“Questo paese è pieno di echi. Sembra quasi che siano rinchiusi nei vuoti delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini ti pare come se calpestassero le tue orme. Senti scricchiolii. Risate. Risate ormai vecchissime, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Ecco ciò che senti. Penso che arriverà un giorno in cui tutti questi rumori si spegneranno”.
[…]
“Sì” ricominciò Damiana Cisneros. “Questo paese è pieno di echi. Io ormai non mi spavento più. Sento l’abbaiare dei cani e lascio che abbaino. Li lascio fare, perché so che qui non c’è nessun cane. E in certi giorni ventosi si vedono le foglie trascinate dal vento, foglie di alberi, mentre qui, come tu vedi, non ci sono alberi. Ci saranno stati un tempo, perché altrimenti da dove salterebbero fuori queste foglie?
Peggio ancora, è quando senti parlare la gente, come se le voci uscissero da qualche fenditura, ma così chiare che le riconosci”.
Juan Rulfo, Pedro Páramo, 1955
0. Premessa
Messico[1] di Emilio Cecchi è una danse macabre affollata di spettri. Oltre vent’anni prima del capolavoro di Juan Rulfo che avrebbe inaugurato l’epoca, e forse anche la moda, del realismo magico sudamericano, raccontando di un paese tutto popolato da morti, il libro più riuscito di Cecchi, quello che meglio resiste al passare del tempo,[2] sovrappone al Nuovo Continente, che l’amicizia con Berenson e il ruolo di visiting professor a Berkeley gli hanno permesso di attraversare, una peculiare griglia interpretativa, o meglio un fitto reticolo di campi metaforici. Un filtro in virtù del quale un’estrema varietà geografica e culturale – dalla ricca e assolata California agli aridi e selvaggi stati del West, fino al Messico – viene convogliata e sussunta entro una sola, seppur multiforme, catena di maschere funerarie, di località cimiteriali e di apparizioni soprannaturali. Molto prima di Rulfo, si diceva, ma quasi in perfetta contemporaneità con le riprese dell’incompiuto Que viva Mexico! di Ėjzenštejn (1931-32), che si apre con immagini di mostri e teschi precolombiani.[3]
In questa affermazione non v’e alcunché di sorprendente, giacché lo stesso Cecchi offre un Introibo alla sua operetta, fin dalla princeps del 1932, ponendo sotto gli occhi del lettore l’affinità tra le maschere Hopi e le nuove maschere del cinema hollywoodiano.[4] Si potrebbe però aggiungere un approfondimento sulla valenza di tale dialettica della maschera, e su una declinazione che ci pare essere finora sfuggita alla critica. Il ruolo cioè che, nella compatta struttura semantica del libro, giocano le immagini e la riflessione sull’arte e sul linguaggio della fotografia.
Sarebbe incauto definire Messico, nella stampa corredata da 33 fotografie per lo più autoriali,[5] come un fototesto. Ovviamente Cecchi non aveva nessuna intenzione di realizzare un dispositivo intermediale, direi anzi che l’esistenza stessa di un simile oggetto, teorizzato solo oltre mezzo secolo più tardi dagli studiosi di Clermont-Ferrand,[6] sia del tutto assente dal suo orizzonte mentale, sebbene già nel 1928 in Francia fosse apparso uno dei massimi archetipi del genere, Nadja di Breton. Diciamo che, per quanto la princeps di Messico non voglia essere, né sospetti di essere (e dunque, non sia), un fototesto, nondimeno il libro è composto con scatti originali, eccezion fatta per un pugno di cartoline, che intrattengono – e più avrebbero potuto intrattenere, se altre fossero state le scelte in sede di pubblicazione – rapporti non ovvi con la parte verbale del volume. Scatti originali spesso viziati da qualche stravaganza, imperfezione o eterodossia formale, ossia da ciò che in un canonico corso di fotografia un docente etichetterebbe come ‘errori’, ma che qui, nella maggior parte dei casi, contribuiscono all’efficacia delle immagini medesime.[7] Un esempio per tutti: moltissime delle fotografie di Cecchi presentano uno strano orientamento obliquo. Per dirla più chiara, sono storte, marcatamente storte. Paesaggi, soprattutto, e ritratti o dettagli di oggetti, appaiono spesso inclinati verso destra, come in un complessivo franare dell’esistente, o come se il mondo effigiato si trovasse su una sfera assai più piccola di quella terrestre, e la curvatura fosse visibile a occhio nudo. Soggetti sempre o quasi fotografati di scorcio, da sinistra a destra, con proporzioni e centrature mai calibrati, mai simmetrici, spesso con eccessi di luci o di ombre, anche con dettagli in movimento. La tecnica sarà, forse, imperfetta o discutibile; al contrario, lo sguardo è coerente, e connotato da una personalità assai marcata.
Si osservi questa foto, scattata presso i cosiddetti giardini galleggianti di Xochimilco (delle quattro conservate nel Fondo Cecchi), e si legga il testo, in parallelo:
Si potrebbe fantasticare d’un imbarco per Citera se altre cose, con maggiore evidenza, non evocassero l’Acheronte.
Alberi magri ed altissimi, dal fogliame tenue come una peluria grigia, tremolano sul nostro capo e specchiati ai nostri piedi, nell’eguale bianchezza del cielo e dell’onda.
Ritti sopra sottilissime piroghe, i giardinieri vanno attorno a coglier fiori. E il bordo della piroga è tanto basso che quella gente sembra cammini miracolosamente sull’acque.[8]
L’immagine è inclinata e asimmetrica, ma bellissima e inquietante; i riflessi oscuri e serpeggianti sotto la piroga, innegabile punctum della foto, sembrano puro Schiele, o deformazioni lisergiche della visione. Cecchi insomma immortala il Messico, e gli stati americani del Sud, con una prospettiva costante, rapportabile a uno ‘stile’, per quanto idiosincratico e antiaccademico.
