Una triangolazione ‘informale’: Morlotti, Testori, Arcangeli

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Il saggio ricostruisce i rapporti di collaborazione e intenso confronto tra Ennio Morlotti, Giovanni Testori e Francesco Arcangeli nei primi anni del secondo dopoguerra, quando la pittura informale comincia a farsi spazio anche in Italia. L’analisi dell’esperienza artistica di Morlotti attraverso le interpretazioni critiche di Arcangeli e Testori risulta fondamentale per delineare il dibattito tra realismo e astrattismo sulla possibilità di rappresentazione della figura umana che sfocia – passando attraverso la scomposizione cubista di Picasso e le dense pennellate di Cézanne – nell’ampia gamma dell’arte informel italiana. In particolare i due critici d’arte hanno sostenuto, in prospettive diverse, la validità della corrente del ‘naturalismo informale’, caratterizzata da un rinnovato rapporto con la natura a partire da una matrice ‘romantica’ e sentimentale. I loro studi sull’opera di Morlotti e degli «ultimi naturalisti» forniscono un punto di partenza fondamentale per analizzare gli sviluppi dell’estetica informel sia in campo artistico che letterario. Si possono rintracciare notevoli corrispondenze tra le figure ‘informali’ dipinte da Morlotti negli anni ‘50 e i corpi dei personaggi descritti da Testori nel ciclo I segreti di Milano (1954-1962). Tali rapporti sono avvalorati anche dalla triangolazione della corrispondenza tra il critico d’arte bolognese e i due autori lombardi, conservata nell'archivio Arcangeli presso la Biblioteca comunale dell'Archiginnasio di Bologna.

This paper reconstructs the relations of collaboration and intense discussion between Ennio Morlotti, Giovanni Testori and Francesco Arcangeli in the early years after World War II, when the informal art start to be prominently in the cultural dibate in Italy. The analysis of Morlotti’s artistic experience throught the critical interpretation of Arcangeli and Testori is essential  to outline the dialectic between Realism and Abstract art, about the possibility of representation of human figure which leads - passing throught deconstruction of Picasso's works and Cézanneìs firm brush strokes – to the wide range of italian informal art. In particular, both of the art critics have supported, in different perspectives, the validity of the trend named ‘informal naturalism’, characterized by a renewed relationship with Nature, starting from a ‘romantic’ and sentimental origin. Their studies on works of Morlotti and «last naturalists» provide an essential starting point for analyzing the developments of informal aesthetic in arts and literature. It is possible to trace significant corrispondences between the "informal" figures painted by Morlotti in the 50s and the characteristics of the bodies described by Testori in I segreti di Milano (1954-1962). These relations are corroborated by the ‘triangulation’ of the corrispondence between the art critic from Bologna and the two authors from Lombardia, preserved in the Arcangeli archive inside the  Archiginnasio Library in Bologna.

Nelle drammatiche fasi che seguono la fine del secondo conflitto mondiale, entrano in profonda crisi sia la possibilità di narrare quegli eventi sia la possibilità di rappresentare la figura umana in un contesto disintegrato. Da questa evidenza prende avvio il dibattito tra astrattismo e realismo, a partire dalle diverse interpretazioni del capolavoro antimilitarista Guernica (1937), in cui Picasso riuscì ad unire l’elemento astratto della scomposizione cubista dei piani d'osservazione e il crudo realismo della distruzione dei bombardamenti.

Nel 1948, durante la XXIV Biennale di Venezia (la prima del dopoguerra), Francesco Arcangeli, curatore della mostra sui pittori metafisici italiani (Carrà, Morandi, De Chirico), in polemica con le tesi di Mario De Michieli esposte in Realismo e poesia (1946)[1] delinea con precisione il nodo del dibattito artistico:

Secondo De Michieli il più grande esemplare di arte realistica è Guernica di Picasso, 1937; in un’opera di quel genere le emozioni, i sogni, le evasioni, i simboli del secolo romantico, propagginatosi fino alle ultime correnti espressionistiche, surrealistiche e astrattistiche, sono rifiutati apertamente; ma d’altra parte il realista Picasso non descrive naturalisticamente gli uomini e le cose, ma ne dà, in chiara e spietata sintesi, gli emblemi; il mondo visibile non è descritto analiticamente, ma concentrato, scarnito, sintetizzato attraverso la più rigorosa semplificazione formale e coloristica. In questa spietata chiarezza stilistica, da cui nascerebbe una specie di forza d'urto visiva, consisterebbe poi il valore “eroico” di quella pittura, espressiva della nuova realtà comunista.[2]

Picasso si colloca sul crinale tra due diversi modi di rappresentare le macerie di un mondo che non c’è più. Si nota qui una esplicita polemica sia nei confronti del Fronte Nuovo delle Arti, di cui faceva parte Guttuso, sia del Manifesto Realista Oltre Guernica (1946), sottoscritto da Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Morlotti Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova, le cui linee guida erano:

1) Dipingere e scolpire è per noi atto di partecipazione alla totale realtà degli uomini, in un luogo e in un tempo determinato realtà che è contemporanea e che nel suo susseguirsi è storia.
2) La realtà esiste obiettivamente; di essa fa parte anche l’uomo.
3) In arte, la realtà non è il reale, non è la visibilità, ma la cosciente emozione del reale divenuta organismo. Mediante questo processo l'opera d'arte acquista la necessaria autonomia. Realismo non vuol dire, quindi, naturalismo, o verismo o espressionismo, ma il reale concretizzato dell'uno, quando determina, partecipa, coincide ed equivale con il reale degli altri, quando diventa, insomma, misura comune rispetto alla realtà stessa.[3]

In base ai principi del manifesto, firmato anche da Morlotti, la pittura realista si propone come atto politico in opposizione all’astrattismo, in quanto assenza di impegno sociale e di presa sulla realtà. In questa prospettiva estetica vengono presi a modello sia Picasso che Cézanne, per la loro capacità di scomposizione e ricomposizione della realtà attraverso la «cosciente emozione del reale», rifiutando nettamente le tradizionali categorie di naturalismo, verismo ed espressionismo.

Per i pittori astrattisti, invece, Picasso e Cézanne erano considerati i capisaldi della rappresentazione di una realtà non mimetica, in cui la materia pittorica e la mano dell'artista (quindi la sua sfera psicologica ed esperienziale) potessero conquistare una propria autonomia creativa rispetto al dato reale, come accade nelle plurime ramificazioni della pittura “informale” francese e americana.

In questo contesto, però, cerca di farsi spazio anche un nuovo “naturalismo”, attraverso la rilettura degli Impressionisti (in mostra alla Biennale proprio nel 1948), tentando di riannodare le fila di un percorso, lungo la tradizione romantica e la successiva rielaborazione post-impressionista, che non poteva essersi interrotto con la seconda guerra: dunque, una volontà di ripartire non dalla tabula rasa di Guernica ma dalla pennellata di Cézanne, in quanto rappresentazione organica della natura. Per queste ragioni si possono individuare negli anni ’50 – seguendo lo schema tracciato da Tristan Sauvage – almeno tre tipi di cosiddetto ‘neo-naturalismo’, che nascono da riflessioni comuni ma differiscono per un diverso bilanciamento del rapporto tra uomo e natura: il naturalismo ‘romantico’ di Morlotti; il naturalismo storico, ovvero ‘di partecipazione’, di Testori; il naturalismo ‘sentimentale’ di Arcangeli e di Moreni-Mandelli (Sauvage lo descrive come ‘disorientato’ e ‘passivo’).[4]

Ennio Morlotti, Paesaggio, 1946

Il naturalismo di Morlotti unisce l’estetica romantica all’inconscio freudiano, fondandosi su una forte corrispondenza tra l’io dell'autore e la realtà circostante; quello di Testori è legato al contesto storico-sociale, dando vita ad una rappresentazione non edulcorata della difficile realtà quotidiana nelle periferie milanesi alle soglie del boom economico; mentre per Arcangeli il soggetto è disorientato dalla propria esperienza sentimentale di una natura che non si riesce a cogliere mai fino in fondo.

L’esperienza artistica di Ennio Morlotti si sviluppa attraverso la complessa interpolazione tra nuovo naturalismo e l’eredità – il ‘tramando’ per usare un termine caro ad Arcangeli – degli impressionisti e dei post-impressionisti, legame che hanno tentato di delineare con acume e perizia sia Arcangeli che Testori pur giungendo a posizioni differenti. Infatti, Morlotti cambia il proprio modo di dipingere in quella fase delicata che va dalla fine della guerra, quando non sembrava più possibile continuare a ritrarre la figura umana, all’inizio degli anni ’50, quando la scena era dominata dall’astrattismo antifigurativo (come in Vedova) e dal realismo di forte impronta ideologica (come in Guttuso). La formazione artistica di Morlotti può essere delineata attraverso le riflessioni dei due critici d’arte, i quali a partire dagli anni ’50 – sotto il magistero di Roberto Longhi – si confrontano assiduamente trovando nelle sue opere il rispecchiamento delle loro teorie sull’arte. In una lettera di Arcangeli a Morlotti del 29 agosto ’54 si coglie proprio questa triangolazione tra i due critici e il pittore, in un assiduo confronto tra amici che si spronano a vicenda alla ricerca di nuovi principi estetici:

Parlando di cose serie, mi dice Gianni [Testori] che “quantunque amareggiato” (che è? se ti fa bene scrivermi, sfogarti, fallo – te ne prego) hai fatto “un paio di paesaggi fortissimi” e ora hai cominciato tele “con delle piante di grano-turco” che gli paiono un “forte balzo in avanti”. Se potessi vederle! Ne ho, più che curiosità. Interesse profondo. Se Gianni non ha prenotazioni, anche una foto, su quello scritto che sai? Mi piacerebbe vedervi, e prima di tutto vedere te. Io sono, a pensarci bene, un naturalista scartino; siete voi che dovete riuscire. Io sono un naturalista-dottore: sono come i Carracci in confronto a Caravaggio. Mezzo naturalista, e mezzo no; metà-fisico e metà non-fisico; un pasticcio insomma. Ma forse, proprio per quella metà-dottore, per quella metà che ho di non simile a voi, posso aiutarvi con delle chiacchiere.[5]

