizzandola, secolarizzandola e valorizzandola, quella dimensione del «sacro»[36] a cui molte delle sue opere hanno fatto e continueranno a fare appello.
Come già in precedenza The Arc of Ascient e l’ultima parte di riprese della appena nominata Déserts, il lavoro non è stato girato con una videocamera, ma con una speciale cinepresa per pellicola 35 mm, a una velocità dodici volte superiore alla norma (300 fotogrammi al secondo contro i tradizionali 24) che ha permesso di ottenere solo successivamente, con il riversamento in digitale, un video estremamente rallentato, senza alcuna perdita di qualità. Un taglio di quarantacinque secondi, qualitativamente completato in fase di post-produzione – con la regolazione del colore, dei contrasti e del suono – si è così trasformato in 10’28” di proiezione ad altissima definizione. Un film riversato in video: questo è The Greeting.
Al centro un incontro, che esalta e trasla nel presente, attraverso il richiamo alla Visitazione di Carmignano del Pontormo (1529 ca.), il potere ancestrale di un gesto. Contrariamente a quanto si possa pensare, o appaia a prima vista, l’origine di quest’opera non sta, infatti, nella tavola del Pontormo, bensì in un episodio di quotidianità visto in strada: l’abbraccio tra due donne alla fine di una conversazione colto da Viola da «un punto di osservazione perfetto» – lo ha raccontato lui stesso a Carmignano, nell’incontro col pubblico[37] – dall’interno della sua macchina. Solo successivamente il momento dell’abbraccio è stato associato dall’artista al gesto di Maria ed Elisabetta riprodotto nella Visitazione del Pontormo. Pare, infatti, che Viola fosse venuto a conoscenza dell’opera dell’artista quattrocentesco solo per caso, poco tempo dopo, attraverso l’immagine di copertina di un libro scorto in una libreria.
Viola non racconta Pontormo, né raffigura le due donne di Long Beach ma converte una sua intima, personale irrappresentabile sensazione facendo appello a quella memoria collettiva, quel luogo comune visivo che riconduce un occidentale a ricordare come immagine emblematica di qualsiasi incontro la Visitazione di Maria e Elisabetta.[38]
Non è, quindi, come nella Visitazione, l’eccezionale doppia maternità[39] che rende sacra la conversazione tra la Maria e l’Elisabetta di Viola, ma l’essenza universale di un’azione identica a tutte le latitudini (l’abbraccio) e l’emozione, intima, naturale e affettuosa che ne scaturisce.
The Greeting è, dunque, il risultato di un’esperienza stratificata, in seguito rielaborata attraverso un «processo di rilettura personale», che nel momento in cui viene restituita al visitatore è ulteriormente trasposta e trasformata in un’altra esperienza ancora. Per Viola sta qui, nella sintesi della rimodulazione di un’immagine, nella sua sublimazione, la funzione dell’arte e l’idea di sacro. Sacro è l’atto di consapevolezza[40] che deriva da un processo continuo di sedimentazione e reinterpretazione soggettiva, nel tempo. Un tempo che ha quindi una funzione generativa, in cui le immagini sono naturalmente in ‘movimento’ e agiscono, a livello latente o in chiara evidenza, come degli «organismi viventi».[41]
L’«idea di immagine come organismo vivente»,[42] strettamente correlata al concetto di sacro, è stata riportata in History, 10 Years, and the Dreamtime (1984), una lunga raccolta di pensieri e racconti dell’artista sul proprio rapporto con le tecnologie e la storia del video. Viola racconta che fu Hollis Frampton a farla emergere nel corso di Open Circuits, storica conferenza del 1974 al Museum of Modern Art di New York sul ‘futuro’ della televisione e del video.[43] «Vi prego di ricordare» aveva detto Frampton «che le immagini che noi creiamo fanno parte delle nostre menti, sono organismi viventi che portano avanti per noi i nostri percorsi mentali, misteriosamente, indipendentemente dalla nostra consapevolezza».[44]
Agli inizi degli anni Settanta, Bill Viola aveva cominciato a svolgere gli studi sul rapporto tra le immagini e il funzionamento della memoria. Le indagini sul tempo, sul senso della storia, come passato e come appunto memoria[45] erano in fase embrionale e l’esortazione di Frampton fu così illuminante da confluire nella sua produzione. Scrive Silvia Bordini:
Le immagini dei video e delle installazioni di Viola portano l’incanto di modificazioni quasi impercettibili che sembrano evocare quelle della crescita e della mutazione organica. Viola rende visibile qualcosa che sembra appartenere ad una vita in un'altra dimensione dell’esistente, una dimensione mentale e emotiva, invisibile all’occhio fisico, in cui il tempo diventa il veicolo apodittico di un’aspirazione a cogliere emozioni e sensibilità dimenticate.[46]
Dilatare il tempo, rallentarlo per renderlo persistente, pensarlo in termini di «durata» come in The Greeting non è allora un’astuzia estetica, ma l’unico modo, secondo Bill Viola, per formare, attivare e riacquisire, con l’aiuto delle emozioni, il pensiero. «Il problema centrale di oggi» scrive Viola sempre nel 1984 «è come conservare la sensibilità e la profondità di pensiero (entrambi funzioni del tempo) nel contesto delle nostre vite accelerate».[47] E aggiunge nel 1990: «La durata è il mezzo che rende possibile il pensiero, dunque la durata è per la coscienza ciò che la luce è per gli occhi. Il tempo stesso è divenuto la materia prima* dell’arte dell’immagine in movimento». [48]
Se, quindi, il 1995 e The Greeting, con cui ‘debuttano’[49] le opere cosiddette «pittoriche», determinano uno sguardo in avanti incondizionato, l’anno e l’opera sanciscono, però, contemporaneamente e con forza, l’ineludibile collegamento con l’idea del passato come memoria che in Viola oltre a riecheggiare, anche qualitativamente, la dimensione pittorica ed esperienziale «classica»,[50] assume vari volti.
In alcuni lavori, la memoria ha, ad esempio, le sembianze della potenza del paesaggio (dalle distese innevate del Saskatchewan, al deserto del Sahara, alla catena dell'Himalaya); in altri emerge con le riprese di taglio documentaristico di rituali tradizionali, come la cerimonia induista della camminata sui carboni ardenti, nelle isole Fiji; in altri casi ancora è preso in considerazione attraverso gli studi di figure mistiche (paradigmatica è l’installazione su San Giovanni della Croce).
In Viola la memoria rivive anche attraverso precise scelte linguistiche, da sempre a lui care e continuamente riaffermate. È il caso dell’inquadratura fissa e della persistenza del punto di vista, visibili in mostra a partire da The Reflecting Pool. Al di fuori dell’esposizione, vanno citate almeno opere come Migration (1976), video monocanale nato con He Weeps for You, e uno straordinario lavoro come Reverse Television - Portraits of Viewers (1984),[51] una serie di quarantaquattro silenziosi ritratti televisivi realizzata per la WGBH TV di Boston e sviluppata come riflessione sulla ritrattistica tradizionale e sul rapporto tra immagine fissa e in movimento. In particolare qui è messa in discussione, e semanticamente capovolta, soprattutto la tecnica dello sguardo in macchina, comunemente adottata sia in ambito fotografico che televisivo.[52] Prima del 1987 Viola aveva più volte preso in esame la dialettica tra le due tipologie di immagini, quelle fisse e quelle in movimento. In lavori come The Space Between the Teeth (1976) questa si esplica chiaramente, (l’ultima immagine corrisponde, tra l’altro, a una fotografia Polaroid) così come accadrà, tre anni dopo, in Ancient of Days (1979), con all’interno una palese sovrapposizione e dissolvenza mediale: dalla pittura, alla fotografia, al video. Lo stesso si può dire per l’effetto che induce la durata: il rallenty. Lo troviamo in opposizione a una velocizzazione dell’immagine nelle appena citate The Space Between the Teeth e Migration, ma anche, per uscire dal video e riavvicinarci alle videoinstallazioni, nella goccia e negli spazi della plurinominata He Weeps for You.
L’uso del rallenty in combinazione con l’inquadratura fissa, all’interno di spazi ‘bi’ e tridimensionali contribuisce a maturare l’attenzione dello spettatore e a rafforzare l’idea che occorra riappropriarsi di entrambe le dimensioni – spazio e tempo personali – per poter parlare di conoscenza e di passato come memoria.
A tutti capita di fare sogni […]. Quello che è interessante è che la loro vividezza non riguarda tanto la chiarezza visiva o il dettaglio – è piuttosto una fedeltà visiva all’esperienza, all’esistenza. La piena sensazione di quello che sembra veramente esserci riempie totalmente il tuo corpo: quello che si percepisce come se si stesse respirando in quel momento. Queste sono le vere immagini, suoni e parole, ma siamo ben lungi da riuscire a registrare qualcosa che somigli all’esperienza. Lo shock sta nel realizzare quanto effettivamente ci sfugga del passato.[53]
Insomma, il 1995 non è arrivato a caso.
5. L’importanza di un attimo, la perfezione del «non finito»
Catherine’s Room, Four Hands, Surrender e The Quintet of the Astonished, tornando al Grand Palais, sono parte di questo clima ibrido, fatto di novità, «classicità» e di recente passato, mentre il progetto a cui appartengono, The Passions, è il risultato di idee e di fecondi scambi emersi nell’ambito di un ciclo di incontri seminariali, tenutisi tra il 1997 e il 1998 al Getty Research Institute for the History of Art and the Humanities di Los Angeles. Già nel 1987, con Passage, Viola aveva lavorato con le emozioni, riprendendo in primo piano i volti carichi di stupore e gioia dei bambini partecipanti a una festa di compleanno.
[In Passage, n.d.c. ] ci sono un sacco di primi piani, volti pieni di meraviglia pura: fissare lo stato di una candela, vedere il mondo attraverso un palloncino viola, gustare le decorazioni colorate sulla torta. È stato un privilegio speciale registrare quelle immagini, i piccoli miracoli che accadono tutti i giorni. E la cosa che mi ha colpito di più è stata quella di vedere il momento in cui sul volto di un bambino di quattro anni esplode la gioia all’arrivo della torta di compleanno, o le lacrime dopo una caduta sul duro pavimento, questi sono attimi così brevi. Con i bambini si possono vedere le emozioni andare e venire in una frazione di secondo; non durano.[54]
In Passage Viola aveva anche rallentato di più del trenta per cento la velocità delle immagini e diretto i suoi aiutanti alle riprese, quasi come fossero dei performers. In sostanza, aveva intrapreso la direzione odierna.
Al Getty il clima è ricco di sollecitazioni. Salvatore Settis, allora direttore, aveva intitolato il seminario Representing the Passions. Intorno al tema era stato riunito un gruppo di eccellenti studiosi – storici, musicologi e filologi – provenienti da varie parti del mondo e invitato, in qualità di artista, Bill Viola.[55] L’esito di quegli incontri è in ‘piccola parte’ confluito, nel 2003, nel volume a cura di Richard Meyer, Representing the Passions. Histories, Bodies, Visions,[56] mentre i vari contributi e gli scambi di allora hanno dato subito vita al ciclo di opere che stiamo per incontrare.
La prima di queste, che non coincide con la prima produzione del ciclo,[57] è Catherine’s Room (2001). L’installazione è una citazione esplicita della Vita di Santa Caterina da Siena (1393-1394 ca.) di Andrea di Bartolo. Della tavola con predella Viola rivisita la funzione narrativa del secondo elemento, la predella, organizzata in un avvicendamento di quadri, legati gli uni agli altri «per scene successive».[58] Il richiamo ai formati classici ha inizio nel 1989 con l’uso del trittico in The City of Man,[59] ma mentre lì, o in opere come Nantes Triptych,[60] è messa in risalto soprattutto la funzione comunicativa del formato – lo stretto rapporto tra il ‘pannello’ centrale e i due laterali[61]– in Catherine’s Room assistiamo a una rivisitazione anche dei contenuti. Nelle proiezioni, la struttura architettonica della ‘stanza’ di Santa Caterina, con il soffitto a travicelli, e il ‘minimalismo’ dell’intera predella (che finisce per essere contaminata dalle atmosfere e le rese cromatiche di Vermeer) vengono ripercorsi e riadattati a una dimensione solitaria contemporanea, vissuta, però, come memoria e dimora della propria individualità. Una solitudine strutturata scandita per scene di routine quotidiana che, come il gesto dell’abbraccio di The Greeting, si traducono in una sacra e intima ritualità.