Dunque, un iconotesto ‘in potenza’?
La vicenda editoriale del libro scompagina le carte e offre possibilità interpretative meno piane, meno debitrici del senno di poi (che è sempre molto comodo e non di rado ingannevole). Intanto il corpus delle fotografie d’autore andato in stampa, se confrontato con il vastissimo ‘iceberg’ sommerso che, per fortuna, si può visionare al Fondo Cecchi, riserva non poche sorprese. Molte delle istantanee più notevoli, alcune straordinarie, che lo scrittore fiorentino fermò nel suo viaggio, non sono mai uscite dalla condizione del negativo, e alcune le presentiamo qui. Dunque il criterio che guidò la scelta delle 33 foto definitive non fu quello della singolarità estetica, bensì, al contrario, quello dell’illustrazione piana. Ciò spiega perché, a parte alcuni casi, le foto in Messico a un primo sguardo sembrino normali cartoline.
Inoltre occorre ricordare le rivoluzioni patite dal libro nell’approdare a una seconda edizione accresciuta:[9] l’aggiunta di alcuni articoli, due dei quali largamente posteriori e relegati in appendice, e l’eliminazione totale di tutto il corredo di immagini, mai più riproposte, nemmeno nel Meridiano.[10] Altre rivoluzioni vi saranno, nel passaggio entro Nuovo Continente,[11] e infine nella postuma edizione Adelphi.[12]
L’ipotesi dell’iconotesto in potenza era suggestiva, ma facile. Occorrerà guardare meglio, più in profondità.
1. Fotografia e macchine fotografiche
Un dettaglio, per cominciare. Vi è un articolo strutturalmente cruciale, nel libro: si intitola El Paso, e si incentra sul superamento della frontiera tra i due grandi stati. La prima parte di Messico si svolge infatti negli USA, la seconda nel luogo promesso dal titolo, a lungo atteso (un terzo del totale del volume).
Lo scrittore-viaggiatore, partito da San Francisco, giunge al confine dopo una lunga e tortuosa discesa verso un sud che solo in parte è geografico, qualcosa di simile a una catabasi conradiana verso un Heart of Darkness assolato e arido. Stati Uniti a nord, Messico a sud, e un’unica città tagliata a mezzo, con due nomi: El Paso sopra, Ciudad Juarez sotto. Come in ogni confine importante, vi prolifera un’osmotica barriera di istituti di cambio, e non solo. Si respira la sensazione che il confine sia uno scambiatore, un luogo in cui finisce una civiltà, una cultura, un intero mondo, e ne comincia un altro. Il che è ancor più paradossale in una città sola, divisa dal border. Così Cecchi lo descrive:
Il carattere è dato dalle innumerevoli botteghe di cambiavalute, pegni e robivecchi. «Casa de cambio», «Roba da gobierno» si legge da ogni parte. Le strade che vanno alla stazione di El Paso sono un Campo di Fiori permanente. Americani che partono e Messicani che arrivano versano sul banco dei rivenditori rivoltelle, macchine fotografiche, lampade tascabili, orologi, coralli. S’entra nel Messico attraverso una colossale vendita all’asta, una sterminata liquidazione. Non so perché, ma questo dà un grande entusiasmo. Sembra che uno butti nel mucchio qualcosa di inutile anche lui e varchi il confine messicano, sentendo che ora comincia il bello.[13]
«Ora comincia il bello»… L’articolo tace qui, e dunque, un passo più avanti, Cecchi – noi con lui – si trova in Messico. La scelta strutturale è evidente, così come il segnale metatestuale. L’autore ci ha costretti ad attendere per 60 pagine; ci ha descritto luoghi e persone d’un diverso ‘altrove’; arrivati al confine si svuotano le tasche, si butta via tutto, e finalmente ‘andiamo di là’.
Le lettere scritte in parallelo agli articoli, parte delle quali leggibili nel Meridiano,[14] manifestano tutte una marcata euforia, a questa data, e così i frammenti dei Taccuini. Se una nota caratteristica del Cecchi viaggiatore è di essere curioso ma disincantato, il primo sentore che le sue scritture private dal Messico ci restituiscono è, piuttosto, quello di un uomo coinvolto e rapito. E, pur con tutta la rimodulazione dei toni aggiunta nel testo per la stampa, per buona parte il Messico ne uscirà – col suo disordine, il suo caos, il suo ‘orrore’ – più attraente degli Stati Uniti, a cui è polemicamente contrapposto.
Nel gesto di rovesciare le tasche, alleggerirsi, quasi denudarsi, apotropaico e rituale, Cecchi inserisce anche un oggetto per l’epoca non così comune, né così tascabile: ‘la macchina fotografica’. Non era certo un accessorio immancabile, per un turista negli anni Trenta, mentre nel catalogo apparentemente casuale del testo giunge quasi subito, come secondo utensile dopo la rivoltella (oggetto iconico sia del Far West che del turbolento Messico). Inoltre Cecchi, che pure scrive cercando di suggerire al lettore di esser intimamente partecipe del rito di passaggio, a ben vedere questo gesto ‘non lo fa’. Lui la macchina l’aveva davvero con sé, ma la conserva. L’ha usata spesso, da quando ancora risiedeva nel campus di Berkeley (dicembre 1930), e continuerà ad usarla fino al suo ritorno a casa (novembre 1931), con un lungo viaggio in nave che fece tappe anche a Tangeri e Gibilterra.[15]
In apertura del secondo articolo dedicato a Cecchi da Contini,[16] si legge un’interessante riflessione sul posizionamento calibrato di alcuni pezzi al centro ‘quasi’ aritmetico di Corse al trotto e de L’osteria del cattivo tempo. Perché Cecchi lavora attentamente sulle proporzioni ma evita la perfezione, temuta e scansata anche dagli indiani Hopi, come si racconta nel celebre articolo Quia imperfectum di Messico che tanto piaceva a Calvino. Ebbene, il posizionamento, nonché il contenuto, di El Paso, sono altrettanto studiati per fungere da chiave di volta. Il libro sul Messico appare bipartito, e l’ampia sezione dedicata agli USA non è vieto indugio o mera obbedienza diaristica allo svolgersi di un percorso, bensì una filiera di simboli e variazioni sul tema delle maschere che vanno a predisporre, come in una lunga ouverture, per assaggi, anticipazioni e contrasti, ciò che la parte maggiore squadernerà in modo più frontale.