Le opere di Morlotti, però, vengono presentate per la prima volta al pubblico da Testori per la mostra alla Saletta di Modena nel 1952 (uscita poi come Appunti su Morlotti in Paragone, n. 33, 1952); il giovane critico d’arte delinea un percorso che va dagli esordi post-cubisti, caratterizzati da un particolare interesse per i paesaggi di Cézanne, alla maturità artistica in cui affronta il rapporto dialettico tra figura umana e paesaggio disarticolato: «Lo sprone forte (il sussulto) la poesia lo riceveva da quella catena di paesaggi […] e lo scrollo dialettico, lo riceveva, invece, dalle Figure. Una dialettica che si concatenava, appassionata e fulgente, sui più diretti fatti della cultura».[6]

Dopo un periodo totalmente dedicato alla rappresentazione del paesaggio che dal magistero di Cézanne scivola verso un informale materico caratterizzato da pennellate dense, si giunge al momento dialettico della pittura di Morlotti attraverso l’inserimento della figura umana in rapporto/contrasto con la natura. Analizzando alcune ‘figure’ di Morlotti (come la Figura con colomba, 1946), Testori sottolinea la tensione ‘organica’ che scompone i corpi ma non li strappa al paesaggio, anzi ne sottolinea la compenetrazione:

Quella tal necessità di trarre dall’organismo un organico, un totem, s’innervava in una più palpitante compromissione con il reale storico […]. Ciò che interessa è soprattutto la passione rivolta alla consistenza, alla carne della figura […] una sorta di furore belluino annoda le parti del corpo: lo slogamento delle spalle, il ribaltamento del ventre marchiano feroci lo spazio: lo prosciugano.[7]

Dunque Morlotti è consapevole di non poter rappresentare realisticamente i corpi, ma anche di dover provare a rappresentare la consistenza delle figure inserendole in continuità con la natura, senza eludere la violenza del corpo a corpo con il paesaggio. Il punto di partenza è sempre Picasso – scrive ancora Testori:

In Picasso, Morlotti vide proprio la capacità di esprimere una favola, un’immagine, anche se deformata, satirizzata, dal portentoso fenomenalismo dello spagnolo: la capacità, vide, di realizzare una figura, risalendo dai contenuti violenti della natura e usando, naturalmente di quei mezzi che la storia figurativa s’era creati, tra primo e secondo cubismo.[8]

Ma – continua lo scrittore lombardo – in Morlotti si ha «più forza carnale e vitale della materia e tortura più misteriosa delle sua figure»,[9] caratteristiche che lo differenziano dagli stilemi picassiani. A partire da questo scarto, Testori sente la necessità di riconsiderare la sua posizione anche nei confronti di Guttuso, delineando le differenze che intercorrono tra i due, anche se entrambi hanno esordito nel medesimo ambito realista. Infatti definisce da un lato la pittura di Guttuso come «illustrazione della realtà»; dall’altro quella di Morlotti come «espressione della realtà».

Ennio Morlotti, Figura femmnile, 1951

Pochi anni dopo, Morlotti viene inserito da Arcangeli tra i nuovi pittori ‘astratto-concreti’ (Romiti, Vacchi, Mandelli), per la sua «interrata potenza», all’interno del fondamentale saggio Gli ultimi naturalisti, pubblicato su Paragone (n. 59, novembre 1954), nel quale viene delineata per la prima volta la concatenazione di ‘tramandi’ che conduce dagli impressionisti ai neo-naturalisti passando per il magistero internazionale di Cézanne e per quello ‘padano’ di Morandi. Questi pittori hanno in comune «il senso del “due”», ovvero «la religione della natura, Dio incomprensibile, mistero da patire ogni giorno, da riamare eternamente, nelle apparenze e nella sostanza»,[10] poiché le loro opere rivelano l’aporia del nostro essere al mondo, una scissione incolmabile tra soggetto e natura. In questo senso Arcangeli li ha potuti definire come ‘ultimi naturalisti’, per i quali conta innanzitutto l’aspetto sensibile dello sguardo tradotto dalla rappresentazione artistica: «un rapporto rapido e tremante, poderoso e oscuro; e non è possibile, dunque, che il riposo e la cronaca di vita che sorressero gli entusiasmi pur così trepidi e veloci degli impressionisti tornino in questo lavoro recente, dove la natura è profondamente e amorosamente angosciata, e quasi medianicamente intuita».[11] Si delinea per la prima volta il concetto di naturalismo ‘sentimentale’, fondato sulla percezione discorde del dato sensibile, che prosegue una tradizione figurativa ma antirealistica post-impressionista, giungendo fin quasi all’arte informale, già affermatasi in ambito francese e anglo-americano ma non ancora presente in Italia.

L’opinione di Arcangeli in merito alle figure di Morlotti si era già delineata qualche mese prima, come si evince da una lettera scritta dal critico bolognese all’amico il 17 luglio ‘54:

Anche se pochi lo hanno capito, mi è parso che quelle tue figure fossero un modo di toccare terra, o ritoccare terra, per te, anche più definitivo e certo, per la tua natura, di quello degli ultimi due anni. È difficile che la gente lo veda, perché rispondono a un atto in cui la sensualità si fa così carica, che sembra accecare l’atto spirituale che vi sta dentro. È come se tu avessi brancolato, delirando fittamente ciecamente, per ritrovare il tuo stampo, la tua matrice.[12]

Arcangeli coglie il passo in avanti che Morlotti realizza in quelle figure, distaccandosi finalmente dall’impronta cubista per aprirsi a quel ‘naturalismo di partecipazione’ – secondo la definizione di Testori –, che lo conduce ad un rapporto simbiotico sulla tela tra sensualità e spiritualità.