Catherine’s Room è costituita da cinque tempi, cinque finestre coesistenti rappresentate da cinque schermi piatti a cristalli liquidi di piccolo formato,[62] orizzontalmente affiancati e sviluppati in successione. L’unico elemento di divisione è una piccola cornice che circoscrive il perimetro di ogni schermo ed evidenzia, a parte i singoli contenuti, i già incontrati cliché compositivi di Viola. Oltre al ricorso alla classicità, all’uso di un formato come modello archetipico, nelle stanze della Catherine di Viola si ritrova la teatralizzazione dello spazio (evidente in particolare con The Reflecting Pool, ma presente in molte opere) con la sua reiterata modulazione strutturale e la sua doppia apertura: in primo piano, coincidente con lo schermo; sullo sfondo, con una piccola finestrella. Il gioco delle finestre, anche questo tipico e visibile specialmente nelle videoinstallazioni,[63] arricchisce a sua volta la riflessione sui vari aspetti della dimensione temporale, senza che ci sia bisogno di rallentare i movimenti della protagonista. Il tempo ci appare nuovamente unito e frammentato in una ciclicità quotidiana e stagionale, ravvisabile sia nei gesti e nelle differenti attività di Catherine, ambientate nei distinti scenari delle cinque unità, e sia proprio in quella finestrella sullo sfondo, da cui filtrano le fasi di una periodicità naturale, che trascorre quasi impercettibilmente.
In Four Hands (2001),[64] nella mostra parigina opera speculare a Catherine’s Room, posta insieme a Surrender (2001) nella medesima sala, quattro schermi piatti di dimensioni più piccole, tra loro leggermente distanziati, sono invece poggiati su una mensola come dei porta fotografie profilati. Riproducono, ancora in parallelo, ma in bianco e nero, altre forme di cambiamento stagionale e periodicità naturale. Qui protagoniste sono quattro paia di mani appartenenti a tre generazioni diverse – a un ragazzino, a una donna, a un uomo di mezza età e a una persona anziana – ritratte mentre assumono varie posizioni. Alcune di queste ricordano gesti popolari e familiari, altre sono molto specifiche e possono richiamare sia l’esplorazione dei gesti raffigurata nelle tavole chirologiche del XVII secolo,[65] sia la simbologia sacra dei mudra.[66] Prima di essere associati a un’origine specifica, questi, di fatto, sono gesti che dichiarano, sottolineano o sigillano un pensiero. Consistono, innanzitutto, in forme di comunicazione laica, che trascendono tempi, credi e culture, riflettendo un’identità moltiplicata. La pelle delle mani rivela silenziosi vissuti, ma il loro indicare, incrociarsi, unirsi a formare un simbolo preciso, ci conduce anche verso storie collettive, qui narrate parallelamente e in sequenza; come se i quattro schermi supplissero, sintetizzandola in immagine, a una forma particolare di linea del tempo, su cui sono scanditi sia il presente che le stagioni della vita.
Collocata tra Four Hands e Catherine’s Room, Surrender è forse l’opera più rappresentativa di The Passions. Costituita da due schermi al plasma identici, disposti in verticale l’uno sull’altro,[67] racconta la potenza e la fragilità delle emozioni, o più adeguatamente, di una loro tipologia, quella del dolore e della sofferenza. L’intensificarsi dell’azione è graduale e calibrata. Ciò nonostante, però, la forza sprigionata a un certo punto dall’opera – inizialmente percepita solo attraverso le due tonalità di colore che la compongono (un rosso e un azzurro particolarmente squillanti) – interrompe quel senso di calma e pacificazione temporale indotto dalle sequenze di Four Hands e Catherine’s Room. La natura piatta dei due schermi, il loro essere appesi alla parete come quadri, i colori brillanti, dovuti alla combinazione dell’alta qualità delle riprese con la tecnologia a cristalli liquidi, rendono l’opera equiparabile a una composizione pittorica che si staglia dal fondo e spicca a tratti sul resto. Le immagini del dittico elettronico si strutturano a partire da un’ambiguità visiva e gravitano intorno ai concetti di assenza e di illusoria presenza. Come Four Hands e Catherine’s Room, anche Surrender è priva di sonoro; rispetto ad esse, però, qui latita anche l’immagine principale. Ciò che si vede nelle proiezioni è «immagine di un’immagine»,[68] un riflesso. La proiezione simmetrica e in sincrono dei due protagonisti, un uomo e una donna colti dalla vita in su, dà adito a più di un equivoco. La linea dei fianchi è un margine di contatto che fa apparire l’immagine superiore come riflessa in uno specchio d’acqua. Non ha importanza che le figure siano tra loro diverse; tale aspetto è, anzi, dispensatore di enigmaticità. Soltanto con il movimento progressivo dei due corpi, che per effetto della simmetria sembrano inclinarsi l’uno verso l’altro come, e ancora una volta, in un abbraccio, il paradosso visivo si delinea e si chiarisce. L’avvicinamento dell’uomo e della donna produce una vibrazione che fa muovere il fondo, rivelandone una consistenza fluida e instabile che finisce per fondersi, in un crescendo doloroso, con la liquidità e vulnerabilità dei loro stati d’animo, appassionati e sofferenti. «Quando le immagini dei loro corpi cominciano a loro volta a frantumarsi in forme increspate e oscillanti, diventa chiaro che quel che vedevamo era fin dall’inizio il loro riflesso sullo specchio d’acqua e non i corpi veri e propri».[69] Il riflesso di un riflesso: è questa, per Viola, l’essenza dell’arte.
Il concetto è stato esplicitato a proposito di The Greeting e già anticipato con The Reflecting Pool, che finisce per essere un punto di riferimento trasversale; ma troviamo questo principio in tutte le opere dell’artista newyorkese, benché maggiormente definito a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, periodo influenzato anche dalle lezioni del Getty. L’arte come ‘riflesso di un riflesso’ implica il superamento della semplice visione a favore della commozione, di una partecipazione più profonda. Un’esperienza emozionale meno effimera e più fisica, interiorizzata, che prende forza a partire da altre immagini, vicine o lontane, nel tempo e nella storia. Pensando a immagini cronologicamente ‘vicine’, vengono in mente innanzitutto quelle di Moving Stillness Mt. Rainier (1979), dove le riprese della montagna sono proiettate su uno specchio d’acqua che poi le riflette sullo schermo.[70] Sul fronte iconografico-figurativo, ci spostiamo di nuovo nel contesto tardo rinascimentale. In Surrender, per esempio, l’uso della «mezza figura» riecheggia la pittura devozionale quattro-cinquecentesca, dove venne introdotta «con una funzione specifica», come evidenzia Settis.
Mediante la rappresentazione per piani ravvicinati … l’osservatore è “chiamato” dentro lo spazio di azione del quadro. Condivide la scena sacra, e viene al tempo stesso invitato a “completare” mentalmente le figure rappresentate solo a metà e a immaginarsene gestualità e movimenti. [71]
È il potere dell’assenza, o meglio, della non visione. È lo stesso che ha favorito, secoli dopo, il potere acusmatico della radio; lo stesso che gioca un ruolo fondamentale anche nel cinema e che è stato importantissimo pure per la televisione degli inizi, la cui bassa definizione, secondo Ragghianti (e poi anche secondo McLuhan, seppure con approccio diverso), doveva funzionare nel medesimo modo. Quel ‘non finito’ era utile all’occhio per completare l’immagine.
Le altre fonti di Surrender sono rintracciabili nelle teorie sull’espressione di Charles Le Brun, così come negli studi di teste di Antonio da Pereda,[72] sicuramente contemplati anche per l’opera che ha dato inizio a The Passions, The Quintet of the Astonished.[73] Incentrato anch’esso sul formato della mezza figura e commissionato dalla National Gallery di Londra, The Quintet of the Astonished, posto a chiusura della prima parte del percorso del Grand Palais, è uno dei video della serie dei Quintet di cui Viola aveva condiviso opinioni e dibattuto «a margine» degli incontri seminariali con il direttore del Getty.[74] Il lavoro trae ispirazione in parte dall’Adorazione dei Magi di Andrea Mantegna (1495-1505), presente al Getty Center, e in parte dall’Incoronazione di spine (1485 ca.) di Hieronymus Bosch, la tavola londinese della National Gallery. In queste opere la gamma delle espressioni facciali e delle emozioni viene esplosa attraverso più figure a mezzo busto, richiamate, nella proiezione, da cinque attori a cui Viola assegna uno stato emotivo diverso. Il risultato finale è simile a una polifonia visiva, impreziosita e intensificata, ancora una volta, da un rallentamento estremo del movimento e da un trattamento dell’immagine, resa silenziosamente e cromaticamente potente, che in parte la ricongiungono ai dipinti che l’hanno ispirata.
6. Emozioni latenti
Presente, in prevalenza, nei lavori del ciclo The Passions, e tra queste particolarmente evidente in Observance (2002),[75] un’opera non esposta al Grand Palais, in linea con quel potere dell’assenza di cui abbiamo parlato poco fa, l’idea del riflesso come alimentatore di conoscenza è accresciuta in Viola dall’enigmaticità delle immagini. A differenza delle opere da cui trae ispirazione, Viola non fa vedere la sorgente dell’emozione. Le sue figure mostrano una reazione emotiva, ma non si sa a cosa sia dovuta. Accostando idealmente l’Incoronazione di spine con The Quintet of the Astonished lo si nota subito: mentre nella tavola di Bosch tutti i personaggi hanno occhi e gesti rivolti al «Cristo deriso» (che è quindi il motivo degli sguardi e dei gesti), in Viola ogni figura è concentrata sui propri sentimenti. L’orientamento emozionale è diverso.
Tra la fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta, al contrario, Viola aveva indagato il funzionamento delle emozioni essenzialmente mettendo in scena immagini che funzionassero da inneschi emotivi e fossero costruite come possibili leve introspettive. Se ne ha un esempio con The Sleep of Reason (1989),[76] installazione che collega la prima alla seconda parte dell’esposizione ed esito di vari rimandi iconografici. L’opera è, di fatto, un chiaro riferimento all’incisione di Goya Il sonno della ragione genera mostri (1797), ma ha anche una matrice nel video monocanale Ancient of Days (1979) e in un’altra installazione, Heaven and Hell (1985), senza la quale, probabilmente, non sarebbe nata neanche la già descritta Heaven and Earth, diversa e affine al tempo stesso.
Ancient of Days, Heaven and Hell e The Sleep of Reason, riportate in quest’ordine, è come se fossero l’una l’evoluzione dell’altra. Nell’ultima parte di Ancient of Days[77] la videocamera inquadra in primo piano lo sfondo di una parete, di cui si vede solo il piano superiore di una credenza – molto lucido e quindi con un forte potere riflettente – con sopra un orologio e un vaso di rose bianche, e un po’ più in alto, sulla sinistra, l’immagine di un quadro di paesaggio, dall’identità multipla e rinnovata: è opera pittorica, fotografia e immagine in movimento, leggermente accelerata. Questa forma di confronto, di integrazione e compresenza ‘tra’ e ‘di’ media è in Heaven and Hell dilatata e approfondita. L’aspetto fondamentale dell’installazione sta nell’affermare la coesistenza di due realtà parallele. L’opera è costituita da due stanze identiche. Una è interamente rivestita di specchi, l’altra è totalmente bianca. Nella prima sono proiettate immagini piuttosto violente e selvagge, accompagnate da un tappeto sonoro altrettanto duro. Suoni e immagini oppressive che i riflessi multipli degli specchi enfatizzano, dando allo spettatore l’impressione di vivere sulla propria pelle quanto sta accadendo in quel momento e in quel determinato spazio. La stanza bianca è invece dotata di due porte e arredata con una sedia, un quadro, una lampada e un tavolo con sopra un televisore, che mostra le stesse immagini presentate nella prima stanza, attenuate di senso. Incorniciate dal piccolo schermo queste diventano innocue; perdono tutta la loro forza, resa ancora più debole da un dolce suono di sottofondo, proveniente da una radio.
In The Sleep of Reason la stessa tipologia dialogica convive all’interno di una medesima stanza e ha una finalità leggermente diversa. Tutto accade in un solo spazio, spoglio e simile alla stanza bianca di Heaven and Hell, e con degli ingredienti che giungono direttamente da Ancient of Days.
Su una credenza da soggiorno, classica e anonima, Viola ha posto un abat-jour spento, un orologio, regolato sull’ora reale e sempre in funzione, un vaso con delle rose bianche di plastica e un monitor che mostra, in bianco e nero, l’immagine registrata e inalterata di una persona che sta dormendo.