2. Il Far West, un set (abbandonato) e haunted
Messico non sceglie la strada, già topica nella letteratura di viaggio in America,[17] dell’arrivo via mare, con approdo alla East Coast e alla grande metropoli, alla baia di New York. Affronta il gigantesco continente dal lato opposto, più remoto rispetto all’Europa, e immediatamente ci porta, nei primi quattro articoli,[18] a compiere una sorta di escursione tra le città minerarie del Far West, che all’epoca erano già compiutamente delle ghost town[19].
È una sorta di set da film western. Un film dove non echeggiano più le sparatorie, non vi sono polveri alzate da cowboy a cavallo, non sfilano lente e maestose immense mandrie, e gli alberi sono spogli di impiccagioni. Non c’è più niente, solo rovine, macerie, ma – ed ecco un primo scarto immaginativo – come probabilmente sarebbe dato vederne in un set, abbandonato dopo la lavorazione.
Cecchi, critico d’arte e di letteratura, spesso lavorò – a partire dall’invenzione di Pesci rossi, libro di magnifiche bolle d’acqua ripiene di poco o nulla, e capaci tuttavia di raccontare infinitamente[20] – come critico della cultura in senso lato. Tutti i fatti legati alla semiosfera erano in grado di attivare il suo pensiero, e naturalmente dall’America degli incipienti anni Trenta veniva una straordinaria mole di prodotti estetici. Se da un lato New York generava immaginario soprattutto nella forma di un’incredibile innovazione architettonica e urbanistica,[21] la West Coast produceva una mole altrettanto ampia di immaginario filmico.
Le città dei minatori abbandonate a margini del deserto sono autentiche come siti archeologici, tuttavia, quando chi le visita è un fruitore non ingenuo di cinema, costui le legge come dei luoghi che hanno ispirato la settima arte, e che insieme sembrano esserne state prodotte («a Coulterville, che una volta contava sei o settemila abitanti, alcuni impresciuttiti vecchietti, vestiti come nei primi films di Fatty e di Tom Mix, sedevano a fumare in mezzo alla via»).[22] L’Italia, certo, si poteva visitare subendo la mediazione dell’immaginario pittorico,[23] ma l’America la si visita già con un filtro mentale in buona parte cinematografico.
Ed ecco che, nella plaga più desolata, sede della miniera Merced Gold Mining Co., epitomata da una cassaforte aperta e vuota come dopo una rapina, lo scrittore avverte una presenza: i fantasmi degli uomini – anche suoi conterranei – che hanno lavorato in quel luogo e lo hanno abitato.
Sfogliavo qualche libretto paga. Uno del novembre 1897. I nomi dei minatori erano incolonnati, con accanto fuscellini che, giorno per giorno, indicavano la presenza al lavoro. Ed ecco, mescolati agli altri, anche i nomi degli Italiani. Il sorvegliante sbagliava spesso nello scriverli. Dava di frego; riscriveva sopra. Par di sentirlo compitare: Luigi Ferretti, Giovanni Triscornia, Giuseppe Solari, Luigi Podestà, altri tre o quattro. Mi sembravano nomi di compagni morti. Mi sembrava di ritrovarli, fra la maceria d’un campo di battaglia, su qualche piastrino di riconoscimento.[24]
Questo cinema mentale porta con sé non l’idea dell’epica western né dei prodigi tecnologici della modernità: evoca, al contrario, ricordi incongrui da Grande Guerra, ma soprattutto uno svanire, uno svuotamento, una strana dimensione liminare tra vita e morte.
Dopo pochi giorni Cecchi torna in luoghi abitati; piega verso sud, meta Los Angeles, e dedica direttamente un gruppo di scritti al cinema.[25] Il primo si intitola Hollywood: è come se stessimo viaggiando dentro la Città degli Angeli e ci aspettassimo, con quel titolo isolato nel bianco della pagina, di scorgere da lontano la celebre scritta monumentale sul fianco della collina. Al contrario, il maltempo e la pioggia che sferzano la città le danno una connotazione imprevista, deprimente, e lo sterminato suburbio losangelino suscita nella penna di Cecchi l’immagine di un set ormai disabitato e fuori dall’uso.
E nella devastazione della pioggia, il cemento, lo stucco e il cartone catramato, come in un teatro o in una fiera in putrefazione, grondavano da tutte le parti.
In ogni località si poteva credere di trovarsi in un campo cinematografico in abbandono.[26]
Quella che, già allora, era per antonomasia ‘la mecca del cinema’ appare all’occhio visionario dello scrittore fiorentino come un paesaggio di macerie; ciò che Benjamin, in uno dei suoi più celebri passi, definiva così: «con la crisi dell’economia mercantile, cominciamo a scorgere i monumenti della borghesia come rovine prima ancora che siano caduti».[27]
I divi incontrati in questa sezione sono – non ancora, ma lo saranno – vecchie glorie del cinema. Adolphe Menjou e Gloria Swanson, prima di tutto, vengono colti in un momento drammaticamente periclitante delle loro vite di celluloide; star sul limitare di un imminente, già presentito, declino, complice l’avvento del sonoro. Ed è Cecchi, diciamolo, a fare della Swanson la diva di Viale del tramonto, molti anni prima di Billy Wilder, nel magnifico e perfido colloquio a casa di lei, nel quale risponde, all’ammirazione dichiarata dalla Swanson per la nostra Eleonora Duse, facendo spallucce, e commentando che, hélas, la Duse vista in California era stanca e sfiorita, rispetto a quando il giovane scrittore andava ad applaudirla a Firenze. La Swanson accusa il colpo, e nella decadenza della divina Duse percepisce ciò che la aspetta.