Se fin qui i rapporti tra Arcangeli e Testori sono ottimi e i due collaborano a stretto contatto (nel 1954 Testori aveva inviato una copia con dedica del Dio di Roserio), dal 1956 i rapporti si fanno più tesi a cause delle pagine che Testori scrisse per Morlotti nel catalogo della Biennale e soprattutto dopo il saggio Natura e realtà, pubblicato sul numero 58 di Paragone nel 1957. Ne abbiamo notizia da una lettera di Morlotti ad Arcangeli (22 settembre 1956), nella quale emerge come l’equilibrio dialettico tra i tre cominci a cedere:

Ho avuto una discussione un po’ concitata col Gianni (m’ha letto tre pagine molto chiare dalla “realtà e natura”), perché gli ho detto che la sua interpretazione “realismo-naturalismo” era a mio parere troppo parziale e non abbastanza attuale, presente, attiva. Mi sembra che dimentichi la parte più viva, quella dell'homme revolté, dell'angoscia, dell'inquietudine, che è l’assenza dell’essere attuale. Ma è bene che non si sia tutti uguali e che ognuno si serva di ciò che gli serve.[13]

I rapporti si deteriorarono ulteriormente nel 1958 a causa della presentazione scritta da Testori per la mostra di Milano Morlotti, Guttuso, in cui con toni veementi e vivaci lo scrittore milanese illustra i profili dei due artisti per dimostrare che si tratta delle due prospettive più divergenti e originali della seconda metà degli anni ’50. Il testo ruota attorno ad una domanda provocatoria: «Chi ha tirato il carro?», ovvero chi sta davvero sperimentando nuove possibilità espressive in Italia. Testori paragona i due pittori a due animali da tiro di indole differente: Guttuso è «cavallo selvatico, inviperito e nitrente giù, per le piane assolate e maledette della Sicilia»; mentre Morlotti è «bue che si trascina con passo lento e solenne il suo carro pieno di fieno per le strade della Brianza». Entrambi, però, possiedono un maggiore attaccamento all’umano rispetto agli altri artisti contemporanei, che può essere sintetizzato come un ‘di più d’umano’: «Quel di più d’umano coinvolge, è certo, un di più d’attaccamento e, talvolta, d’affondamento nella tradizione; e non intendo qui parlare tanto di tradizione formale, quando di tradizione totalmente e semplicemente umana».[14]

La sfacciata metafora e l’eccessivo lessico ‘espressionista’ turbano Arcangeli, si sente tradito dall’amico-rivale con cui aveva intrattenuto da sempre discussioni accese ma dall’alto valore intellettuale. Ad ogni modo Arcangeli risponderà pubblicamente solo nel 1962 tramite la monografia su Morlotti, nella quale fa il punto del lungo e laborioso percorso che ha portato il pittore verso una poetica vicina all’informel francese, ma continua anche ad affondare le radici nella tradizione impressionista e cézanniana, tenendo conto della carica emotiva della materia e del segno:

L’opera di Morlotti, e i suoi simboli vegetali, è immersa nel flusso storico; soltanto, accanita sulla propria solitudine, essa non ne accetta la velocità e l'esplicita programmatica indagine. Non ambisce di collocarsi sulla cresta appariscente del flutto che sembra rifiutare, ma lavora, talvolta opaca, più spesso viva e profonda, entro la massa d'acqua lentamente agitata da cui nasce il moto ondoso.[15]

Risulta evidente una critica al protagonismo artistico e ideologico di Guttuso, che – a differenza di Morlotti – cavalca la cresta dell’onda ostentando la propria immersione nel flusso contingente della storia. Arcangeli, comunque, riconosce a Testori di essere stato il primo ad aver colto il senso dell'operazione di Morlotti sulla ‘materia’, considerandola non in senso metafisico ma legata al procedere della storia. Questo lungo percorso di interazione con l’evidenza della materia lo ha portato a superare e distanziarsi dal magistero di Guernica, non rimanendo legato al mito di Picasso, a quel ‘principio corale’ con cui si sono identificati molti pittori ‘realisti’, senza riuscire poi a sviluppare poetiche nuove e autonome.