All’improvviso, con tempi irregolari, controllati da un software, la stanza diventa buia e tre sinistre proiezioni gigantesche, accompagnate da suoni forti e duri, appaiono su tre delle quattro pareti. Le immagini durano pochi secondi per poi sparire senza lasciare traccia, o riapparire inaspettatamente:
come se la stanza avesse una crisi di schizofrenia e diventasse, per un momento, qualcos’altro. In un certo senso, ho concepito questa installazione pensando ai due mondi in cui viviamo. Il primo, quello cosiddetto normale, è un mondo molto confortevole, in cui ci circondiamo di cose che ci danno piacere e conforto; il secondo, quello nascosto, è il mondo degli eccessi. Ho quindi immaginato che esista una superficie attraverso la quale qualcosa, che può essere fermato, ogni tanto affiori e poi sparisca di nuovo.[78]
Ne Il sonno della ragione genera mostri Goya ha reso l’abbrutimento dei tempi, specchio di una Spagna assai poco illuminata, con la rappresentazione dell’uomo addormentato circondato da mostri. In The Sleep of Reason il sonno di Viola, figurato e reale, diventa un modo per raggiungere un’individualità che potrebbe non essere accessibile in stato di veglia; una scossa emotiva improvvisa, un turbamento, una messa in risalto dell’alterazione come forza intuitiva presente nell’esistenza, che può emergere proprio grazie all’abbandono della razionalità.
Le alterazioni sensoriali sono parte del reale. Indipendentemente dal fatto che si palesino sotto forma di sogni o incubi, corrispondono ad allucinazioni del pensiero che partono da un contesto fisico, tangibile, alterato, però, percettivamente, da vari gradi di insufficienza visiva, uditiva e cognitiva.
Se si crede che le allucinazioni siano la manifestazione di uno squilibrio fisico o biologico nel cervello, allora i miraggi e le deformazioni dovute al calore del deserto potrebbero essere considerati come allucinazioni del paesaggio. È come se ci si trovasse fisicamente nel sogno stesso di un altro.[79]
7. La vulnerabilità del reale
Nel 1979, una decina di anni prima di The Sleep of Reason, proprio il forte interesse verso il funzionamento delle immagini in qualità di «organismi» vivi, e dei sensi nei confronti degli stimoli ambientali, spinge Bill Viola a condurre ricerche sull’esistenza in natura, al di fuori del corpo, di altre forme di distorsione percettiva.
Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat) (1979)[80] è il primo esito delle sue investigazioni e proprio a questo video è stata affidata l’apertura della seconda parte del percorso espositivo parigino. Come anticipato da The Sleep of Reason, nel suo doppio ruolo di prologo della prima parte e preludio di quest’ultima, e come testimoniato, insieme a Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat), da The Encounter (2012), Walking on The Edge, (2012) e il ciclo delle cinque monumentali installazioni Going Forth by Day (2002), la parte centrale di Bill Viola si presenta all’insegna della vulnerabilità del reale nelle sue molteplici sfumature. Il filo rosso che qui attraversa le installazioni è alimentato dalla domanda «Dove sono?», che in parte comprende anche il «Dove vado?», e guida gli occhi attraverso straordinari scenari paesaggistici, rende protagonista il corpo in un sintomatico dialogo tra superfici bidimensionali e la tridimensionalità degli spazi, dà la parola a tecnologie sempre più avanzate e introduce altri importanti raccordi con la storia dell’arte e alcuni dei suoi grandi maestri.
Oltre al filo rosso di fondo, l’elemento che unisce i primi tre lavori è il fenomeno del miraggio. L’illusione ottica prodotta dalla combinazione dell’aria calda con la luce del sole, che a Chott el-Djerid è all’origine di quei suggestivi, quanto irreali, movimenti dell’orizzonte paesaggistico visti nel video del 1979, torna a distanza di alcuni anni negli sfondi diafani di The Encounter (2012) e Walking on The Edge (2012). Entrambe le opere fanno parte della serie intitolata proprio Mirage, in cui Viola esplora ulteriormente il fenomeno, caricandolo però, stavolta, di una funzione diversa rispetto al passato.
Nel Portrait del 1979 immagini e suoni sono, soprattutto, ambasciatori di una dimensione di grande fascino, fortemente ancorata al carattere distintivo e al potere evocativo di alcuni luoghi, anche se non tutti dichiarati nel titolo. Le riprese effettuate nell’area desertica di Chott el-Djerid si alternano, infatti, a quelle delle freddissime praterie dell’Illinois e della tundra artica del Saskatchewan,[81] e tutte hanno carattere pressoché documentaristico. Nei successivi mirages, invece, le cose cambieranno.
Nell’intera serie il letto del grande lago prosciugato, El Mirage, nel Deserto del Mojave in California (è da qui che deriva il nome),[82] e l’immagine del miraggio che lì si produce non rispecchiano più la situazione delle condizioni climatiche e ambientali di un posto, ma diventano un costante sfondo metaforico che in tutti i lavori si amalgama a figure di uomini e donne di età diverse, e vibra all’unisono con loro per sviluppare dei micronuclei narrativi.
Al Grand Palais se ne è avuto un saggio. All’inizio dei video le figure di The Encounter e Walking on The Edge sono quasi inscindibili dal paesaggio. Il loro impercettibile ma progressivo avanzare verso la videocamera, ‘costruito’ grazie a riprese ad alta definizione, poi iper rallentato e riprodotto su schermi al plasma di medio formato orizzontale o verticale,[83] appare a lungo come un tutt’uno con il paesaggio. Nel momento in cui le figure si fanno più leggibili, quel lento procedere diventa, insieme al contesto ambientale, veicolo di un piccolo racconto; un messaggio di taglio allegorico affidato qui, a differenza di Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat), esclusivamente alle immagini. L’audio è assente.
In Walking On The Edge[84] a essere protagoniste sono due figure maschili, forse un padre e un figlio. Nell’approssimarsi all’obiettivo si avvicinano anche l’uno all’altro, ma non appena le loro braccia si sfiorano, i loro occhi si scambiano a stento uno sguardo, forse un sorriso, e i due si riallontanano di nuovo disegnando virtualmente un percorso a x, fino a uscire dai margini di un ‘campo’ rimasto aridamente vuoto.
In The Encounter[85] muta il genere delle figure. Protagoniste sono due donne, vestite con lunghi abiti leggeri e svolazzanti, che attraversano il torrido paesaggio desertico in parallelo. Nel momento in cui giungono in primo piano, chiaramente leggibili, si voltano l’una verso l’altra e staccandosi dalle rispettive posizioni (coincidenti, per noi che guardiamo, con i margini laterali dello schermo) si avvicinano per incontrarsi. Dopo The Greeting, Viola ha filmato un altro incontro e come le Elisabetta e Maria riprese nel 1995, anche in questo caso ha prediletto due donne di età diversa. Il momento dell’abbraccio è stato però superato a favore di un altro gesto. La donna più anziana porge alla più giovane un dono, un piccolo contenitore che non è dato sapere cosa contenga. Il tempo della consegna, uno sguardo complice, pochi attimi insieme, e le due donne si scambiano di posto per riprendere il cammino parallelo, proseguendolo a ritroso. Se non fosse per il leggero sventolare degli abiti, il gesto emblematico della consegna, esattamente al centro dell’inquadratura, apparirebbe come in un fermo immagine. Ma il tempo è fluido, scorre, si lascia attraversare e la sosta non può durare se non il necessario per un passaggio di consegne, ciclico e inarrestabile.
Le medie dimensioni dello schermo sono un ulteriore strumento per sottolineare la solenne e simbolica naturalezza di un momento condivisibile e intensificare, proprio attraverso la rappresentazione ‘mediata’ da un contenitore e una superficie ridotti e misurabili, il senso della vastità e dell’incommensurabilità spazio-temporale. L’escamotage – dare enfasi all’estensione attraverso il suo contrario – è stato contemplato anche in Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat), così come l’impiego di uno speciale obiettivo in grado di resistere alle estremità atmosferiche e restituire una trama elettronica assai vicina alla pittura di ambito impressionista. Nonostante questo, nel passaggio dall’opera del 1979 alla serie Mirage alle corrispondenze si sostituiscono alcune differenze. In aggiunta al cambio di apparato tecnologico, analogico prima, digitale dopo, le opere si distanziano anche per le modalità di ripresa. L’avvicendarsi dell’inquadratura fissa a quella in movimento,[86] in linea con le scelte adottate da Viola a metà degli anni Novanta, in Mirage cede il passo a lunghissimi piani sequenza a ripresa unica, utili a mettere in risalto «la posizione che gli esseri umani occupano nell’ordine naturale, sia sotto l’aspetto fisico che metafisico».[87]
Tale affermazione è oltremodo valida per Going Forth by Day,[88] realizzata nel 2002 per il Guggenheim Museum di Berlino[89] e considerata da molti il momento nevralgico dell’esposizione parigina.
Going Forth by Day è, con le parole di Kira Perov, un grande «affresco numerico suddiviso in cinque parti»,[90] per realizzare il quale sono stati costruiti set hollywoodiani e sono stati ingaggiati tecnici specializzati, con altissime competenze di produzione e post produzione. Viola inaugura qui l’alta definizione[91] e, come è solito fare con ogni tipo di tecnologia, la combina con suggestioni e contenuti prodotti da secoli di consapevolezza storica e artistica.[92] Fino a questo momento abbiamo incontrato dittici, trittici, predelle e con gli occhi dell’artista abbiamo rivisitato solo alcuni dei maestri e delle epoche con cui Viola si è confrontato. In Going Forth by Day il riferimento è ancora una volta esplicitato. Ad essere chiamati in scena sono Luca Signorelli, con il suo ciclo di affreschi sulla fine del mondo e il Giudizio universale nel Duomo di Orvieto, e soprattutto Giotto e la Cappella degli Scrovegni (Padova), apoteosi combinatoria di superfici bidimensionali, spazio architettonico e narrazione.
La Cappella degli Scrovegni a Padova è una delle più grandi installazioni del mondo dell'arte perché è un gigantesco racconto a tre dimensioni in cui entri […] I suoi cicli di affreschi si possono considerare i primi film in cui c’era di tutto: emozioni, sensazioni, storia. Mancava solo il movimento.[93]
L’idea è nata quando ho visitato la Cappella degli Scrovegni a Padova […]. Quando ho visto lo spazio sono rimasto sopraffatto. Dopo il primo impatto, quando mi sono ripreso, ho riflettuto sul fatto che ogni superficie era affrescata, è stato come entrare in una realtà virtuale. […] Così ho iniziato a progettare un grande ciclo di immagini, connesse ma indipendenti. Quello che mi ha affascinato era entrare in uno spazio e camminare dentro le immagini. È quello che ho fatto in Going Forth by Day. Entri in un luogo illuminato solo dai bagliori delle proiezioni per camminare, come in un sentiero, in questa lunga stanza e attraversare il ciclo eterno della vita e della morte, della creazione e della distruzione.[94]
Con nuove tecnologie e in continuità con l’imponente lezione spettatoriale offerta dalla Cappella degli Scrovegni, in Going Forth by Day Viola affronta il macro tema dell’esistenza applicando all’installazione delle opere i criteri progettuali del modello immersivo giottesco: uno sviluppo dell’azione per ‘quadri’ narrativi contenuti in un unico spazio, non solo visivamente, ma anche acusticamente avvolgente. L’interesse verso un’arte «collegata al corpo»,[95] con un coinvolgimento plurisensoriale dello spettatore che, libero di muoversi o di stazionare di fronte alle immagini, riconquista un ruolo fortemente partecipativo, non nasce con Going Forth by Day. Risale a circa quarant’anni prima, a quando Viola giunse a Firenze per lavorare per Maria Gloria Bicocchi e Art/Tapes/22.[96] Lì comprese per la prima volta che l’arte presente nelle chiese fiorentine era una «forma di installazione». Rispetto al passato, il ciclo del 2002 è però il primo in cui le opere convivono all’interno di un solo grande spazio – a differenza di quanto accaduto con altri cicli, come Buried Secrets o Five Angels for the Millennium (2001), dove le opere sono installate in più ambienti. Fire Birth, The Path, The Deluge, The Voyage, First Light – queste le cinque proiezioni da cui è composto – esplorano rispettivamente i temi della nascita (come ingresso nell’al di qua), del sentiero della vita, del diluvio (quasi una forma di Giudizio universale), della morte, come ulteriore momento di passaggio e della rinascita risuonando simultaneamente in una gigantesca opera corale, mandata in loop direttamente sulle pareti dell’enorme sala del Grand Palais (di più di 150 mq!). Scomparsi i supporti, le cinque finestre affiancate, le sequenze stagionali e l’ordine rigoroso di Catherine’s Room si sono qui trasformati in imponenti proiezioni simultanee di trentacinque minuti ciascuna, a cui si può accedere dopo aver varcato una soglia, cioè un’apertura praticata in Fire Birth, prima opera del ciclo, tra le immagini di un enigmatico liquido rossastro (che ha in sé sia la potenza dell’acqua che la violenza del fuoco), dove il fluttuare di una figura sembra indicare la necessità di una trasformazione.