Se non fosse abbastanza, il lettore della prima edizione di Messico volta pagina, e non trova un ritratto fotografico dell’attrice, bensì l’immagine di una gloria assai più sepolcrale: l’impronta delle sue mani e la sua firma sul selciato del Chinese Theatre di Hollywood.[28] Una diva resa mero calco, puro vuoto, impronta nel terreno, svanito segnale di un peso che fu, di un corpo che non è più presente, come fosse l’orma di un dinosauro. Difficile immaginare un’effigie maggiormente funerea.[29]
Il grammofono e il telefono avevano, rispettivamente nell’Ulysses di Joyce e nella Recherche di Proust, prestato il fianco per la prima volta alla suggestione di veicolare la voce dei defunti. Se l’arte drammatica, fin dall’antica Grecia, aveva sempre fatto uso della voce come di uno strumento fondamentale, a partire dalla nascita del cinema erano stati invece promossi attori silenziosi, e sulla capacità di recitare senza suono si erano costruite delle grandi celebrità. Ora il diffondersi delle voci nelle sale cinematografiche sarà per gli attori come una nemesi, l’arrivo di un revenant ferale, che stroncherà molte carriere anche luminosissime.
Cecchi continuamente gioca sulla reversione, sul ribaltamento di questi due piani, il fattuale e l’immaginario. Da un lato visita i luoghi reali e li vede già sovrapposti, doppiati, o comunque trasformati dal lavoro cinematografico, dall’altra racconta i divi del cinema utilizzando la chiave dell'incontro informale, fuori dal set e dalla finzione. Spegne sui divi la luce del divismo e li coglie nella quotidianità.
Se ognuno di questi attori è primariamente maschera, volto iconico ma artificiale svelato dal racconto, la coppia Chaplin-Keaton funziona perfettamente anche nella sua assoluta polarità: Chaplin incontrato per strada, al ristorante, non lo si riconosce, dice Cecchi. A lui occorrono il trucco e l’uniforme (il cappello, i baffetti, il bastone), per innescare la meraviglia del vagabondo Charlot. Keaton, al contrario, è la perfetta fusione di maschera e smascheramento; è sempre se stesso e sempre alieno, è l’uomo che entra ed esce dal film senza cambiare mai; mette in comunicazione questi due mondi, rovesciandoli continuamente l’uno nell’altro.
Su Keaton, Cecchi scrive uno dei testi più belli del libro. Ne parla come di una creatura arrivata da un perenne fuori-dal-mondo, che porta con sé un’aura di alterità contagiosa, dentro la quale chiunque è risucchiato.
Il pezzo ha un incipit sentenzioso: «Buster Keaton ha il dono delle apparizioni».[30] Nel Fondo Cecchi si trovano due foto straordinarie, che costituiscono a un tempo l’innesco della frase, e un documento storico.
Nella prima si vede un set della MGM, deserto: un fittizio angolo di città, con vie, facciate di palazzi, scale antincendio, eccetera. Nella seconda, lo stesso set, e Buster Keaton in mezzo alla strada. Apparso.
La sequenza presentifica in massimo grado, rendendola fisicamente sensibile, l’idea di una creatura soprannaturale.
L’avevo intravisto alcune volte […] e sempre mi aveva colpito quella sua maniera naturalissima eppure imperiosa di diventare di colpo il centro di una situazione, mettendoci di suo meno che niente. Non ha bisogno di nulla. È sempre pronto. E dovunque si presenti crea una scena “alla Keaton”.[31]
[…]
L’avevo anche visto in un salone da presa […]. A un tratto ci venne a tutti di voltarci. Con una maglietta azzurra e i calzoni giallini come quelli degli studenti era entrato a dare un’occhiata, per un senso di curiosità professionale. E parve come se i riflettori si fossero concentrati su di lui, lasciando il resto della sala nell’ombra. Non perché egli fosse quell’artista famoso; ma per una specie di materiale forza di attrazione, che chiama gli sguardi e i ceffoni sulla sua faccia di pietra.[32]
Senza le sentimentali finezze e le trascendentali ironie di Charlot, la sua fortuna sta in quell’impassibilità, in un che di intrepido ch’è nel contrasto fra la sua pantomima vertiginosa e il volto severo, inarticolato, che rammenta le terrecotte azteche e i basalti egizi. Dà l’impressione d’esser formato d’una sostanza più dura di quella degli altri esseri. Come se noi fossimo carne; e lui, metallo. […] L’ultima volta lo incontrai in una specie di scenario pompeiano […]; tutto abbandonato, deserto. […] La solitudine, il silenzio davano alla scena a una bizzarra malinconia. […] In quell’ambiente desolato con una delle solite giacche fiammanti era anche più Keaton del solito, una specie di uomo nella luna che cammina sbadato inciampando nei detriti di un mondo capovolto.[33]
Lo sguardo di Cecchi tende a dislocare le star dal mito, tuttavia il suo non è un approccio preconcetto, tanto che Keaton si staglia come irriducibile a questa dialettica ‘divo/non divo’; rimane se stesso e il suo personaggio in una fusione perfetta. È assimilato a un’opera d’arte, non a un performer: se il suo modo di muoversi rimanda a una topica immagine modernista, il manichino/saltimbanco,[34] la sua carne assimilata a pietra, metallo o ceramica punta verso un’altra direzione metaforica: «terrecotte azteche e basalti egizi» è una perfetta costellazione che, nella sua eterogeneità, accoppia due popoli e due vicende artistiche particolarmente legate ai culti funerari, e all’arte legata all’oltretomba.