Arcangeli ricorda che nel ’54 Morlotti espose alla Biennale alcune figure, nudi di donna, che segnano la svolta della sua ricerca artistica (quadri che l’artista distrusse e di cui ci restano solo pessime fotografie), perché mostrano la sua concezione di ‘informel padano’, legato alla materialità di una terra in cui affonda le radici (che è poi la Brianza di Testori). Si tratta di figure magmatiche che si dissolvono nella vischiosità della materia:

Sulla tela gonfia di materia come il letto d’un fiume da cui si sia appena ritirata una piena e dove, defluite le acque, affiora la melma; lavorava violento, perduto, quasi accecato, di spatola e d’accumulo, senza sosta e senza lume, diceva, per capire dover fermarsi. Ma non è facile, quando si lavora a fondamenta autentiche, per un’impresa che non è prestabilita, ma il cui destino si intuisce essenziale, capire quale è il punto di conclusione della fatica.[16]

La divergenza tra le due analisi risiede nella diversa valutazione dell’energia che muove la mano di Morlotti. Infatti anche per Arcangeli si tratta di un’energia di rivolta ma non contro la materia, bensì per acquisire un nuovo rapporto simbiotico con la natura:

Il suo “informel” era affondato nel naturale, in lento, faticoso avvio per una sostanziale crescita. Ma non poteva esser la crescita di figure intere, paesaggi reali, cose schematicamente visibili, come l’inerzia del nostro pensiero critico avrebbe preteso; […] la materia non era più lo spessore contro cui si lotta con oscure violenze, con tenebrosi trasalimenti, ma su cui si ricade immobili alfine; voleva essere, qui, la placenta dal cui accumulo mille cose sarebbero insorte; secondo un’idea lentamente dinamica, si ripete, dell’arte e della vita.[17]

 

Ennio Morlotti, Le Tre Grazie, 1955

La figura non si contrappone alla materia ma nasce da essa, come da una ‘placenta’ ctonia, trasformandosi lentamente da elemento indistinto e informe a forma compiuta in costante simbiosi con il paesaggio che la contiene. Arcangeli e Testori concordano su un aspetto peculiare: la pittura di Morlotti più che ‘informale’ è ‘organica’, perché non vuole astrarre la materia in opposizione a strutture preesistenti ma agire con la dialettica interna alla materia stessa, da cui si distinguono a fatica il paesaggio e le figure, una ‘antiastrazione’ intrinseca alla vita, organica, e non estrinseca, astratta dalla vita. Commentando un dipinto del 1954 dal titolo emblematico di Natura, Arcangeli afferma che «è un emozionante pullulare, un insorgere denso ma non soffocato di cose: è un quadro non formale, “organico”, veramente un’“opera aperta”».[18]

Arcangeli coniuga le recenti – al tempo – teorie di Umberto Eco sull’opera aperta con un nuovo naturalismo informel, delineando una poetica dell’antiastrazione che non rifugge la storia e la vita ma anzi opera proprio con la materia viva dei mutamenti storici ed esperienziali. Come ha scritto Graham Sutherland in una breve nota, contenuta in un libriccino monografico su Morlotti del 1968: «Nel nuovo ordinato tumulto di pennellate c’è l’essenza dell’antico tumulto della natura, e la mia possibilità di capire la natura stessa è esaltata e resa più significante ed esplicita».[19] L’artista inglese – su cui Arcangeli stava scrivendo una monografia poco prima di morire – individua l’aspetto decisivo della ‘materia’ all’interno dei quadri di Morlotti, ovvero la possibilità di cogliere qualcosa di ulteriore nella natura attraverso un «nuovo ordinato tumulto di pennellate», che non distorce e astrae la realtà ma affronta l’infinita e caotica gamma di variazioni della realtà in rapporto dialettico con la corporeità delle figure che da essa emergono e che in essa sprofondano.

La complessa ricerca estetica di Morlotti – qui delineata alla luce delle differenti prese di posizione dei critici d’arte a lui più affini – si interseca con la produzione letteraria di Testori, proprio in relazione al particolare rapporto tra soggetto e natura che si stava ridefinendo nel secondo dopoguerra. Infatti in quegli anni si assiste ad un sotterraneo mutamento antropologico – come ha ricostruito Marco Antonio Bazzocchi nel capitolo Il rosso di Guttuso all'interno de L’Italia vista dalla luna – che verte sul dibattito decisivo tra realismo e naturalismo che coinvolse numerosi autori, tra cui Vittorini, Pasolini, Testori, Arcangeli e altri, e che ebbe come pietre di scandalo proprio Guttuso e Morlotti. È un punto di partenza essenziale per comprendere come il dibattito si sia trasferito dal campo artistico a quello letterario, e – in senso esteso – a quello antropologico-sociale, offrendo un’ipotesi di riflessione più ampia e mobile rispetto ai blocchi politico-culturali su cui si arroccavano le posizioni dominanti negli anni ’50. A questo proposito risulta fondamentale il dibattito apparso sulle pagine del numero 58 di Paragone del 1957, che Bazzocchi sintetizza così:

Qui troviamo le tre figure che rappresentano tre diverse declinazioni del problema: Giovanni Testori che cerca di sottrarre il suo pittore, Morlotti, da una visione eccessivamente sentimentale e interiorizzata di naturalismo proiettandolo verso una dimensione storica (il suo scritto si intitola significativamente Realtà e natura); Francesco Arcangeli che invece rilancia l’idea di un nuovo naturalismo, innestato sulla tradizione romantica e impressionista in una direzione che va dagli Stati Uniti all’Italia del Nord passando per Parigi (è la sua Situazione non improbabile); e soprattutto Renato Guttuso che cerca di iscrivere la sua storia nel percorso che oltrepassa l'azione dell'avanguardia e si ricollega a grandi modelli del passato, nella ricerca comune agli altri artisti della sua generazione.[20]

La mappatura delle posizioni in campo delinea un panorama articolato: un naturalismo intriso di realtà storica, un naturalismo ‘sentimentale’ di ascendenza romantica e un realismo pre-avanguardista. Le tensioni e le spinte divergenti prodotte dall’attrito di queste forze determinano un condizione fertile per formulare nuove possibilità di rappresentazione del rapporto uomo-natura che è andato in frantumi nella prima metà del ’900.