È l’uscita da uno status e l’inizio di un nuovo movimento. Le dimensioni delle proiezioni appaiono subito diverse. Il percorso visivo si snoda idealmente in senso orario procedendo lungo una ciclica linearità, anche se non c’è un vero e proprio inizio, è assente una conclusione e chi ha varcato la soglia non si può rendere subito conto di tutto ciò!
Seguendo l’orientamento dato da Viola, sulla sinistra è posta The Path, undici metri di straordinaria maestosità[97] che ha per protagonista un flusso costante di persone che camminano in un bosco, lungo un sentiero di cui non si vede né l’inizio e né la fine. L’avanzare è a passo variabile. Ci sono persone giovani, anziane, bambini; persone comuni procedono in un’unica direzione, portando con sé un oggetto, o un bagaglio, più o meno pesante. Un’indicazione, insomma, di memoria personale a cui, con l’immagine del bosco, se ne associa una altra, più pubblica, collettiva e storica.
Come per Emergence (2002), in cui Viola ha contaminato l’impianto della Pietà di Masolino da Panicale con elementi tratti dalle Pietà di Sebastiano del Piombo, di Michelangelo (Pietà Rondanini) e di Raffaello (Pala Baglioni), anche con il bosco di The Path è accaduto qualcosa di simile. I richiami possono essere a due tavole di medio formato di altri grandi maestri del Rinascimento: la tavola botticelliana esposta al Prado e dedicata a Nastagio degli Onesti, dove nel racconto pittorico, ambientato di giorno, gli alberi si interpongono alle figure, e la Caccia notturna di Paolo Uccello, presente all’Ashmolean Museum di Oxford,[98] che ha, invece, come suggerisce il titolo, un’ambientazione notturna.
A differenza di quanto accaduto in opere come Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat) o la serie Mirage, dove l’immensità dello spazio è enfatizzata, quasi per contrasto, dalla riduzione dello schermo, con le tavole appena citate l’esiguità del formato lancia una sfida al contrario. Il formato rettangolare delle tavole, che si aggira in entrambe le opere intorno al metro di lunghezza, in proiezione può tradursi in uno spazio ‘magnificato’ grazie alla restituzione dettagliatissima permessa dall’alta definizione.
Tornando alla grande sala della mostra, The Deluge è forse il lavoro con le maggiori problematiche produttive.[99] Il riferimento iconografico è agli affreschi del Finimondo (1499-1502) di Luca Signorelli, a cui Viola si rifarà due anni più tardi anche con The Raft (2004).[100] Con il terzo ‘quadro’ si giunge in un altro contesto, radicalmente diverso dal precedente. Non più un bosco, ma la scenografia ben costruita, e posta in primo piano, di un piccolo edificio e della porzione di marciapiede sottostante. Qui, di fronte all’obiettivo immobile della camera, un via vai di persone è colto nel proprio affaccendarsi quotidiano, finché, anticipata da una frenesia crescente di azioni e suoni, l’ordinaria quotidianità è sconvolta da un flusso d’acqua eccezionale che, come un torrente in piena, fuoriesce dall’edificio, trascinando con sé persone e cose.
L’uomo però fa parte di un tutto che evolve a prescindere da forme di distruzione e morte. Il concetto è ripreso in The Voyage, quarto ‘quadro’, dove l’acqua è ancora una volta presente. La si vede dall’alto, stavolta, in secondo piano, sotto forma di un sereno lago. In un’unica proiezione, traendo ancora una volta ispirazione dalla pittura di Giotto, ma anche dalla tradizione pittorica orientale giapponese «in cui una stessa figura compare in punti diversi del proprio viaggio»,[101] Viola condensa più azioni: a sinistra, su una collinetta, nello spaccato di una piccola casa che domina il lago dall’alto, assistiamo al congedo dalla vita terrena di un uomo anziano e al dolore dei suoi figli. In basso, in parallelo, i suoi beni sono mano a mano caricati su una barca, alla presenza di una donna, anziana anch’essa. A fine sequenza l’uomo, che vedremo di nuovo vivo, si unirà a lei, insieme saliranno sulla barca e cominceranno con tutto il carico il loro viaggio sul lago. Le riprese sono state effettuate da due angolazioni diverse e con due differenti focali: la casa è stata ripresa da lontano con un teleobiettivo, mentre la scena sul lago è stata girata dall’alto con un grandangolare. Soltanto successivamente le due parti sono state riunite in uno stesso frame.
La parete che ospita The Voyage contiene anche un’altra proiezione, a questa concettualmente analoga. La dimensione di un tempo vissuto come speranza e attesa, reali e ipotetiche, rivive ancora in un’altra sfumatura in First Light. Qui vediamo dei soccorritori intenti a rimettere a posto le proprie cose, e nella scheda dedicata all’opera Viola ci racconta che il riordino avviene dopo una notte passata a cercare di salvare un gruppo di persone sorpreso in una zona desertica da un’improvvisa e violenta inondazione.[102] Una donna, ammutolita dal dolore ma composta, contenuta nella sua sofferenza e con lo sguardo perso nell’area duramente colpita, sosta sul bordo di una delle voragini provocate dall’irruenza dell’acqua, nella speranza che chi è ancora disperso possa comunque essere recuperato. Esauriti dalla stanchezza e dall’ansia, la donna e i soccorritori rimasti con lei si prendono una pausa e si addormentano. A questo punto quel corpo disperso e non ancora recuperato riemerge, elevandosi (biancovestito) lentamente nell’aria, senza essere visto da nessuno dei presenti, sotto una pioggia sempre più consistente e un cielo che, nelle luci dell’alba, tende a schiarirsi.
Delle cinque opere del ciclo First Light ha richiesto i maggiori sforzi produttivi,[103] mentre dal punto di vista estetico è forse stata la più difficile e anche la più delicata da realizzare.[104] Il senso dell’intero lavoro è comunque chiaro. Al di là della tradizione iconografica cristiana e pagana – nel catalogo si legge che la scena dei soccorritori è ambientata il giorno dell’equinozio di Primavera –[105] l’intero ciclo è un inno al tempo e all’esperienza secolare, messa sempre in mostra con l’ausilio del passato. Un passato lontano, che vive tra le pieghe della storia, del pensiero e dell’arte, con i suoi religiosi e laici ‘giudizi’, le rinascite e le sue storie per quadri, contigui.
L’esistenza dispiegata nelle sfumature di una temporalità artificiale contribuisce allora a far affiorare gli elementi difficili e profondamente intimi della sfera emotiva, tesi a diventare fragilissimi, e ancora più comuni, quando il meccanismo del tempo reale si rompe e sembrano saltare sia le attese che le speranze.
8. Metamorfosi e nuovi inizi
La mediazione tra la seconda e l’ultima parte del percorso è stata affidata a Presence (1995), installazione esclusivamente sonora tra le più duttili e flessibili della carriera di Viola. Nel 1995 Presence è presentata per la prima volta tra le opere di Buried Secrets nel padiglione americano dei Giardini della Biennale d’Arte di Venezia. Per questa prima esposizione Viola aveva usato la struttura della cupola dello stesso padiglione come architettura potenziante l’effetto acustico dei suoni, costituiti da voci di persone di età diversa (dai vagiti dei bambini ai timbri di voce delle persone anziane), messaggere di pensieri interiori e segreti, diffusi nell’ambiente con intensità differenziata, fino al limite della percezione. Negli allestimenti successivi di Buried Secrets, Presence è stata regolarmente riadattata allo spazio.[106] Subito dopo la Biennale, ad esempio, l’intero ciclo è stato allestito all’Art State University Art Museum Tempe, in Arizona (dal 9 marzo al 9 giugno del 1996), dove l’installazione è stata dislocata su due piani. Il suono di queste voci sussurrate, mai comprensibili chiaramente, sparse nell’aria sotto forma di bisbigli, come a formare un tappeto costante e variegato di timbri e tonalità, in questo caso accompagnava lo spettatore anche fuori dal luogo della loro propagazione.
Nell’allestimento del Grand Palais la situazione è simile. Presence la troviamo invisibilmente allestita sulla scala che collega i due piani della mostra. Stavolta non ci sono immagini a catturare l’attenzione, sono i suoni che raggiungono il visitatore, lo sorprendono mentre scende al piano sottostante, e lo accompagnano fin quasi dentro all’installazione successiva, dove si mescoleranno e lasceranno discretamente spazio ad altri suoni e, di nuovo, alle immagini.
La strada verso la fine del ‘viaggio’, costellato anche da produzioni recenti, si apre o con Tristan’s Ascension (The Sound of a Mountain Under a Waterfall) o con Fire Woman, indifferentemente, dato che le gigantesche proiezioni – tre per sei metri di verticalità – si alternano su uno stesso schermo e nel momento in cui si esce da Presence non si sa quale delle due si offra per prima alla visione.
Collocate esattamente nello spazio sottostante The Sleep of Reason, sia Tristan’s Ascension che Fire Woman hanno origine dal Tristan und Isolde di Richard Wagner, messa in scena, come è stato anticipato, da Peter Sellars all’Opéra di Parigi nel 2005. Le proiezioni sintetizzano la fine del terzo atto e Viola, per realizzarle, trae ispirazione dall’invocazione della ‘morte d’amore’ di Isolde, concentrandosi sull’ immensità di un sentimento che potrà ‘vivere’, a questo punto, soltanto trascendendo il corpo. L’affrancamento si traduce per Tristan in una ‘ascensione’ e per Isolde in una ‘caduta’.
In Fire Woman[107] Isolde è una scura silhouette posta di fronte a un enorme muro di fiamme. Un lento movimento delle braccia verso l’alto, un passo in avanti e un forte aumento della componente sonora preannunciano il suo gesto. Il cadere in acqua è accompagnato da una grande deflagrazione. Alla massima risonanza spaziale corrisponde la fusione della silhouette con il suo riflesso, e a questa segue, come in Surrender (2001), un lungo amalgamarsi di colori, che va avanti fino a quando il giallo delle fiamme non viene definitivamente inghiottito dal blu intenso dell’acqua.
Opposta è la rappresentazione di Tristan’s Ascension.[108] Il corpo di Tristan, vestito di bianco, spicca su un fondo scuro uniforme e appare disteso su una base rettangolare, in pietra. Lentamente, alcune gocce d’acqua si trasformano in uno scroscio torrenziale che da terra sale verso l’alto. Il corpo di Tristan ne è investito ma, sollevandosi in più punti e ricadendo mollemente su se stesso, inizialmente sembra porre resistenza; soltanto in un secondo momento cede alla forza dell’acqua e si eleva fino a scomparire, sospinto dall’irruenza del flusso.
I due lavori rievocano in modo evidente opere precedenti di Viola, a partire da The Crossing (1996), la cui impostazione fa da matrice comune. Per Fire Woman, oltre alla citata Surrender, non passa inosservato il richiamo a Déserts e ancor prima a The Reflecting Pool, così come per Tristan’s Ascension il diretto collegamento è proprio a First Light e un evidente rimando è The Deluge o The Raft (2004).
In Man Searching for Immortality / Woman Searching for Eternity (2013) la dura pietra su cui, nell’altra opera giaceva Tristan si tinge di nero, si duplica e diventa uno schermo di proiezione. Due vere lastre di granito rettangolari e gemelle, poste a mo’ di dittico e con uno sviluppo verticale che supera i due metri di altezza, mostrano un uomo e una donna avanti con l’età. Sono completamente nudi; sui loro corpi i segni del tempo si scoprono tra i capelli argentei, le vene in rilievo e le rughe della pelle. Talvolta sia l’uomo che la donna guardano in macchina; per la maggior parte del tempo, però, scrutano con attenzione il proprio corpo e per un lungo periodo lo osservano aiutandosi con una piccola torcia elettrica.
La durata della proiezione è di 18’54” e l’opera è tra le più interessanti della mostra. Rievoca e unisce la forza atavica di un materiale come il granito – antico, magmatico e fluido prima di trasformarsi in dura roccia – alla potenza di un’immagine che si tramanda da millenni, oralmente e iconograficamente. I corpi del dittico potrebbero ricondurci agli Adamo ed Eva di Masaccio, di Masolino, o di Dürer, ma il loro candore segnato dal tempo si oppone all’immagine tradizionale della famosa coppia, immortalata spesso nel fiore degli anni. L’Adamo ed Eva di Viola contrastano sia con la secolare immagine stereotipata che con la materia da cui sembrano emergere. Anche il granito ci fa viaggiare verso altre opere. Viola nel 1994 lo ha usato come materiale riflettente in Stations – installazione antesignana, per il principio compositivo, anche della appena incontrata Surrender – ponendolo al di sotto di ognuna delle cinque proiezioni di cui l’opera si compone, quasi come fosse uno specchio d’acqua su cui appare il riflesso simultaneo, e raddrizzato, dei molli corpi proiettati capovolti al di sopra. Una superficie imperscrutabile e inquietante, statica ma apparentemente fluida e viscosa, su cui i corpi sembrano galleggiare, scivolare fuori dal limite della lastra per riprecipitarvi in un secondo momento, accompagnati da un grande boato.