Subito dopo, Cecchi scrive: «visitando un allevamento di alligatori, mi veniva di pensare a Keaton».[35] È ben noto quanto egli fosse attratto dagli zoo, dagli animali, specie se strani e feroci. Un fiorentino istruito che viene da un paesaggio-giardino, da una città-museo, non riesce a celare la fascinazione per quanto non gli è familiare; proprio perché rappresenta il contrario della sua storia. Tutto ciò che è violento, selvaggio, barbarico, in qualche modo lo attrae. Nello stesso tempo lo respinge, e tale ambivalenza aggalla spessissimo nei suoi testi. Lo colse alla perfezione già Contini:
Appunto l’Oriente, come ogni sorta di natura informe e fumosa, ogni «cielo serpeggiato d’invisibili demoni» suscitò un orrore sacro nell’animo di Cecchi; che sempre vi ritornò, a buon conto, come ad irresistibile sirena.[36]
La qualità della scrittura di Cecchi testimonia una lotta con il demone molto warburghiana: è il tentativo di creare una prosa estremamente sofisticata e variegata, che ingabbi il demone, lo rappresenti e gli dia una domesticità. Ma nello stesso tempo questa prosa è sempre percorsa dall’inquietudine del demone. È lo stesso fenomeno che ha perseguitato Warburg e che l’ha portato alla follia.[37] E dentro Messico noi troviamo una foto che potrebbe aver scattato Warburg stesso: è la numero 7, ed è interamente stipata da uno spaventoso groviglio di alligatori. Anche senza Laooconte, sembra la perfetta visualizzazione di una fobia ossessiva.
Per quanto il coccodrillo possa essere rapidissimo, per lo più lo si vede immoto come una statua, come una pietra. Non è un caso che Keaton gli riappaia nella mente paludato da coccodrillo. Mentre gli altri attori li descrive bonariamente e ironicamente, nelle loro manchevolezze, Keaton è catafratto, irraggiungibile, come un rettile preistorico. Con l’alligatore, e forse anche con Keaton, ‘non si parla’.
3. Monumentalità e fuoco
Il primo articolo dopo il confine si intitola Zacatecas.
Appena fuori di El Paso, a Ciudad Juarez, […] tutto diventava straordinariamente armonico e convincente. Già il nuovo Messico serba assai poco dell’America. Ma qui sembrava d’aver fatto, in cinque minuti, un volo di secoli e di migliaia di miglia.
[…] Non si creda andassi in sollucchero vedendoli tanto stracciati. Quello che colpiva era la monumentalità degli atteggiamenti, il fuoco delle fisionomie. È una meraviglia che vi accompagna per tutto il Messico.[38]
«Armonico e convincente» è davvero una stravagante coppia di aggettivi, per un prosatore così attento alla scelta delle parole. Per giustificarla, aggiunge che qualcosa si scorge, al di sotto della superficie stracciona. È «la monumentalità degli atteggiamenti». Questi uomini, donne, bambini miserabili possiedono qualcosa di monumentale. E poi, senza alcun nesso, «il fuoco delle fisionomie». La parola ‘monumento’ implica il grandioso, il solenne, e contiene anche il tratto semantico della staticità. Quel che aggiunge Cecchi, a farne un ossimoro, è l’elemento più vivace e mobile, il fuoco, ipnotico e misterioso nella sua natura, che sembra straordinariamente vitale e vivente. «La monumentalità degli atteggiamenti, il fuoco delle fisionomie». In questa terra, nel suo popolo, la compresenza di ‘monumento’ e ‘fuoco’ instilla, quasi in maniera subliminale, il pensiero di una dimensione cimiteriale. Spesso un luogo dove esiste o è esistito il connubio fuoco-monumento era legato al culto dei defunti.
Poche righe dopo, infatti, Cecchi sviluppa esplicitamente tale suggestione:
Nel sole a piombo, Zacatecas pareva una città scoverchiata. Le mura de’ cortili e di certi presepi imitavano con l’ombre il casellario d’un gran sepolcreto, fra una sterpaglia di cactus, e ventagli di rupi color madreperla. Muraglie e piante avevano una sorta di porosa pallidezza. E di pomice sembrava il viso del ragazzo che mi vendette le prime sigarette indiane […]. Una calotta scura gli incorniciava strettamente la fronte e le gote […]. Con quegli occhi a mandorla e le grosse labbra imbronciate, il viso minutamente trapanato da qualche morbo era un triste viso di statua. Già avevo visto quel viso, e lo ricercavo in fondo alla memoria. Lo ritrovai, dopo qualche giorno, fra le sculture del Museo di Città del Messico.[39]
Il quadro a campo lungo e lunghissimo torna a stringersi su questo viso di ragazzino messicano che si avvicina, che esce dall’indistinto molteplice. Caratterizzato da una serie di elementi che lo sospendono all’intersezione di diversi stati. I capelli a calotta, il viso di pomice: è una manifestazione della carne che si confonde con l’inorganico, scolora verso la pietra. Il viso è «trapanato da qualche morbo»; la sensazione di una vita sofferente in un mondo ostile, con il sole a picco, un mondo di sollecitazioni estreme. Insieme, però, è ‘trapanato’ come fosse un altorilievo o un capitello bizantino. Il morbo non è solo qualcosa che scava la carne, anzi dà carattere a questo viso di statua. Come se il ragazzo, la sua fisionomia, fossero emblematici di tutta una società, una nazione, un luogo del mondo.
Venere e i peoni racconta analogamente un incontro; non più un giovane bensì una vecchia mendicante. E anche qui Cecchi utilizza la sua capacità di osservatore per mutare l’aneddoto in allegoria. Dice: «aveva il viso rinsecchito e nero delle mummie; e gli occhi non si potevano rifissare».[40] In questo Messico così demonico, così inquieto, l’allusione alla mummia non è un facile cliché: ogni cosa richiama elementi ancestrali, magici, rituali. «E gli occhi non si potevano rifissare»… il turista non regge quello sguardo, insostenibile.
