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L’intento del saggio è di fornire una nuova lettura del celebre libro di Emilio Cecchi Messico, osservando in particolare le differenze tra le varie edizioni (1932, 1948, 1958 etc.). Si è ragionato sull’evoluzione dell’assetto del volume, data dall’introduzione di nuovi articoli, dalle ristrutturazioni dell’indice, e dall'espunzione delle 33 foto che corredavano la princeps. Il lavoro di ricerca si è avvalso della consultazione di tutte le foto conservate al Fondo Cecchi presso l’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze, foto scattate dallo scrittore durante il suo viaggio americano, e solo in minima parte pubblicate. Qui se ne presentano infatti nove, sette delle quali inedite e di grande interesse. L’articolo opera così una riflessione sullo sguardo e sul metodo di Cecchi-fotografo, e sulla sua scelta prima di arricchire il reportage con delle immagini, poi di rimuoverle. Ne deriva un percorso di lettura che affianca, a quelli più noti e già offerti dallo stesso Cecchi - il fil rouge del tema delle maschere, il significato della presenza del cinema muto - un ragionamento sul medium fotografico, di cui a tutt’oggi la vicenda critica cecchiana pareva essere mancante.

This essay provides a fresh interpretation of Emilio Cecchi’s famous book Messico, by focussing on the differences between the various editions (1932, 1948, 1958, etc.). I discuss how the book’s structure evolved from the inclusion of new articles, the restructuring of the index, and the deletion of the 33 photos that accompanied the first edition. My research embraces all the photos in the Cecchi Collection at the Bonsanti Contemporary Archive of the Gabinetto Vieusseux in Florence, photos taken by the writer during his trip to the United States, and published only in small part. Nine are presented here, seven of which of great interest and published for the first time. This article reflects on the eye and method of Cecchi-as-photographer, and on his choice to first enrich his reportage with images, and subsequently to remove them. The result is a process of interpretation that takes its place, along with Cecchi’s more famous and previous ones – within the common theme of masks and the significance of silent cinema – a reflection on the photographic medium that till now has been missing from the range of Cecchi’s criticism

Questo paese è pieno di echi. Sembra quasi che siano rinchiusi nei vuoti delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini ti pare come se calpestassero le tue orme. Senti scricchiolii. Risate. Risate ormai vecchissime, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Ecco ciò che senti. Penso che arriverà un giorno in cui tutti questi rumori si spegneranno”.

[…]

Sì” ricominciò Damiana Cisneros. “Questo paese è pieno di echi. Io ormai non mi spavento più. Sento l’abbaiare dei cani e lascio che abbaino. Li lascio fare, perché so che qui non c’è nessun cane. E in certi giorni ventosi si vedono le foglie trascinate dal vento, foglie di alberi, mentre qui, come tu vedi, non ci sono alberi. Ci saranno stati un tempo, perché altrimenti da dove salterebbero fuori queste foglie?

Peggio ancora, è quando senti parlare la gente, come se le voci uscissero da qualche fenditura, ma così chiare che le riconosci”.

 

Juan Rulfo, Pedro Páramo, 1955

 

 

 

 

0. Premessa

Messico[1] di Emilio Cecchi è una danse macabre affollata di spettri. Oltre vent’anni prima del capolavoro di Juan Rulfo che avrebbe inaugurato l’epoca, e forse anche la moda, del realismo magico sudamericano, raccontando di un paese tutto popolato da morti, il libro più riuscito di Cecchi, quello che meglio resiste al passare del tempo,[2] sovrappone al Nuovo Continente, che l’amicizia con Berenson e il ruolo di visiting professor a Berkeley gli hanno permesso di attraversare, una peculiare griglia interpretativa, o meglio un fitto reticolo di campi metaforici. Un filtro in virtù del quale un’estrema varietà geografica e culturale – dalla ricca e assolata California agli aridi e selvaggi stati del West, fino al Messico – viene convogliata e sussunta entro una sola, seppur multiforme, catena di maschere funerarie, di località cimiteriali e di apparizioni soprannaturali. Molto prima di Rulfo, si diceva, ma quasi in perfetta contemporaneità con le riprese dell’incompiuto Que viva Mexico! di Ä–jzenštejn (1931-32), che si apre con immagini di mostri e teschi precolombiani.[3]

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The paper investigates the figure of René d’Harnoncourt as an illustrator of books dealing with Mexican culture (The Painted Pig and Mexicana. A Book of Pictures), prior the appointment as second Director of the Museum of Modern Art in New York. To better understand this particular activity, the author will outline his network during d’Harnoncourt mexican stay, followed by an analysis of both style and content of the books.

 

1. The illustrator who became Museum Director*

Count René d’Harnoncourt (Vienna 1901-Long Island 1968), diplomatic cultural mediator and insightful exhibition curator, is usually studied in his capacity of second Director of Museum of Modern Art in New York, therefore his activity as a book illustrator remains mostly unknown. This paper examines two books he illustrated between 1930 and 1931, in order to analyze and highlight this particular skill he maintained throughout his life. Indeed, even during his busy MoMA years, d’Harnoncourt continued sketching installation devices and views of installation devices for museum shows. Drawing was not a secondary activity, but rather the basis of his conception and practice of visualizing (and understanding) spatial and cultural phenomena.

D’Harnoncourt officially held the position of museum director, from 1949 to 1968, under the Rockfellers patronage. In fact he acted as close collaborator and counselor for the collection of so-called “primitive” art assembled by Nelson Aldrich Rockefeller (1908-1979). This collection represents the foundational core of the Museum of Primitive Art (1954-1974), which was then transferred to a proper wing at the Metropolitan Museum, and finally opened to the public in 1982.

The prolific exchange between the director and the collector has been recently traced thanks to a major show entitled The Nelson A. Rockefeller Vision: In Pursuit of the Best Arts of Africa, Oceania, and the Americas (October 8, 2013-October 5, 2014), which included a section devoted to the exhibition of d’Harnoncourt notebooks. In their structure, divided into Catalog and Desiderata, enriched with sketches, photographs, maps, and bibliography, these documents outline the development of the canon of primitive art in the US, and help to reconstruct the collecting interest in the City during the 1950s.

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