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L’interesse dell’autrice per la questione al centro del volume, le interconnessioni fra scrittura e, alla lettera, scrittura della luce, si è consolidato nel tempo: procede quantomeno dalla partecipazione a un progetto di ricerca sulla letteratura e le arti, confluito nella curatela, in collaborazione, di Guardare oltre (2008), per prendere le forme più distese e organiche di Il nulla, quasi, del 2010.[1] In quest’ultima opera (recensita da chi scrive nel fascicolo 9-10 dei «Fogli di Anglistica», del 2011), focalizzata su un sottotema vincolante e nondimeno molto diffuso nella narrativa contemporanea, quello delle foto e degli album di famiglia, spiccava la capacità di rendere conto della fotografia amatoriale, o domestica, come frammento memoriale; traccia documentaria, sì, ma anche, nel suo carattere necessariamente precario e incompleto, indice perturbante di lettura, e finanche mezzo per demistificare, all’interno del racconto, «il costrutto ideologico sotteso all’organizzazione dell’album familiare, l’idealizzazione dell’unità della famiglia e la sua trasformazione in un desiderabile prodotto sociale»: così l’autrice nella ripresa recente del tema, nel volume qui scrutinato (p. 54).

Questo per individuare un plausibile cuore pulsante del libro, la consapevolezza del grado di intimità al quale, in maniera efficace, il trattamento tematico della fotografia riesce a pervenire. In altri luoghi del libro (anticipo qui i contenuti del terzo capitolo, per molti aspetti legato al secondo, da cui abbiamo preso le mosse), come nell’analisi dell’opera di Geoff Dyer, l’autrice snida costanti patemiche, effetti rappresentativi cui dà vita la tecnica narrativa, quasi incorporando angolo prospettico e profondità di visuale propri dell’atto fotografico, restituendo così il senso dell’inquadratura e della ‘cesura’, mediante una modalità di «re-inquadra[re] il reale» che lo ammanta di «sfumature di nostalgia, distanziandolo dal presente per fissarlo nell’atemporalità dello scatto» (p. 88). Lungi dall’impilare analisi singolative incapaci di comporsi in una visione d’assieme del contemporaneo, Albertazzi verifica e attiva consonanze: e allora, sempre in questo nucleo composto da scritture dall’intensa riflessione memoriale sul sé, agiscono i nomi di Anita Brookner e Annie Ernaux, quest’ultima convocata anche in un altro punto del testo, ancora nell’ambito del vernacolare-amatoriale, ovvero là dove la scrittrice, nella lucida e implacabile operazione autofinzionale di evocazione e reintegro dei tratti per il Posto delle sue origini, della sua prima vita familiare, mette esemplarmente in opera il ruolo primario svolto dalle fotografie nella letteratura autobiografica: «non certo restituire ciò che tempo e distanza hanno cancellato, quanto attestare che qualcuno – qualcosa – è esistito, è stato e ancora si riverbera nel presente» (pp. 53-54).

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Ospitata al Grand Palais di Parigi, il 21 luglio 2014 si è conclusa quella che, a detta di molti, può essere considerata la più imponente esposizione dedicata finora a Bill Viola. Il saggio parte da lì e coglie l’occasione parigina per fare il punto su uno dei più importanti artisti contemporanei, nel tentativo di mostrarne il lavoro al di là del momento e delle tendenze. Come in genere accade per le grandi mostre, anche nel caso di Bill Viola – mostra dal titolo omonimo - tantissime sono state le recensioni della stampa internazionale. Di fronte a questa marea di pagine, alcune delle quali tese a mettere in evidenza, come sempre capita nei confronti di questo artista, l'aspetto ritenuto new age, orientale, spirituale, mistico e via di seguito, chi ne scrive ha sentito il bisogno di un approfondimento. Pur partendo dall’esposizione, il testo prende in esame tutta una serie di aspetti generalmente meno studiati e lo fa con un richiamo anche a opere non contemplate per la mostra. Muovendo da un’analisi dei singoli lavori, il saggio tenta, quindi, di mostrare la poetica di Bill Viola, sconfinando nei vari retroterra culturali che ne hanno permesso la maturazione.

Hosted at the Grand Palais (Paris) for four months, ended on July 21st 2014 what may be considered the most impressive exhibition ever dedicated to the art of Bill Viola. This essay starts from there, to take stock of one of the most important contemporary artists, in an attempt of showing his work beyond the time of the exhibition and the trends. The reason is quickly told. As, generally, occurs in case of major exhibitions - and so it also was for the Paris exhibition dedicated to Bill Viola - the reviews of the international press have been many. Faced with this flood of pages, some of which aimed to highlight, as always happens with Viola, the aspect considered new age, eastern, spiritual, mystical, and so on, it became necessary a deepening which, while taking its cue from the exhibition, takes into consideration a number of aspects generally less developed. Starting from an analysis of his works – not only the exhibited ones – the attempt is to show the poetics of Bill Viola, trespassing in the various cultural backgrounds that have allowed its growth.

 

Per molti artisti della generazione di Viola (New York, 1951), la tecnologia elettronica ha rappresentato una rivoluzionaria possibilità per lavorare con le immagini in movimento. Un’occasione straordinaria rispetto all’offerta data fino a quel momento dalla pellicola, materiale costoso e con una natura comunque statica. Con i suoi molteplici vantaggi – dovuti sia alla simultaneità e duttilità del segnale, che al supporto magnetico – la tecnologia elettronica ha aperto nuovi orizzonti di ricerca e conoscenza, con ripercussioni sorprendenti sulle dinamiche dello sguardo.

L’arte di Viola è parte di questo scenario, ma se ne è anche distinta, diventando un unicum nel contesto della sempre più numerosa famiglia videoartistica internazionale.

L’intero lavoro dell’artista statunitense, uomo colto e attento osservatore della propria epoca, ha tra gli elementi portanti una profonda e aggiornata conoscenza della tecnologia. Il suo utilizzo concorre a declinare una struttura, una forma e gli esiti estetici di una visione che in Viola assume i tratti di una pratica contemplativa. Contravvenendo agli schemi comunicativi dominanti, la visione di Viola è, infatti, innanzitutto un’«idea» al servizio della conoscenza. Per essere alimentata ha bisogno di scorrere lungo le linee del tempo, dello spazio e del sapere che, nelle varie indagini estetiche condotte dall’artista nell’arco della sua carriera, appaiono dilatati, potenziati e infranti nei rispettivi limiti. Inoltre, per essere condivisa, l’idea, o visione, necessita anche di essere tradotta in una forma adeguata, chiaramente accessibile e percepibile dallo spettatore.

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