Vi sono nel Fondo Cecchi diverse bizzarre foto legate a una situazione analoga. Lo scrittore è in piedi, benvestito all’occidentale, con un abito nero completo di panciotto, sul marciapiede di una via, vagamente a disagio. Accanto a lui, accanto ai suoi piedi, un corpo seduto, rattrappito, contro il muro di una casa. Non protende la mano, non guarda nemmeno in alto verso l’ipotetico benefattore: sembra un fagotto, un cadavere preistorico inumato in forma fetale.
Ciò che suggestiona Cecchi, mostrandogli una città-sepolcreto, è qualcosa di simile a un effetto visionario, a un’epifania[41] da demone meridiano. La scrittura si muove in un Messico dove ogni apparenza reale evoca continuamente qualcos’altro. Non morti, bensì ‘moribondi’ o ‘fantasmi’, creature del limite, del passaggio, della sospensione limbica o del ritorno implacato.
Leggiamo Mercato dei fiori:
Sotto alla cupola dei cappelli i visi appaiono più scarniti e aguzzi; le mascelle a triangolo come quelle dei gatti. Maschere dai lunghi baffi giapponesi. Facce mongole in una canizie di stoppa. Sull’attaccapanni delle spalle, a volte non è rimasto che un teschio con un po’ di cartilagine unta. E le movenze di certi grandi vecchi ischeletriti rammentano il tentennante annaspare della scimmia-ragno.[42]
Sono tutte metamorfosi. Nel consueto topos della descrizione della folla, qui una folla messicana, accade che ognuna di queste persone immediatamente viri in qualcos’altro, spesso con interferenze incoerenti geograficamente (Giappone, Mongolia) o biologicamente (i gatti, la scimmia-ragno). Il vecchio più magro è rappresentato, con mossa espressionista, come un attaccapanni con dei vestiti addosso e con un teschio sulla sommità. Ci sono diversi scatti di Cecchi che parlano, per così dire, la stessa lingua allucinata.
La simbologia del teschio, si sa, è particolarmente feconda e popolare in Messico. Basti pensare a El Día de Los Muertos. Ma quella che qui si sta descrivendo non è una festa in maschera. Si tratta, piuttosto, di fusioni tra l’umano e la maschera. Il vivente rivela se stesso nella forma del morto, l’organico e l’inorganico si specchiano. Lo sguardo del viaggiatore non si limita a proiettare i propri fantasmi su quello che vede: ha già introiettato un'estetica del Messico, e risulta percepibile la fusione tra la fantasia di chi scrive e una certa fantasia indigena.[43]
Le maschere, al di qua del confine, non sono più dei set cinematografici abbandonati, divi sospesi tra fama e oblio, rettili spacciati ai turisti per farne foto o souvenirs. Sono parvenze funerarie. E in particolare volti privati della carne.
Il teschio è l’Ur-maschera, come insegna l’apologo amletiano dell’incontro con Yorick. Non un accidente che si indossa, ma la sostanza che sottostà a tutta l’esistenza, ciò che permane quando i costumi passeggeri della carne e delle varie età saranno stati deposti. Ciò che non si dismette, anzi emerge da sotto i sovrapposti veli delle menzogne, e non si falsifica.
Per questa ragione, io credo, il cuore segreto di Messico edizione 1932 – non ancora quello definitivo – è l’articolo Maschere e teschi, sulle raccolte d’arte di Città del Messico. Qui Cecchi dedica una parte importante alla descrizione dei celebri teschi di cristallo.
Curiosa ironia della sorte, quando il fiorentino ne parla, non sa – non può saperlo – che sono dei falsi ottocenteschi. Un po’ snobisticamente osserva che di simili reperti ve ne sono anche nei musei europei, al Trocadéro, al British, al Louvre, e perfino più belli di quelli di Città del Messico. Ciononostante, dedica a questi ultimi un paio di pagine di folgorante virtuosismo scrittorio, e insieme liquida, a loro favore, tutta la vicenda dell’arte d’avanguardia europea, condensata nelle figure dei suoi arconti eponimi:
Picasso e De Chirico son serviti. Una pensata di questa forza non la fecero mai. E ci si accorge, guardando una di queste mortesecche di cristallo, che dopo tutto essi lavorarono in “stupore metafisico”, ma all’acqua di rose; e, nonostante tutta la loro ingegneria, proprio alla buona; senza neanche troppa convinzione degli effetti che pretendevano suscitare.[44]
La menzione del Trocadéro non è casuale: Cecchi sa bene quanto, nel disordine polveroso di quella raccolta di trovarobato esotico, si sia formata molta dell’estetica primitivista delle avanguardie, dal Cubismo in poi[45]. E, con una mossa di ulteriore primitivismo, inattesa in lui, ammette di trovare più emozionanti i teschi di cristallo, creati – crede – mille anni fa da anonimi scultori precolombiani, rispetto a tutto ciò che gli europei hanno prodotto nel XX secolo, sedotti dalla ‘sirena’, direbbe Contini, del remoto, dell’estraneo, dell’arcano.
Il momento culminante di questa narrazione si dà quando lo scrittore arriva a visitare il grande sito della Teotihuacan azteca:
Finalmente, dietro palmizi che sembrano raggere di ferro, la massa grigia di una piramide. Si potrebbe scambiarla per una collina, se non fosse nel suo aspetto qualcosa di inquietante. Via via che ci si accosta, dentro quella mole si formano lineamenti. La scalinata che fende perpendicolarmente la piramide sembra il nasale d’un elmo greco; e il taglio orizzontale delle terrazze superiori, la feritoia per gli occhi.