In Man Searching for Immortality / Woman Searching for Eternity[109] non accade nulla di tutto questo. I corpi, inizialmente in bianco e nero, avanzano dalla profondità della lastra e lentamente si colorano. Nei movimenti lenti, gentili e calibrati, mostrano tutta la loro ieratica serenità e quando hanno finito di lavorare su se stessi ritornano, imperturbabili, verso quella profondità da cui erano emersi, riacquistando progressivamente il bianco e nero. Il frammento di granito fa loro da supporto, è una soglia di pietra dal sapore eterno, che rivela e al tempo stesso custodisce corpi ricchi di vissuto. Nell’opera si ‘celebra’ l’incontro di una forza che rimane anche a luci spente, e di una fragilità che ciclicamente appare per poi scomparire; entrambe, nelle loro rispettive e specifiche essenze, sono il risultato di un lungo, corroborante cammino.
Del passaggio da un oscuro mondo in bianco e nero ad uno colorato, di ipotetiche soglie, di rivelazione e ciclicità parla anche Three Women (2008),[110] opera del ciclo Transfigurations.
Il titolo della serie, Transfigurations (che comprende Three Women, 2008, e Visitation non in mostra n.d.c. 2008), si riferisce a un raro processo in cui sia la sostanza che l'essenza di un'entità vengono riconfigurate. In termini fisici, una trasfigurazione è un cambiamento nella forma, un rimodellamento dell’aspetto, una metamorfosi. La parola deriva dal greco antico “metemorphothe”, o “metamorphosis”, e suggerisce un totale rinnovamento. Tuttavia, la parola assume il suo pieno significato nel contesto spirituale, quando si riferisce al momento in cui una persona o un oggetto si trasforma non con interventi esterni, ma dal di dentro. Il conseguente cambiamento è assoluto e completo, colpisce il cuore e l'anima del soggetto. Sebbene talvolta l'aspetto esteriore possa essere, modificato, in questo processo non è comunque necessario. Una più profonda, più forte, completa trasformazione avviene all’interno della persona, fuori dalla vista, e questa riformula ogni fibra del suo essere, fino a irradiarsi al di fuori di questo e influenzare tutto ciò che gli è intorno.[111]
Ad aprire le danze di Transfigurations è stata Ocean without a Shore (non presente nella mostra parigina), presentata in anteprima mondiale nella settecentesca chiesa di San Gallo a Venezia durante la 52ª Biennale di Venezia, nel 2007. Three Women è nata l’anno successivo ed è, rispetto all’opera originaria, una delle variazioni più riuscite. L’idea del trittico, insita in Ocean without a Shore, nella triade costituita dalle ‘pale’ elettroniche poste sopra i tre altari della chiesa, si ripresenta in Three Women attraverso le tre figure femminili, di eco classica, che abitano la proiezione. Le ipotetiche figlie di Zeus rispettano solo in parte i canoni rappresentativi con cui sono state dipinte, ad esempio, nella Primavera di Botticelli o nelle Tre Grazie di Antonio Canova. Pur avendo un alone misterioso che le fa apparire per alcuni istanti quasi come entità soprannaturali, le donne di Three Women incarnano l’idea di uno scorrere circolare, di un passaggio generazionale, in parte anche tecnologico.[112] La periodicità del movimento, tipico della danza,[113] congelato nelle altissime versioni pittorica e scultorea, diventa in Viola un flusso invisibile e inarrestabile che contrasta con il lento avanzare delle figure, molto simile a quello incontrato nella serie Mirages (anche se in Transfigurations non ci sono paesaggi e non sono indagate le relazioni, ma la consapevolezza dell’esistenza).
Come in Ocean without a Shore, l’avanzata delle tre donne verso lo spettatore è in bianco e nero ed è tale finché non incontrano una soglia invisibile, una cascata d’acqua talmente trasparente che diventa percepibile solo nel momento in cui viene attraversata. A quel punto l’immagine vira al colore, il suono si intensifica e sullo schermo al plasma (dell’ampiezza di 155,5 x 92,5 x 12,7 cm) l’acqua appare in tutta la sua potenza: è «magica e misteriosa, produce il cambiamento e il rinnovamento».[114] Completamente bagnate e un po’ esitanti, le figure si voltano, riprendono il cammino a ritroso e insieme a questo anche il bianco e nero, con alla fine un nuovo significato. La consistenza del granito qui è come se si fosse liquefatta, mentre quella dell’acqua, elemento metamorfico per eccellenza, ha assunto le sembianze di una materia da infrangere, un muro creato goccia dopo goccia, se si pensa a He Weeps for You, diventato energico e vigoroso, che possiamo (dovremmo?) avere il coraggio di oltrepassare.
Chi sono? Dove sono? Dove vado? All’ultima domanda non abbiamo la possibilità di ribattere, dice Viola, (e non solo lui), se non attraverso un’autentica risposta data al «Chi sono?» iniziale. La chiave dell’esistenza parte dalla consapevolezza di se stessi. In Three Women l’artista la chiama in causa attraverso il ruolo attivo della femminilità, del suo carattere trasformatore. La donna è nell’opera un’individualità iniziatica, misteriosa, archetipica. Una Grande Madre, si potrebbe dire, padrona di una conoscenza più intima e vera, e fecondatrice di una lenta, ma progressiva metamorfosi verso un risveglio del sé.
La consapevolezza prodotta dalla metamorfosi è una trasformazione autentica, avviene dall’interno e tutto il corpo la vive come una rinascita.
A partire dall’inizio del nuovo millennio, nelle dichiarazioni di Viola, complice la morte del padre (a cui dedica The Voyage, la quarta proiezione di Going Forth by Day), la speranza del rinnovamento diventa un tema sempre più ricorrente. Con Ascension (2000), frutto di un errore tecnico[115] che dà il via alla serie Five Angels for the Millennium (2001), il corpo è chiamato a uscire dagli abissi emozionali e limbici che rischiano di immobilizzarlo, lasciandolo in balia di un’apatia sterile, ben simboleggiata dalla figura dell’uomo sommerso e fluttuante.
La rappresentazione del corpo sott’acqua, pressoché inerte, comincia agli inizi degli anni Novanta, stavolta dopo la morte della madre, con The Passing (1991), video monocanale, e di lì a poco sarà reiterata nel pannello centrale di Nantes Triptich, in The Arc of Ascient, narrata, a voce, in The Stopping Mind (1992)[116] e, come abbiamo avuto modo di vedere, esposta e ripetuta in Stations e in First Light.
Nelle acque blu intenso di Ascension il piombare, fragoroso e inaspettato, del corpo diventa indice dell’urgenza di un confronto simultaneo con un mondo interiore per lo più inesplorato e con uno superiore altrettanto ignoto. Accompagnata da una luce di taglio caravaggesco e da un frastuono assordante quanto energizzante, che rende l’atmosfera sommersa carica di innumerevoli effervescenti bollicine, la figura dell’uomo vestito che precipita in acqua a braccia sollevate, tese a rimanere allargate ad altezza delle spalle, condensa in un unico momento due fasi e due ritualità opposte. Nel clima di sospensione, intensificato dalla lentezza della durata, il liquido profondo, quasi amniotico, accoglie e avvolge un corpo secolarmente crocifisso e contestualmente battezzato, condotto a nuova vita. Al suo precipitare l’acqua risponde con un fare elastico che ne implica una risalita, una riemersione. Un’ascensione, per l’appunto, o una catarsi, che lo distanzia dalle inquietudini del proprio caos e lo conduce, nell’esposizione, verso una condizione «pacata».[117]
L’acqua, come la terra e il fuoco, il vento, lo scatenarsi della natura, che ci travolge così come ci avvolge. Ci sveglia, così come ci culla. Ci dà la vita e ce la sottrae. Tutta l’opera di Bill Viola racconta, rappresenta, mette in scena (negli ultimi anni, con la presenza e la recitazione di attori) il transito degli esseri viventi sulla Terra, la fragilità e la forza di questo transito, il dialogo pacato o violento fra l’uomo e la natura. [118]
Con The Dreamers[119] l’esposizione giunge a conclusione. Nella serie dei Water Portraits, esposta nell’ultima sala su sette grandi schermi verticali al plasma, il corpo si placa e l’acqua si ridimensiona, trasformandosi ulteriormente.
Non è più né uno specchio riflettente, né una goccia d’acqua, né un flusso irrefrenabile, né un mare profondo messo in agitazione; a differenza delle altre versioni che l’hanno preceduta, compresa quella contenuta nei bidoni di The Sleepers (1992),[120] l’acqua è qui un’interfaccia trasparente, appena mossa, che ricopre, come un nirvanico velo, sette figure di uomini e donne di età diverse, illuminate da una luce diurna tenue e uniforme. Vivi ma vicini per molti aspetti all’Ofelia (1851-1852) di Millais, i Dreamers sommersi sono ritratti poco più che a mezzo busto – ritorna la mezza figura – distesi su un letto di ciottoli simile a quello di un greto di torrente, con indosso abiti che ne raccontano l’individuale quotidianità. Tutti sono in apnea (anche se innaturale, perché rallentata), hanno gli occhi chiusi, un’espressione serena sul volto e i tratti delicatamente alterati dai pigri movimenti di un’acqua carezzevole, quasi levigante, ritmata dai loro stessi movimenti, pressoché impercettibili.
In The Dreamers «l'acqua è un modo di essere eterno».[121] Un’eternità pari a quella raccontata dalle rotonde memorie dei ciottoli di fiume, su cui sono scorsi secoli di transitorietà e si sono sovrapposte, e continueranno a farlo, epoche di storie, potenziate e richiamate nell’opera.
Il 21 luglio 2014 la mostra del Grand Palais, lo abbiamo detto, ha chiuso i battenti. Ma ci sono sedi dove il lavoro di Viola avrà il sapore dell’eternità. Uno speciale Water Portrait è ospitato da dicembre 2013 nell’esposizione permanente del Corridoio vasariano, agli Uffizi di Firenze, «città» che gli «ha cambiato la vita»[122] – di fatto la città che ha indirizzato il suo futuro percorso.[123] Si tratta del Self Portrait, Submerged, donato dallo stesso Viola per celebrare i venti anni dell’associazione Amici degli Uffizi, nata nel 1993 al fine di sostenere la rinascita di quella parte degli Uffizi gravemente ferita dall’attentato dei Georgofili dello stesso anno, e anch’essa vittima tra le vittime. Un video ritratto sommerso che in questa sede estende e nutre il senso delle parole eternità e memoria, arricchendole, come già accaduto in Viola per alcune delle opere nate dopo l’11 settembre del 2001 (Observance[124] e The Raft) di un valore civile, oltre che storico e artistico. Lo stesso si può dire per Martyrs, il lavoro che da maggio scorso è visibile, anche questo stabilmente, alla Cattedrale di Saint Paul a Londra. Il tema dell’opera, il supplizio dell’uomo, non è un omaggio alla Cristianità, ma alla sofferenza e al sacrificio dell’uomo comune, che non ha necessariamente un credo, nei confronti della vulnerabilità, propria e indotta.
La mia arte non è realmente cinema, non è pittura. Non è realismo, sebbene si avverta spesso come qualcosa di realista, e non è una creazione, poiché tutte le immagini derivano dalla vita reale. Penso si tratti piuttosto di un’espansione dei livelli di realtà.[125]
È quanto abbiamo visto al Grand Palais e crediamo di poter ritrovare in prossime esposizioni. L’auspicio, però, è che ci possa essere l’occasione di rivedere anche un Viola meno inflazionato, come quello dei primi tempi.[126] In questo testo l’ampia retrospettiva parigina ci ha dato l’opportunità di riflettere sui nodi e il senso della sua poetica, permettendoci dei salti esplorativi che ci hanno ricongiunto anche a un ‘prima’ 1977, periodo in cui si trovano i reali semi del suo fare odierno. Avere la possibilità di farlo pure in presenza delle sue opere più datate farebbe la gioia dei moltissimi suoi ammiratori e forse limiterebbe il montare della facile onda misticheggiante, diventata una comoda e sterile etichetta, nel migliore dei casi solo salottiera, che nulla ha a che fare con un’arte orientata verso un passato ricco di memoria e un presente sperimentale, entrambi ‘organicamente’ ed eternamente in movimento.