Tale complessità trova rispondenza nelle opere letterarie di Testori, frutto della sua ampia gamma d’interessi: al contempo critico d’arte, pittore e scrittore. Dalla sua opera risulta evidente una volontà di far emergere la corporeità del quotidiano attraverso una parola che ingaggia un corpo a corpo con la realtà, a tal punto che Gian Carlo Ferretti nel 1961 coniò l’espressione «naturalismo violento», mentre Pietro Citati nel 1959 affermava che la parola testoriana era in grado di restituire «l’informe, il groviglio di umori, odori, sentimenti, colori, istinti […], la fusione di cuore, sesso, visceri, bile».[21]

La scrittura narrativa di Testori si avvale della medesima metodologia d’indagine del reale che egli applica alla critica d’arte, assimilando l'insegnamento longhiano fino a stravolgerlo: una parola che non solo fa emergere le relazioni interne tra gli elementi che compongono una pittura, ma che scava la superficie dell’immagine per cogliere l’essenza carnale della materia, in stretta sinergia con il principio di ‘eros-erosione’ che guida la mano di Morlotti. Se è vero che si tratta di una scrittura che indaga la materialità del reale, non bisogna altresì cadere nell’equivoco ‘neorealista’ che ha contraddistinto la lettura del primo Testori. Dunque, si può parlare di naturalismo non in senso storico-sociale ma – lo ha puntualizzato Annamaria Cascetta a proposito di questa fuorviante interpretazione – solo in relazione all’esistenza naturale di ogni individuo, poiché «è qui che la forma si stacca dal magma indistinto, che avvia il suo movimento talvolta eroico, ma sempre doloroso, di affermazione di sé, per correre inesorabilmente verso l'oscuro riassorbimento di sé nel magma».[22]

Risulta emblematico per la perpetua compenetrazione tra figura umana e ‘magma indistinto’ il primo capitolo de Il dio di Roserio, nel quale Testori sperimenta una commistione di numerose tecniche compositive prelevate dall’ambito artistico, che vanno dalla prospettiva multipla cubista all'espressionismo dei pittori lombardi del Seicento, dai paesaggi informali di Morlotti al corpo umano trasfigurato di Bacon; ecco un esempio dalla descrizione della fuga in salita di Pessina e Consonni:

Come è che si poteva continuare in quella maniera? Eravamo dentro a una specie di casino di terra, gas e fumo che dovevamo rompere coi giri delle ruote. Le continuavo a veder scintillare, la sua dietro e la mia davanti, contro i colpi del sole che, ogni tanto, riusciva a far dei buchi in quella parete di polvere.[23]

Volti, ruote, corpi sudati, polvere, riflessi improvvisi di luce riverberati dalla superficie del lago s’intersecano in una composizione di elementi eterogenei legati tra loro dal flusso narrativo. La figura umana si disarticola nella frammentarietà dello spazio che la contiene e che essa stessa, con il proprio faticoso movimento, costringe ad ulteriori scomposizioni, rendendosi addirittura irriconoscibile. Tale dissolvimento è più evidente nel primo capitolo, ma possiamo individuarne altre tracce sparse nel romanzo, nonostante la lingua si faccia più regolare nei capitoli successivi, lasciando spazio ad una rappresentazione più lineare delle figure. Ad esempio, nel secondo capitolo, quando il Pessina viene tormentato dall'immagine del gregario caduto per colpa sua e che rischia di restare ‘scemo’ a vita, si può rilevare una doppia disintegrazione del volto umano, che riguarda sia il rimorso del colpevole sia l’immagine della vittima nella memoria del colpevole:

Sembrava che volesse levarsi dalla faccia una ragnatela: ma essa continuava invece ad avvolgerlo, impedendogli di vedere altro che quell’immagine, distesa su uno spiazzo d’erba magra, ingrigita dalla polvere, a precipizio sulla pozza afosa del lago, dardeggiata dal sole: il Pessina che chiudeva nelle mani la testa del Consonni, orribilmente impiastrata di terra, fili d’erba e sangue.[24]

Non solo la testa del Consonni è «impiastrata di terra, fili d'erba e sangue» in un miscuglio organico appeso tra vita e morte, ma anche il volto del Pessina si trasfigura come se una ragnatela continuasse «ad avvolgerlo, impedendogli di vedere altro che quell’immagine». L’impasto materico delinea una continuità tra figura e natura, in una angosciante disgregazione dei corpi e precarietà delle esistenze. Qui è il caso di richiamare il peso rilevante che ha avuto l’opera artistica di Francesco Cairo sulla formazione di Testori, che esordì proprio con un saggio sul pittore lombardo sul numero 57 di Paragone del 1952 sotto la guida di Longhi, poiché – come ha rilevato di recente Marco Antonio Bazzocchi – è grazie all'immersione nella matericità delle pennellate del Cairo che Testori riesce a plasmare una scrittura allo stesso tempo materica e visionaria:

In un’opera pittorica si incarnano valori esistenziali che l’artista estrae da profondità inconsce per renderle visibili, ma la visibilità è solo un effetto di superficie, dal momento che è necessaria una visionarietà per interpretare il nucleo nascosto dell’opera, è necessario un movimento di discesa dentro la materia pittorica per poter auscultare i valori segreti da cui la materia stessa si origina. Atteggiamento visionario significa «vedere al di là». Cioè superare i limiti dell’immagine. E questo può avvenire solo con una discesa nella profondità della carne. E con la lacerazione del visibile, del corpo del visibile.[25]

Il progetto di Testori di raggiungere una prosa ‘informale’, attraverso cui lacerare il ‘corpo del visibile’ e far sì che il magma dell'esistenza venga riportato sulla pagina senza perdere la propria vitalità con le sue imperfezioni, gli impacci, i tentativi andati a vuoto, continua e si sviluppa anche ne Il ponte della Ghisolfa, la raccolta di racconti del 1958.[26] L’ambientazione è prevalentemente quella della periferia milanese tra povertà e nuovi insediamenti, contesto simil-urbano nel quale lo scontro è la quotidianità per coloro che si aggrappano al sogno di un benessere a portata di mano ma irraggiungibile. Bisogna rilevare, però, che le scene più intense e crudeli si svolgono in quegli interstizi di vegetazione ‘naturale’ che l’urbanizzazione irregolare consente ancora. È in questi spazi (pratoni, fossi, siepi, campi abbandonati, ecc.) che la varia umanità raccontata da Testori sfoga la propria rabbia per l’impossibilità e l’incapacità di adattarsi al nuovo ritmo di vita, quello del boom economico e del neocapitalismo. La figura umana cerca rifugio nella natura, ma non è più in grado di comprenderla, non la riconosce più, e perciò sfoga su di essa la propria violenza repressa:

Quindi [il Renzo] uscì anche lui sulla strada: l’unica cura che ebbe nel riprender a camminare fu di tenersi nei punti più bui della strada e di strisciar contro la siepe che la costeggiava col desiderio di non farsi vedere da nessuno e quasi scomparirvi. […] Affondò la mano nei rami della siepe, strappò una foglia, la portò in bocca, la strinse fra i denti, poi preso dall'agitazione cominciò a masticarla.[27]

Gli spazi ‘naturali’ sono anche i luoghi della sessualità dei giovani, vissuta con disagio e inadeguatezza, una sessualità senza godimento che sfocia spesso nella violenza, perché in essa si catalizzano le frustrazioni di una vita che sfugge al controllo di chi la subisce e non riesce a domarla. Numerosi esempi si possono rintracciare in diversi racconti contenuti sia ne Il Ponte della Ghisolfa sia ne La Gilda del MacMahon, pubblicato l’anno successivo:

Quando l’Attilio s’era staccato da lei e alzandosi aveva cominciato a mettersi in ordine maledicendo ora il fratello, ora le donne, tutte, lei compresa, ora i fili d’erba e il terriccio che gli s’era attaccato dappertutto, lei aveva continuato a restar in terra; un senso di desolazione le aveva impedito di dire e di fare qualunque cosa; era rimasta lì giusto il tempo per coprirsi in qualche modo con la sottana, poi s’era voltata e s’era chiusa la testa fra le mani; così il pianto di prima aveva ripreso come se nel frattempo non ci fossero state interruzioni e in esse la gioia e lo sgomento d'aver trovato chi le piaceva.[28]
Quindi da alcuni rumori di foglie e rametti che si piegavano e da un più lungo, pesante scricchiolio, fu chiaro che il Lino era scivolato sulla ragazza e aveva preso ad abbracciarla in terra, tra il muro, il viottolo e l’erba. […] Adesso la nebbia s’era fatta ancor più umida e densa e intorno non si sentiva più niente e nessuno, se non il ronzio di qualche bicicletta che transitava sulla strada vicina, il fischio o il passo di qualche ombra di là dalla cinta delle ortaglie, di là dalle case e di là dalle cascine.[29]

Nella descrizione degli atti sessuali, consumati o in procinto di essere compiuti, le figure si sfaldano nel terriccio che le sostiene e le ingloba, mentre i gesti sembrano svincolarsi dai corpi che li compiono. Si ha qui una forte coincidenza con la formula di ‘eros-erosione’ utilizzata da Morlotti per descrivere le figure femminili nei suoi quadri, un’espressione che si lega al concetto di ‘sacralità della carne’, di cui ha parlato il pittore a proposito del proprio rapporto con la natura: «per me la realtà è il sangue, la linfa, il sesso, la malinconia e la morte che circola nelle cose».[30] Il binomio sessualità-disintegrazione è il fulcro contraddittorio che permea le figure dei due autori: l’apice della vitalità si annienta nell’inadeguatezza a vivere; la sacralità della carne si evince nel suo martirio quotidiano.