È lo stesso disegno che si osserva in talune maschere degli Indiani del Nuovo Messico; ma riportato in proporzioni colossali, e con maggiore rigore geometrico. La piramide posa sulla terra come una testa gigantesca, che dagli occhi socchiusi domina la campagna. È a un tempo piramide e sfinge.[46]
Non facciamoci depistare dal termine di paragone classicamente europeo: la lettura della piramide come testa colossale tiene perfettamente. Peraltro, un’altra tipica forma dell’arte messicana sono le teste giganti degli Olmechi. Lui non le cita direttamente, ma è come se, nel suo immaginario di lettore colto, avvenisse una sintesi tra quelle teste e i visi misteriosi della sfinge e dei Ramses. Cecchi crea un sincretismo tra le facce colossali degli Olmechi e queste strutture ancora più colossali, qualcosa che i monumenti egizi non permetterebbero. La piramide egizia non mima nulla, è pura perfezione geometrica. Invece la piramide azteca, evolvendosi in un cranio poggiato sul terreno, sviluppa una personalità. Una capacità di sguardo, da un remoto evo lontanissimo.
È l’ultima e la più importante delle maschere che Cecchi incontra in questo paesaggio: umane e disumane, tutte arcane. Purtroppo nel Fondo vi sono diverse foto della piramide, ma nessuna sovrapponibile a questa prospettiva.
4. Finalmente, la Rivoluzione
Come abbiamo detto, nel 1948 Messico torna in libreria in una nuova edizione. Ha perso tutte le foto, e guadagnato alcuni nuovi articoli, due dei quali in appendice. Uno di questi, che in seguito entrerà nel corpo del libro e verrà posto al centro di un trittico dedicato alla storia recente del Messico, si intitola Fotografie della rivoluzione e diventa l’ultimo e definitivo cuore segreto del libro. Non più il Messico precolombiano, né quello dei Conquistadores, né quello cattolico e barocco, ma quello dell’epica novecentesca di Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Cecchi scrive in Italia, nel 1946, recensendo un volume pubblicato tre anni prima: The Wind That Swept Mexico.[47] Un libro realizzato da due fotografi famosi, Anita Brenner e George Leighton. Questo, al contrario di Messico, è davvero un fototesto. Raccoglie una breve storia divulgativa della rivoluzione e un catalogo di 184 scatti, con ampie e a volte immaginose didascalie.
Cecchi sembrava finora aver privilegiato il cinema o le arti; qui riequilibra le parti con la fotografia. Capisce molto bene la forza delle immagini tecnologiche, tanto da affermare:
Il maggior pregio del libro è la parte fotografica. I messicani si vantarono sempre che la loro rivoluzione, precedendo di sette anni quella russa, aprì il ciclo delle rivendicazioni proletarie del ventesimo secolo. Ch’è inoppugnabile. Insieme a tante altre cose, la rivoluzione messicana fu anche il primo avvenimento del genere che trovasse i fotografi perfettamente attrezzati.[48]
La ‘vera’ rivoluzione, sembra dirci, è quella dell’arrivo di una stupefacente risorsa della rappresentazione. E poi conclude, con una strana svolta umorale:
Non sarebbe facile, e sarebbe interminabile, cercar di rendere a parole anche solo alcune di coteste immagini. Futile è descrivere un quadro, benché il compito sia agevolato dai richiami e concetti stilistici. Figuriamoci con questi frammenti e scheggioni di cruda realtà.[49]
Un maestro di stile, critico d’arte, ‘giornalista principe’ (Contini), confessa che il lavoro dello storico dell’arte è segnato a priori dallo scacco. Compensato in parte da strumenti del mestiere: confronti, rimandi, dettagliate ecfrasi. Tutti palliativi per rendere meno insensato il gioco di descrivere un quadro. Ancor più insensato, sembra, tentare di descrivere queste foto, che hanno una forza impossibile da riprodurre in un altro medium. È come se Cecchi marcasse il riconoscimento dimissionario di un limite: la modernità è anche questo. L’arrivo di nuove tecnologie che impongono a ciò che è stato di rinnovarsi o perire.
Se noi pensiamo che in Messico, nel ’32, c’erano le foto, e non vi sono più, quando nel 1948 appare questo nuovo articolo, le due posizioni, apparentemente antitetiche, si legano in una maniera del tutto imprevista. Cecchi comprende che si può raccontare anche con le istantanee. È una nuova dimensione della scrittura. Non fa per lui, forse, ma è nell’aria, è imminente.
Il dimissionario autore in realtà non demorde. Depone la macchina fotografica, rimuove gli scatti, e continua a usare la penna, con il suo stile magistrale. Lotta contro il demone, anche se lo sente più forte, destinato a prevalere.
Si sofferma su alcuni splendidi ritratti, in particolare uno di Emiliano Zapata, ricomposto da Tina Modotti a partire da una lastra preesistente andata in pezzi.[50] Ne descrive l’intensità e la qualità estetica: «Un formidabile ritratto di Emiliano Zapata, gli occhi trasognati dentro una nebbia fosforica».[51]
Se pensiamo alle foto dell’Ottocento, la definizione è perfetta. I dagherrotipi avevano spesso una parte più a fuoco e margini che parevano dissolversi. Questo «formidabile ritratto» sembra abitare dentro una «nebbia fosforica», esserne il prodotto. Nel linguaggio di Cecchi la nebbia fosforica è il corredo di un fantasma; ciò che lui sta guardando è, ancora una volta, un’apparizione.
Ai primordi della fotografia, per molto tempo, si cercò, con quella strana commistione di arte e scienza, di vedere i fantasmi; con la fotografia parapsicologica si inseguiva l’aura psichica, si tentava di fissare presenze ed elementi soprannaturali.[52] E sovviene la considerazione, ironica ma giustissima, di Ferdinando Amigoni:
Quel che forse potrebbe sembrare più sorprendente è che fantasmi, spettri, magia e magari ectoplasmi affollino con preoccupante zelo anche le pagine di assai seri trattati di ontologia del segno fotografico, di smilzi ma densissimi libelli di semiotica della fotografia, di ponderose e accademiche monografie dedicate agli obiettivi delle fotocamere e alle loro gesta. Può capitare allo studioso di tali testi la bizzarra esperienza di vedersi trasportato, dalle bianche lontananze – talora un poco soporifere – del discorso teorico, al più palpitante mondo della ghost story.[53]
Leggiamo ora la chiusa dell’articolo di Cecchi:
A volte la rivoluzione si concede un intermezzo grottesco, o grottesco-macabro; come nella fotografia di Villa sedutosi per burla sul “trono” presidenziale; a lui accanto Zapata, ed intorno soldati, borghesi, peoni, studenti delle scuole tecniche e signore con la veletta. Non stanno nella pelle, sprizzano fuoco da tutti i pori; e al tempo stesso sembrano già in un ossario.