1 D. Bloch (edited by), Bill Viola, ARC, Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris, Paris, December 1983 - January 1984 (francese e inglese); testi di Anne-Marie Duguet, Deirdre Boyle, John Hanhardt, Bill Viola.
2 Viola si laurea nel 1973 in Experimental Studios presso il College of Visual and Performing Arts della Syracuse University (Syracuse, USA). Al suo attivo ha anche una formazione storico-artistica tradizionale.
3 Cfr. R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons for Knocking at an Empty House: writings 1973-1994, Cambridge Massachusetts, The Mitt Press, London, Thames & Hudson in association with Anthony D’Offay Gallery, 1995, pp. 287-289.
4 Che aveva da poco pubblicato il suo lungimirante Expanded Cinema. Cfr. G. Youngblood, Expanded Cinema, New York, E. P. Dutton & CO, 1970, ed. it P. L. Capucci, S. Fadda (a cura di), Bologna, Clueb, 2013.
5 Bridges / M. Girard, B. Lambert, ‘Bill Viola, Grand Palais, L’exposition’, https://www.youtube.com/watch?v=Jg19GwNCJU0 [accessed 2 February 2014].
6 J. Neutres, ‘La métaphysique de Bill Viola’, in J. Neutres, A. M. Duguet (a cura di), Bill Viola, Paris, Grand Palais, Galeries nationales, 5 mars - 21 juillet 2014, Paris, Edition de la a Réunion des musées nationaux - Grand Palais, Flammarion, 2014, p. 18.
7 Le opere sono state presentate alla Fondation Cartier pour l'Art Contemporain e alla Biennale d'Art Contemporain di Lione rispettivamente nel 1990 e nel 1995. The Sleep of Reason la incontreremo anche in mostra. Dove non sia necessario fare diversamente, le date delle singole opere sono dichiarate tra parentesi soltanto la prima volta che vengono nominate.
8 Jean-Paul Cluzel, Président de la Réunion des musées nationaux - Grand Palais, in J. Neutres, A. M. Duguet, Bill Viola, p. 9.
9D. Bloch, ‘Les Vidéo-paysage de Bill Viola’, Art Press, 80, aprile 1984, pp. 24-26; A. M. Duguet, ‘Les videos de Bill Viola: une poétique de l’espace-temps’, Parachute, 45, dicembre 1986 - febbraio 1987, pp. 10-15, (F), pp. 50-53 (E); R. Bellour, ‘An Interview with Bill Viola’, October, 34, autunno 1985, pp. 91-119, pubblicato anche in ‘Entretien avec Bill Viola, L'espace à pleine dent’, Cahiers du cinéma, 379, 1986, pp. 35-42 e in J. P. Fargier (a cura di), ‘Où va la vidéo?’, Cahiers du cinéma, numero speciale, 14, 1986, pp. 64-73.
10 J. P. Fargier, Bill Viola, expérience de l’infini, 2014, 52, MAT Films avec la Réunion des Musées Nationaux – Grand Palais et TVFIL 78. Con interventi di: Raymond Bellour, Nadeije Dagen, Anne-Marie Duguet, Alain Fleischer, Jean de Loisy, Valentina Valentini e Jérôme Neutres.
11 J. P. Fargier, The Reflecting Pool de Bill Viola, Crisnée, Belgio, Éditions Yellow Now, 2005, ed. it. The Reflecting Pool di Bill Viola, Roma, Bulzoni Editore, 2009.
12 B. Viola, ‘The Reflecting Pool’ (estratto), http://www.sfmoma.org/media/features/viola/BV13.html [accessed 2 February 2014]. L’opera segna, infatti, anche l’inizio del sodalizio Viola-Perov che risale esattamente al 1977, anno in cui Viola viene invitato da Kira Perov, fotografa australiana e allora direttrice delle attività culturali dell'Università La Trobe di Melbourne, a presentare il suo lavoro in occasione della mostra Video Spectrum. The Reflecting Pool. All’epoca era solo un video, ma nel 1979 diventerà una raccolta di cinque videotape, e questo accade dopo il trasferimento di Kira Perov negli USA e nel periodo in cui Viola lavora come artista residente alla WXXI TV di Rochester.
13 Bill Viola in R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 207.
14 Bill Viola, ‘Entretien avec Anne-Marie Duguet’, 27 aprile 1986, in A. M. Duguet, Déjouer l'image. Créations électroniques et numériques, Nîmes, Editions Jacqueline Chambon, 2002, p. 58.
15 Bill Viola in R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 61.
16 B. Viola, ‘He Weeps for You’ (videoinstallazione) http://www.sfmoma.org/media/features/viola/BV08.html [accessed 2 February 2014].
17 Per quella che è la storia artistica di Bill Viola, su cui anche l’arte fiamminga del Quattrocento ha un notevole ascendente, la lente ricurva, il gioco di riflessi e l’uso dello spazio architettonico ricordano in parte l’olio su tavola di Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434), conservato alla National Gallery di Londra. Quando realizza He Weeps for You Viola aveva già soggiornato a Firenze e aveva già cominciato a interessarsi, come vedremo in seguito, all’arte del Quattrocento italiano, con la sua stretta relazione tra «l’immagine e l’architettura». «L’atto del dipingere» scrive Viola «diventa [nel rinascimento, n.d.c.] una forma architettonica, spaziale, che lo spettatore sperimenta fisicamente camminandovi attraverso». Cfr. R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 105. Non sappiamo, perché non riportato da nessuna fonte, se in quegli anni si fosse anche confrontato con l’arte di van Eyck, anche se può averla incontrata nel corso della sua formazione. Certamente, proprio in questo periodo Viola comincia a lavorare sulla dialettica tra immagini fisse e in movimento e sulla sovrapposizione dei media.
18 «Mi sono allora reso conto di aver creato qualcosa che definirei uno spazio armonico, in senso musicale; per cui tutti gli elementi presenti nella stanza (la luce, l’architettura, le persone all’interno, il suono dell’acqua) si riflettevano in questo sistema e dipendevano da tutto ciò che succedeva intorno a loro. Per esempio, chiunque entrasse nella stanza, influenzava l’immagine esistente nella stanza stessa. Il sistema diventava quindi un riflesso di se stesso». Bill Viola, San Paolo-Brasile, 27 Settembre 1992, IX Festival Internacional Videobrasil, 20-27 settembre 1992. La registrazione audio della conferenza è stata effettuata da Sandra Lischi; trad. it. G. Pescetto, redazione del testo a mia cura; il testo è inedito, ed è presentato nella sua integralità in A. Di Brino, Bill Viola, Buried Secrets: un’estetica video tra Occidente e Oriente, tesi di laurea in Teoria e tecnica dei mezzi di comunicazione audiovisiva, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 1997-98, p. 75.
19 B. Di Marino, ‘Bill Viola. Nascita, morte e trasfigurazione dell’immagine’, Alias, supplemento de il manifesto, 40, 11 ottobre 2008, p. 6.
20 M. Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Milano, Studi Bompiani, 2008, p. 44.
21 B. Viola, ‘Heaven and Earth’ (videoinstallazione), http://www.sfmoma.org/media/features/viola/BV11.html [accessed 2 February 2014].
22 I monitor mostrano l’immagine del primo figlio e della madre di Viola. L’opera é la prima realizzata dopo la morte dell’anziana donna.
23 B. Viola, ‘Nine Attempts to Achieve Immortality’ (estratto), https://www.youtube.com/watch?v=vaNKew3vrXs [accessed 2 February 2014].
24 B. Viola, ‘The Veiling’ (videoinstallazione), http://www.sfmoma.org/media/features/viola/BV14.html [accessed 2 February 2014].
25 La videoinstallazione del 1992 è costituita da tre grandi proiezioni affiancate, di 11 metri di lunghezza complessiva. Il contenuto è collegato a Heaven and Earth – le due installazioni sono, infatti, dello stesso anno. L’immagine sulla sinistra è un piano sequenza di trenta minuti, privo di modifiche, di una donna che partorisce (Kira Perov). A questa si contrappone, sulla destra, l’immagine di una donna morente (la madre di Viola). La proiezione centrale, che mostra, invece, una persona sott’acqua che fluttua come se fosse persa, alla deriva, è proiettata su di un pannello molto sottile e trasparente che permette alla luce del proiettore di attraversare la superficie dell’immagine lasciandola depositare sullo stesso pannello solo parzialmente. Nella Chapelle de l'Oratoire del Musée des Beaux-Arts di Nantes, dove il trittico era stato disposto, dietro questo sottile schermo, si apriva un’ampia cavità in pietra, come una grande stanza vuota. A tale proposito Viola racconta che «la luce dall’immagine entrava nella stanza e diventava come una nuvola attraverso cui non era possibile vedere. Si aveva quindi un’immagine che esisteva in superficie ma che era offuscata dietro, al di là della superficie». Bill Viola, San Paolo-Brasile, 27 Settembre 1992, p. 111. B. Viola, Nantes Triptych, London, Tate http://www.tate.org.uk/art/artworks/viola-nantes-triptych-t06854 [accessed 2 February 2014].
26 K. Perov, ‘Visioni interiori’, in K. Perov (a cura di), Bill Viola, Visioni interiori, catalogo della mostra (Palazzo delle Esposizioni, Roma, 21 ottobre 2008 – 6 gennaio 2009), Roma, Giunti, 2008, p. 13.
27 Bill Viola in B. Di Marino, Bill Viola, p. 7.
28 B. Viola, Information, New York, Electronic Arts Intermix http://www.eai.org/title.htm?id=2153 [accessed 2 February 2014].
29 R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p.177 (la traduzione è mia). Information è un’opera nata per sbaglio, il classico incidente tecnico. Viola stava trasferendo un lavoro da un apparecchio di registrazione ad un altro, quando avvia accidentalmente il pulsante di registrazione dell’apparecchio su cui si trovava il master. Il segnale di avvio si propaga su tutti i circuiti presenti nello studio di registrazione creando fenomeni di interferenze, ottici e sonori, da Viola non controllati.
30 Si parla di possibilità perché i lavori di Viola non hanno una ‘fine’ in senso classico. L’opera rimane «aperta». «Bill dice che niente è perfetto. Anzi se si prova a fare l’opera perfetta non funziona. Se si lascia qualcosa aperto si può continuare ad andare avanti. La perfezione blocca tutto. E poi così è possibile per l’osservatore portare qualcosa nell’opera. […] Noi non abbiamo risposte, ci poniamo delle domande che si pone anche l’osservatore». K. Perov in M. De Leonardis, ‘Ritratto nell’acqua, è l’onda di Bill Viola’, Alias, supplemento de il manifesto, 1, 4 gennaio 2014, p. 7.
31 Per Nantes Triptych cfr. nota 25. The Arc of Ascient è la prima opera realizzata a 35 mm. R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 290.
32 R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons. Il titolo del libro deriva, in parte, dall’opera omonima: Reason for Knocking at an Empty House, 1982.
33 Che comprende: Hall of Whispers, Interval, Presence, The Veiling e The Greeting.
34 B. Viola, ‘The Greeting’ (estratto), http://www.sfmoma.org/media/features/viola/OS01.html [accessed 2 February 2014].
35 C. Falciani, A. Natali (a cura di), Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della Maniera, Firenze, Palazzo Strozzi, 8 marzo-20 luglio 2014.
36 C. Townsend (a cura di), L'arte di Bill Viola, Milano, Mondadori, 2005, p. 188.
37 Bill Viola / Pontormo. Propositura di San Michele, Carmignano, 7 aprile-17 giugno 2001.
38 V. Gravano, ‘La declinazione dell'evento’, Alias, supplemento de il manifesto, 38, 27 settembre 2008, p. 6.
39 Nell’attesa del Gesù e del San Giovanni Battista.
40 «Quando prendo in mano una videocamera o un microfono, ho a disposizione un sistema filosofico, non solo degli strumenti, perché mi permettono di fissare ed essere cosciente di quello che capto». Bill Viola in F. Arditi, ‘«Il più grande videoartista? Giotto». Incontro con Bill Viola che al Guggenheim di New York presenta la sua nuova installazione’, l’Unità, 4 ottobre 2002, p. 29.
41 Cfr. S. Bordini, ‘Più simile a una nuvola che a una roccia: Bill Viola e le immagini come organismi viventi’, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Milano, Mimesis, 2009, pp. 201-212.
42 B. Viola, ‘History, 10 Years, and the Dreamtime’, in K. Rae Huffman (edited by), Video: A Retrospective, 1974-1984, a cura di Long Beach Museum of Art, Long Beach, 1984, p. 18, trad. it. M. Giovannelli ‘La storia, dieci anni (di video) e l’epoca dei sogni’, in V. Valentini (a cura di), Bill Viola. Vedere con la mente e con il cuore, Roma, Gangemi, 1993, p. 47.