La periferia milanese e la Brianza sono riconoscibili, ma allo stesso tempo si fondono e confondono con la crudeltà quotidiana degli uomini e delle donne che vivono in quei luoghi, divenendo vittime e carnefici senza via di scampo. Nel ciclo dei Segreti di Milano Testori affonda nella drammatica quotidianità di vite ai margini, che cercano in ogni modo di afferrare nuovamente un rapporto con il contesto in cui vivono, non più la natura dei padri (un contesto rurale che va scomparendo) ma quella dei mutamenti storico-sociali che avvengono nonostante e, a volte, in antitesi alle loro possibilità di comprenderli e di farne parte. Una prosa, la sua, che rende anche visivamente la precarietà di esistenze in costante pericolo di disfacimento.

Le figure dipinte da Morlotti e quelle narrate da Testori si fondano sulla medesima necessità di trovare un equilibrio, per quanto precario, tra una natura inconoscibile e un soggetto disintegrato, conciliando astrazione e realismo. Si tratta di una sperimentazione possibile, in un contesto che vedeva uno scontro aperto e palese tra due poli opposti, che mantiene al suo interno la contraddizione di una pluralità di vie da percorrere, in ragione di un’apertura e non di un irrigidimento ideologico. Le figure ‘informali’ di Morlotti, grazie all’apporto critico di Arcangeli e Testori, aprono la gamma delle possibilità di agire con la materia indistinta di cui sono costituiti sia l’uomo che il paesaggio, seguendo le variazioni compositive della materia in agglomerati mutevoli. Come nei quadri di Morlotti si rivela visivamente il contrasto dialettico tra le linee della figura umana, con il loro portato di tradizione artistica, e l’insondabile caoticità della natura, così nei racconti di Testori si condensa la violenta lotta dei corpi emarginati nel tentativo di distinguersi dall’omologazione del paesaggio periferico lombardo, che lascia ferite profonde sulla pelle e impedisce di realizzare i propri sogni di riscatto, annaspando nella drammatica aporia dell’indecifrabile enigma della natura.

 


1 M. De Michieli, ‘Realismo e poesia’, Il ‘45, 1, febbraio 1946.

2 F. Arcangeli, ‘Astrattismo e realismo’, La Fiera Letteraria, 12 dicembre 1948; ora in Id., Dal romanticismo all'informale, Torino, Einaudi, 1977, p. 309.

3 Qui si cita da L. Ferrante, Arte e realtà. Studi per una estetica realista, prefazione di A. Pizzinato, Venezia, Fantoni, 1952, p. 84.

4 Cfr. T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra (1945-57), Milano, Schwarz, 1957.

5 Massimo Ferretti ha ricostruito i rapporti tra Arcangeli e Morlotti attraverso il loro scambio epistolare nel saggio Europei di terre antiche. Lettere fra Morlotti e Arcangeli, in Morlotti. Opere 1940-1992, catalogo della mostra di Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 6 marzo-12 giungo 1994, a cura di A. Buzzoni, Ferrara, Gallerie d'arte contemporanea, 1994.

6 G. Testori, Dipinti di E. Morlotti alla Saletta, mostra 24 aprile-5 maggio 1952, Modena, Bassi e nipoti, 1952, p. 3.

7 Ivi, pp. 7-10.

8 Ivi, p. 15.

9 Ivi, p. 16.

10 F. Arcangeli, ‘Gli ultimi naturalisti’, Paragone, 59, novembre 1954; ora in Id., Dal romanticismo all'informale, p. 314.

11 Ivi, p. 315.

12 In M. Ferretti, Europei di terre antiche, p. 22.

13 Ivi, p. 28.

14 G. Testori, Morlotti, Guttuso, Milano, Neograf, 1958, s.p.

15 F. Arcangeli, Morlotti, Milano, Edizioni del Milione, 1962; ora in Id., Dal romanticismo all'informale, p. 436.

16 Ivi, p. 443.

17 Ivi, p. 445.

18 Ivi, p. 446.

19 G. Sutherland, nota contenuta in Ennio Morlotti, a cura di M. Valsecchi, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1968, p. 27.

20 M. A. Bazzocchi, L'Italia vista dalla luna, Milano, Mondadori, 2012, pp. 77-78.

21 Qui si cita da A. Cascetta, Invito alla lettura di Giovanni Testori, Milano, Mursia, 1983, p. 165.

22 Ivi, p. 166.

23 G. Testori, Opere. 1943-1961, introduzione di G. Raboni, a cura di F. Panzeri, Milano, Bompiani, 2003, p. 75.

24 Ivi, p. 100.

25 M.A. Bazzocchi, ‘Nel buio della carne, nella carne delle immagini’, Arabeschi, 5, gennaio-giugno 2015, p. 72.

26 In merito al rapporto tra Longhi e Testori cfr. R. Donati, ‘Narrare con ‘la forma delle ombre’: la lezione di Roberto Longhi ne Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori’, Poetiche, 44, 2016, pp. 177-201.

27 G. Testori, ‘Torna a casa Lassi’, in Il ponte della Ghisolfa, p. 216.

28 G. Testori, ‘Pensieri nella notte’, in Il ponte della Ghisolfa, p. 403.

29 G. Testori, ‘Un bacio’, in La Gilda del MacMahon, pp. 663-664.

30 Frase citata da R. Guttuso, Mestiere di pittore, Bari, De Donato, 1972, p. 265.