43 Conferenza sul futuro della televisione e del video che vide la partecipazione di curatori, artisti e critici chiamati a condividere e a pensare a idee e ‘nuovi’ (già allora) modelli di produzione, distribuzione ed esposizione della videoarte.
44 B. Viola, History, 10 Years, p. 18. La traduzione è mia.
45 «Ricordo di aver letto un libro di storia. La storia vista come un filtro, che continuamente viene riscritta. La memoria umana (compresi i cinque sensi) è anch’essa un filtro e, invece di essere un senso che lavora in funzione del passato, la memoria agisce sul futuro, informa tutte le azioni presenti e continuamente viene aggiornata, modificata e inventata. […] La storia serve il presente, esiste nel presente. Il concetto di storia è inestricabilmente legato al processo della registrazione (“registrazioni” storiche). Tutto quello che è registrato – che sia pietra oppure un dischetto di computer, intenzionale (la fotografia) o no (una foresta pietrificata) – è storia; tutto quello che non è registrato non esiste». B. Viola, ‘La storia, dieci anni (di video)’, p. 49.
46 E continua: «Non a caso nella poetica di questo artista sono centrali alcune tematiche esistenziali, legate a sensazioni in qualche modo primordiali, che sfiorano il sentimentalismo e la retorica ma ne sfuggono sempre, con una sorta di spudorata innocenza, proprio per la qualità e l’intensità delle immagini: la condizione dell’essere tra la nascita, il vivere e il morire, il buio, la luce, la solitudine, il sonno, il battito del cuore, il silenzio, l’immersione nell’acqua, la rinascita, il respiro. Passaggi. E non a caso il modello di queste immagini si configura in riferimento alla grande arte rinascimentale. Come per vari altri artisti, per Viola il guardare alla pittura del passato suggella una dialettica dell’immagine in cui entrano potentemente il tempo (la storia) e la memoria, ed è forse anche un modo per nobilitare le cosiddette nuove tecnologie (“umanizzare la tecnologia”, si diceva negli anni ’70-80), impastandole, per così dire con i canoni ratificati dell’arte». S. Bordini, Più simile a nuvola che a una roccia, pp. 210-211.
47 B. Viola, ‘La storia, dieci anni (di video)’, p. 56.
48 * In latino nel testo originale. B. Viola, ‘Video Black – The Mortality of the Image’, in R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 204, trad. it. A. Cigala, Video Nero – la mortalità dell’immagine (1990), in V. Valentini, Bill Viola, Vedere con la mente, p. 64.
49 Tra ciò che balza agli occhi in opere come The Greeting, c’è una marcata ricaduta estetica, senza dubbio di impatto spettacolare, e nell’accezione migliore. Le proiezioni e gli schermi a cristalli liquidi, che tra le loro caratteristiche hanno un’alta qualità pittorica, riescono molto bene nelle rese cromatica e luministica, a cui ovviamente contribuiscono anche le attrezzature di ripresa e le ottiche. Se quanto appena detto è innegabile è, però, altrettanto vero che Viola comincia negli anni Settanta a interessarsi ai formati pittorici, alle immagini – come abbiamo visto – e alle interferenze e contaminazioni tra media diversi. Ancient of Days (1979), lo vedremo, ne è un esempio, The City of Man (1989), dove per la prima volta riprende la struttura del trittico, ne è un altro. Tutto comincia nel 1974 e si rafforza nel biennio 1974-1976, periodo in cui lavora a Firenze per Maria Gloria Bicocchi e Art/tapes/22, e si avvicina, in modo diretto, ai capolavori del Quattrocento e Cinquecento italiani. Cfr. R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 241; anche in V. Valentini (a cura di), Bill Viola: vedere con la mente, p. 86.
50 Ibidem. L’arte aveva una funzione sociale. Le storie narrate dalle pitture del Trecento e Quattrocento italiano, avevano forme, colori ed elementi abilmente organizzati. Dovevano essere comprese e lo dovevano essere nel modo giusto. Attingere alla storia dell’arte diventa così per Viola pure un modo per opporre resistenza a una dimensione comunicativa caotica e impoverita, a un approccio mediatico costruito e sofisticato ma troppo spesso sterile, altrettanto quanto le quotidiane finzioni che veicola.
51 B. Viola, ‘Reverse Television - Portraits of Viewers’, https://www.youtube.com/watch?v=4GrIN9m83zw [accessed 2 February 2014].
52 Gli spettatori scelti per i videoritratti sono ripresi nel loro salotto, ‘fotografati’, come nei ritratti più tradizionali, comodamente seduti di fronte alla telecamera/TV (la telecamera è posizionata all’altezza della televisione e gli spettatori ne guardano l’obiettivo come se questo fosse il monitor televisivo), in assoluto silenzio. Questi ritratti dovevano andare in onda ogni ora, durante la programmazione della pubblicità, col fine di disturbarla con un contenuto contrario, fatto appunto di immagini silenziose e composte (in realtà sono stati mandati in onda per due settimane, cinque volte al giorno). La TV quindi si svuota dell’usuale contenuto, facendo ritrovare lo spettatore con se stesso e, di conseguenza, orientandone la visione, al contrario.
53 B. Viola, La storia, dieci anni (di video), p. 56.
54 Bill Viola: Going forth by day, Guggenheim Museum, New York, 2002, p. 104. La traduzione è mia.
55 «Quand’ero direttore del Getty Research Institute for the History of Art and the Humanities di Los Angeles, avevo scelto come tema di ricerca per l'anno 1997-1998 Representing the Passions, convocando intorno a esso un gruppo di studiosi: Page Dubois, classicista di San Diego, Martha Feldman, studiosa dell'opera a Chicago, Diego Lanza, studioso della tragedia greca a Pavia, Reinhart Meyer-Kalkus del Wissenschaftskolleg di Berlino, studioso della ‘fisiognomica della voce’, Moshe Barash, studioso della gestualità a Gerusalemme. Inoltre, Maria Luisa Catoni organizzò un workshop sulla gestualità espressiva (vi parteciparono tra gli altri un esperto di teatro No e Kabuki, Thomas Hare; la più nota studiosa di danza indiana, Kapila Vatsyayan; Richard Strassberg, sinologo di Ucla). In questo contesto avevo invitato, tra tanti studiosi, un artista: Bill Viola. ll seminario del mercoledì […] prevedeva la presentazione, a turno, di un lavoro in corso su argomenti legati al tema centrale, seguita da una discussione spesso accesa, guidata da Michael Roth (allora mio Associate Director) e da me. A queste discussioni Bill Viola partecipò regolarmente, non solo presentando aspetti del proprio lavoro e stimolando la discussione con domande, curiosità, problematiche ‘da artista’, ma anche portandovi il contributo della sua lunga frequentazione con testi di altre culture, dall'India al Buddhismo, a scritti mistici di vario orizzonte (per esempio Sufi), di cui molto lo attraevano le affinità interculturali, in particolare coi mistici cristiani fra il tardo Medio Evo e il Barocco». S. Settis, ‘Bill Viola: i conti con l'arte’, in K. Perov (a cura di), Bill Viola, Visioni interiori, pp. 32-33.
56 R. Meyer, Representing the Passions. Histories, Bodies, Visions, Los Angeles, Getty Research Institute, 2003. Nello stesso anno Bill Viola ha esposto The Passions al Getty Center: cfr. J. Walsh (edited by), Bill Viola: The Passions, Los Angeles , The J. Paul Getty Museum, 2003.
57 Inaugurato, invece, da The Quintet Series, di cui a breve incontreremo il video The Quintet of the Astonished.
58 S. Settis, ‘Bill Viola: i conti con l'arte’, p. 22.
59 Si riporta la descrizione dell’opera esposta dalla viva voce di Viola: «Questo trittico è la prima opera da me realizzata che riprende la struttura dell’arte classica, in questo caso la pala d’altare medioevale, tipica della tradizione cristiana. Ho utilizzato immagini registrate da una telecamera fissa, che ho poi proiettato su tre schermi. Sulla sinistra, venivano proiettate le immagini di una graziosa comunità della California, con il sole che brillava e le autostrade, dove un flusso continuo di automobili si snodava come il corso di un fiume. Era un’immagine per molte persone indubbiamente piacevole. Ho poi compresso l’immagine elettronicamente così da distorcerla e da creare una sensazione soggettiva. Per l’immagine centrale ho registrato trenta minuti di riunione di un consiglio comunale, che stava discutendo su come spendere il denaro che aveva ricevuto per la manutenzione della città. L’ultima immagine, quella di destra, era la registrazione di un incendio che stava completamente distruggendo una fabbrica. In parole povere, queste immagini rappresentavano la struttura classica del paradiso, della terra e dell’inferno. Ciò che mi ha interessato di questa particolare struttura non è stato tanto il suo ruolo tradizionale nella storia dell’arte, bensì il suo ruolo tradizionale nella mente umana. Infatti, tutti noi, ma soprattutto quelli di tradizione europea, ce la portiamo dentro. Fa parte della nostra coscienza». B. Viola, San Paolo-Brasile, 27 Settembre 1992, pp. 101-103.
60 Cfr. nota 25.
61 In The City of Man Viola ne rispetta anche la «regola compositiva» con il «pannello centrale … più largo dei due laterali». S. Settis, ‘Bill Viola: i conti con l'arte’, p. 24.
62 La dimensione complessiva dello sviluppo orizzontale dei cinque schermi è cm 38,1 x 246,4 x 5,7. Cfr. K. Perov (a cura di), Bill Viola, Visioni interiori, p. 235. B. Viola, Catherine’s Room, London, Tate http://www.tate.org.uk/art/artworks/viola-catherines-room-ar00042 [accessed 2 February 2014].
63 Lo si ritrova ad esempio in Room for St. John of the Cross e, come vedremo, in Going Forth by Day (2002). È però particolarmente suggestivo anche nella parte finale del video Ancient of Days (1979).
64 B. Viola, Four Hands, London, Tate http://www.tate.org.uk/art/artworks/viola-four-hands-ar00043 [accessed 2 February 2014].
65 Esposte alla National Gallery di Londra, si tratta delle tavole di chirologia del medico inglese John Bulwer, sicuramente conosciute da Viola.
66 Esercizi yoga svolti con le dita delle mani.
67 Le dimensioni del doppio schermo sono cm 204,2 x 61 x 8,9. B. Viola, ‘Surrender’ (estratto), http://www.dailymotion.com/video/x1pgg6v_bill-viola-surrender_creation [accessed 2 February 2014].
68 Surrender, in J. Neutres, A. M. Duguet (a cura di), Bill Viola, p. 68.
69 Surrender, in K. Perov (a cura di), Bill Viola, Visioni interiori, p. 77.
70 «Ho utilizzato questa registrazione [dell’immagine della montagna, n.d.c.] senza alcuna modifica. Ho creato un laghetto sul pavimento, ho montato uno schermo appeso sull’acqua e dietro lo schermo un proiettore di quelli che usavano nel 1979. Invece di puntare il proiettore direttamente sullo schermo, l’ho piazzato in modo che si rispecchiasse dall’acqua sullo schermo. Per cui quando la superficie dell’acqua era completamente calma, l’immagine sullo schermo era normale, ma quando l’acqua si increspava, l’immagine risultava distorta. Inoltre, poiché il proiettore aveva lenti rosse, verdi e blu a strati diversi, l’angolo con cui colpivano l’acqua cambiava. Di conseguenza, quando l’acqua si increspava, l’immagine si trasformava in un astrattismo di colore. Con una speciale apparecchiatura, increspavo l’acqua più o meno ogni minuto. Secondo la mia idea originale, però, era il passaggio dei visitatori che avrebbe dovuto creare uno spostamento d’aria da increspare l’acqua, ma ciò in realtà non è successo perché lo spostamento d’aria si è rivelato insufficiente per smuovere l’acqua». B. Viola, San Paolo-Brasile, 27 Settembre 1992, pp. 77-78.
71 S. Settis, ‘Bill Viola: i conti con l'arte’, p. 18.
72 Ivi, p. 33.
73 B. Viola, ‘The Quintet of the Astonished’ (estratto), https://www.youtube.com/watch?v=As7OtWMYPRc [accessed 2 February 2014].
74 S. Settis, ‘Bill Viola: i conti con l'arte’, p. 34.
75 «Un flusso costante di persone avanza verso di noi. Ciascun soggetto si sofferma all’inizio della fila, sopraffatto dall’emozione, tenendo lo sguardo fisso su un oggetto ignoto, invisibile, appena al di sotto del bordo dell’inquadratura. Sulla scena aleggia un senso di solennità e dolore. A volte i singoli personaggi, passando, si toccano appena o si scambiano una rapida occhiata. Le coppie si confortano reciprocamente, in un lutto condiviso. Tutti sono accomunati dal desiderio di arrivare in testa alla fila per entrare in contatto con quel che vi si trova; una volta compiuto questo gesto solitario, tornano in fondo alla fila per far posto agli altri». K. Perov (a cura di), Bill Viola, Visioni interiori, p. 109.
76 B. Viola, ‘The Sleep of Reason’ (videoinstallazione),http://www.sfmoma.org/media/features/viola/BV03.html [accessed 2 February 2014].
77 B. Viola, ‘Ancient of Days’ (estratto), https://www.youtube.com/watch?v=Szc8dWQf3zc [accessed 2 February 2014].
78 B. Viola, San Paolo-Brasile, 27 Settembre 1992, p. 104.
79 R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 55; anche in V. Valentini, Bill Viola, pp. 133 - 134.
80 B. Viola, ‘Chott el-Djerid (A Portrait in Light and Heat)’ https://www.youtube.com/watch?v=bh-XDid9j7Q [accessed 2 February 2014].
81 Realizzate proprio per vedere le alterazioni ottiche provocate sia dalle alte che dalle basse temperature.
82 Si fa notare che anche stavolta il nome del posto è contenuto nel titolo.
83 Cm 92.5 x 155.5 x 12.7.
84 B. Viola, ‘Walking On The Edge’, (estratto) http://www.dailymotion.com/video/x1f0416_walking-the-edge-2012_shortfilms [accessed 2 February 2014].
85 B. Viola, ‘The Encounters’, (estratto) https://www.youtube.com/watch?v=r3OqnXzrJZo [accessed 2 February 2014].
86 Di pochi centimetri alla volta, in avanti o indietro.
87 Bill Viola in La GAM Presenta Bill Viola. Incontro con l'artista e presentazione dell'opera The Encounter, Torino, GAM http://www.gamtorino.it/mostra.php?id=405 [accessed 12 December 2013].
88 «Il titolo deriva dal Libro dei Morti dell’antico Egitto, e si riferisce al momento del trapasso in cui dal buio si passa nella luce. È incredibile osservare come l'idea della luce intesa come rivelazione sia presente indistintamente in tutte le tradizioni religiose». Bill Viola in C. Piccoli, ‘Visionari. Incontro con Bill Viola’, la Repubblica, 28 febbraio 2010, p. 54.
89 Esposta in anteprima al Guggenheim Museum di New York.
90 Cfr. Kira Perov in ‘L’art est un exercise spirituel, Conversation avec Bill Viola et Kira Perov par J. Neutres’, in J. Neutres, A. M. Duguet, Bill Viola, p. 38.
91 «Non lo abbiamo usato perché è l’ultima cosa uscita. Lo abbiamo usato perché era il giusto strumento per questo lavoro», spiega Harry Dawson in E. Wolff, ‘Digital Cathedral: Bill Viola Goes Forth with HD’, Millimeter.com, February 2002, p. 24. La traduzione è mia.
92 «I cosiddetti vecchi maestri non erano altro che giovani radicali. Masaccio, Michelangelo, Raffaello, erano artisti influenzati da nuove idee tecniche e scientifiche, provenienti da centri di ricerca e da università. Avevano tutti circa 20 anni quando hanno creato i primi grandi lavori. Il parallelo con l’epoca attuale delle videocamere digitali, della computer graphic, della videoarte e di internet, è indiscutibile. Una volta stabilita questa relazione, e cioè che tutta l’arte a quel tempo era avanguardia, si colgono solo connessioni e affinità, non fratture. Dopo tutto, c’è un unico filo che attraversa la scienza ottica, dalla prospettiva di Brunelleschi del XV secolo fino all’era digitale». Bill Viola in B. Di Marino, Bill Viola, p. 7.
93 Bill Viola in F. Arditi, ‘«Il più grande videoartista? Giotto»’, p. 29.
94 Bill Viola in C. Piccoli, Visionari, p. 54.
95 Cfr. R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 241; anche in V. Valentini (a cura di), Bill Viola: vedere con la mente, p. 86.
96 Ibidem.
97 Per restituire i circa undici metri di lunghezza per due di altezza delle immagini sono state utilizzate tre telecamere. Cfr. E. Wolff, ‘Digital Cathedral’, p. 26.
98 Il riferimento a Paolo Uccello è di Mark Kidel: si veda M. Kidel, ‘Earth wind and fire ... plus birth, death, floods and resurrection. Bill Viola's new work has got the lot’, The Guardian, 19 March 2002.
99 Per realizzarlo Viola si è servito di «più di 100 comparse, decine di stuntmen, e 96.000 litri di acqua». Cfr. E. Wolff, ‘Digital Cathedral’, p. 24. B. Viola, ‘The Deluge’ (estratto), https://www.youtube.com/watch?v=TTJy6NxvKx8 [accessed 2 February 2014].
100 The Raft, esposta recentemente in Italia a Palazzo Te, Mantova, dal 23 novembre 2013 al 20 febbraio 2014 u. s., ha tra i modelli di rifermento anche la Zattera della Medusa di Theodore Géricault.
101 E. Wolff, ‘Digital Cathedral’, p. 28.
102 Bill Viola: Going forth by day, New York, Guggenheim Museum, 2002, s.p.
103 E. Wolff, ‘Digital Cathedral’, p. 30. B. Viola, ‘First Light’ (estratto), http://www.dailymotion.com/video/x1pn9jw_bill-viola-going-forth-by-day-detail_creation [accessed 2 February 2014].
104 Enorme, ma purtroppo, a mio parere, non molto riuscito, è stato, ad esempio, il lavoro di post produzione per eliminare le tracce dell’imbracatura utilizzata per tirare su il corpo dell’attore dalla voragine artificiale costruita per la messa in scena. E. Wolff, ‘Digital Cathedral’, p. 28.
105 Bill Viola: Going forth by day, s.p.
106 Cfr. A. Di Brino, ‘Bill Viola, Buried Secrets: un'estetica video tra Occidente e Oriente’, in S. Cargioli, Le arti del video. Sguardi d'autore fra pittura, fotografa, cinema, musica e nuove tecnologie, Pisa, ETS, 2004, p. 105.
107 B. Viola, ‘Fire Woman’ (estratto), https://www.youtube.com/watch?v=y0SlwUozc9o [accessed 2 February 2014].
108 B. Viola, ‘Tristan’s Ascension (The Sound of a Mountain Under a Waterfall)’ (estratto), http://www.dailymotion.com/video/x1cr6y5_bill-viola-au-grand-palais-tristan-s-ascension-teaser_creation [accessed 2 February 2014].
109 B. Viola, Man Searching for Immortality / Woman Searching for Eternity, London, Blainsouthern http://www.blainsouthern.com/exhibitions/2013/bill-viola-frustrated-actions-and-futile-gestures/images?id=0.01-exhibition-installation-image [accessed 2 February 2014].
110 B. Viola, ‘Three Women’ (estratto), http://www.dailymotion.com/video/x1pec5c_bill-viola-three-women-extrait_creation [accessed 2 February 2014].
111 B. Viola, The Transfigurations Series, pubblicato per la prima volta in K. Perov (a cura di), Bill Viola: Transfigurations, Seoul, Kukje Gallery, 2008. La traduzione è mia.
112 «Three Women è stata realizzata con due telecamere: una camera di sorveglianza degli anni Ottanta e una ad alta definizione. Le immagini delle due telecamere sono state allineate in fase di ripresa da un sistema di specchi, che ha permesso la registrazione in contemporanea dei due mezzi. Soltanto in questo modo le due immagini hanno potuto essere sovrapposte in fase di montaggio». Cfr. K. Perov, ‘L’art est un exercise spirituel. Conversation avec Bill Viola et Kira Perov par Jérôme Neutres’, in J. Neutres, A. M. Duguet, Bill Viola, p. 35.
113 Le tre grazie sono state quasi sempre raffigurate come giovani danzatrici.
114 Kira Perov in L’art est un exercice spirituel, Conversation avec Bill Viola et Kira Perov par Jérôme Neutres, in J. Neutres, A. M. Duguet, Bill Viola, p. 26 (la traduzione è mia).
115 Viola racconta che stava lavorando a un altro progetto e filmava le riprese durante la notte, in una piscina pubblica. In sala di montaggio, mentre stava controllando il materiale registrato, vede uscire una figura dall’acqua, invece di vederla cadere dentro. «Ascension è una parte del video mandata al contrario». Ivi, p. 36. B. Viola, ‘Ascension’ (estratto), http://www.dailymotion.com/video/x1cr7qr_bill-viola-au-grand-palais-ascension-teaser_creation [accessed 2 February 2014].
116«Sono come un corpo sott’acqua che respira. Che respira attraverso una piccola apertura. Finalmente mi posso lasciare andare. [...] Mi sento immerso. Immerso nel buio. [...] Immerso nel vuoto». J. C. Ammann, ‘Violence and Beauty’, in R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 18. La traduzione è mia.
117 «La forza che si sprigiona da tutta l'opera di Viola e dalle videoinstallazioni in particolare» scrive Sandra Lischi «sta oltre (o meglio: assieme) ai temi che l'autore incessantemente tratta ed esplora, nell'estrema attenzione ai modi della rappresentazione e alla condizione sensoriale dello spettatore/visitatore. Il quale, ben prima e ben al di qua dei procedimenti interattivi tecnologicamente intesi, viene tirato dentro l'opera, avvolto, acquietato o scosso, commosso, implicato da una sapiente e sensibile mescolanza di immagini e suoni che è all'altezza della solennità dei temi trattati. E questo avviene grazie anche all’architettura sensoriale dell’opera, al suo disporsi nello spazio: qui una stanza sgombra e scura, di cui sono indicati con estremo rigore, oltre alle necessità tecniche e alle dimensioni, la preparazione e il colore delle pareti, le qualità e la grana delle superfici, l’isolamento acustico accanto a quello visivo. Tutto è congegnato in modo da far entrare gli spettatori in uno spazio “altro”, ad accompagnarli nel profondo, che in quest’opera è poi coincidente – letteralmente e metaforicamente – con l’acqua e con il transito di una figura umana dentro uno schermo che diventa liquido e vibrante». S. Lischi, ‘Bill Viola Ascension’, in A. Caronia (a cura di), Fra arte e tecnologia. L’immagine infinita. Schermi, visioni, azioni, Catalogo della mostra milanese Techne 05, Milano, Edizioni Revolver, 2005, p. 19.
118 Ibidem.
119 B. Viola, ‘The Dreamers’ (estratto), http://www.dailymotion.com/video/x1pfgdq_bill-viola-the-dreamers-extrait_creation [accessed 2 February 2014].
120 Contenuta in sette bidoni di latta, simili a quelli del trasporto di materiale infiammabile, riempiti fino all’orlo, in The Sleepers l’acqua ricopre sette monitor in bianco e nero, in cui scorrono le immagini registrate e non alterate in alcun modo di primi piani di persone addormentate.
121 Bill Viola in ‘L’art est un exercise spirituel, Conversation avec Bill Viola et Kira Perov par Jérôme Neutres’, in J. Neutres, A. M. Duguet, Bill Viola, p. 25.
122 E lo ha fatto quasi quanto un episodio della sua infanzia che lo ha segnato e che ama spesso raccontare oltre che ripercorrere nei suoi lavori. «Sono sopraffatto dall’emozione di poter donare l’opera alla città la cui bellezza m’ha cambiato la vita. Selfporteit Submerged deve molto a un episodio della mia infanzia: a sei anni mi buttai in un lago e fui così incantato dalla bellezza di ciò che vidi sotto, che solo dopo che mio zio mi salvò mi potei spaventare da morire. Da allora l’acqua è centrale nel mio mondo. È la vita ma può anche distruggerla, mi aiuta a dire: “vai oltre la superficie delle cose, punta alla loro anima”». Bill Viola in P. Russo, ‘Viola, tour italiano tra acqua e deserto’, la Repubblica, 22 dicembre 2013, p. 51.
123 «Qui a Firenze ho imparato cose molto importanti, intanto che i libri d’arte non possono neanche minimamente rappresentare le emozioni profonde raffigurate dalle grandi opere d’arte prodotte nei secoli. Inoltre mi ha dato un posto tra passato e presente in cui ho capito che tutta l’arte è contemporanea. È senza tempo, universale ed eterna». Bill Viola in M. De Leonardis, Ritratto nell’acqua, p. 7.
124 Cfr. nota 75.
125 Bill Viola in B. Di Marino, Bill Viola, p. 7.
126 In parte incontrato nell’ultimo lavoro di Fargier Bill Viola, expérience de l’infini, citato. Cfr. nota 11.