Che volti, che sguardi lirici e bestiali, angelici e dannati. Che giorno deve essere stato per loro. Ormai polvere e cenere la più parte, e gli altri chi sa che cosa diventati: in quell’attimo di beatitudine, in quella suprema apoteosi sulla lastra dell’ignoto fotografo, anch’essi entrarono nella storia, anch’essi conseguirono la loro piccola immortalità.[54]
Il libro sembra un ennesimo cimitero, un Trocadéro di maschere funerarie, o un’immensa seduta spiritica. Cecchi, da fotografo dilettante di talento, sa bene che la fotografia ha la dote inquietante di testimoniare e presentificare l’avvenuto e insieme lo svanito. Bloccare il tempo ed evocare i fantasmi. Assenza e presenza, congiunte al massimo grado. Quando ci parla del ritratto di Zapata sta gettando un occhio nell’oltretomba, fors’anche con la dolente consapevolezza dell’ubi sunt? che segue a ogni trionfo, a ogni rivoluzione, al declino di ogni umana potenza.
1 E. Cecchi, Messico, Milano, F. Treves, 1932. Si cita (salvo dove diversamente indicato) dalla prima edizione perché impreziosita da 33 fotografie. Su queste immagini, e sulle altre scattate dallo scrittore, oggi conservate nel Fondo Cecchi, si ragionerà nel presente studio. Si ringraziano dunque vivamente l’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux, nella persona della sua direttrice, Gloria Manghetti, e il rappresentante degli Eredi Cecchi, Masolino D’Amico, oltre che la Regione Toscana, per il permesso alla consultazione del Fondo e alla riproduzione dei materiali, in gran parte inediti, che corredano l’articolo.
2 In effetti, è quasi l’unico libro di Cecchi ancora reperibile in commercio a sé stante, nella versione Adelphi. Le ristampe Eliot di Pesci rossi del 2015 e di Firenze da Aragno nel 2017 sono passate pressoché inosservate. Su Messico, oltre al celebre articolo di Contini – G. Contini, Emilio Cecchi o della Natura (Dal Kipling a Messico), ora in Id., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei, Torino, Einaudi, 1974, pp. 98-111. Fu l’inizio di un’intensa frequentazione epistolare che in parte ci è arrivata: cfr. E. Cecchi, G. Contini, L’onestà sperimentale, carteggio a cura di P. Leoncini, Milano, Adelphi, 2000 – si veda M. Schilirò, ‘Il viaggio ai primordi del mondo. Emilio Cecchi in Messico’, Le forme e la storia, a. VIII, 2015, n. 2, pp. 871-889 e Id., ‘L’ideogramma del caos. Animali di Emilio Cecchi’, Ermeneutica letteraria, III, 2007, pp. 91-110, ora in Id., La misura dell’altro. Animali e viaggi di Emilio Cecchi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017.
3 Che Cecchi non vide, almeno all’epoca, ma di cui ebbe contezza. Sul nome di Ėjzenštejn si conclude l’appendice bibliografica di Messico, p. 151.
4 «Mi preparo a far conoscenza con le maschere senza tempo delle tribù Hopi e Zuñi. Porterò loro il saluto di quest’altre maschere: il saluto di Buster Keaton e di Charlot», cfr. E. Cecchi, Messico, p.1.
5 Il frontespizio curiosamente ne dichiara 32, però sono 33.
6 Cfr. almeno Aa.Vv. Iconotextes, a cura di A. Montandon, Paris, Ophrys, 1990; tra i contributi critici rilevanti e differenziati che sono seguiti si veda Aa.Vv., Icons-texts-iconotexts. Essays on Ekphrasis and Intermediality, a cura di P. Wagner, Berlin - New York, W. de Gruyter, 1996; L. Louvel, L’oeil du texte. Texte et image dans la littérature de langue anglaise, Toulouse, Presses universitaires du Mirail, 1998, e Aa.Vv., Texte/Image. Images à lire, textes à voir, a cura di L. Louvel, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2002. In lingua italiana è stato pionieristico, per ampiezza d’informazione e chiarezza metodologica, M. Vangi, Letteratura e fotografia. Roland Barthes – Rudolf Dieter Brinkmann – Julio Cortázar – W.G. Sebald, Udine, Campanotto Editore, 2005. A questo vanno aggiunti R. Ceserani, L’occhio della Medusa. Letteratura e fotografia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011 e gli ormai numerosi studi di M. Cometa, curatore del miscellaneo Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Macerata, Quodlibet, 2016 e autore di La scrittura delle immagini, Milano, Raffaello Cortina editore, 2012. Documentatissimo è A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Torino, Einaudi 2016.
7 Questo scritto si avvale di alcuni supporti teorici di moderata eresia, come C. Cheroux, L’errore fotografico. Una breve storia, trad. it. di R. Censi, Torino, Einaudi, 2009; F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico (1979), Torino, Einaudi, 2011; e il bel libro recente di F. Amigoni, L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari, Macerata, Quodlibet, 2018.
8 E. Cecchi, Messico, pp. 77-78.
9 Firenze, Vallecchi, 1948.
10 L’edizione di riferimento per le opere di Cecchi sarebbe il Meridiano Saggi e viaggi, a cura di M. Ghilardi, Milano, Mondadori, 1997, ma su quella curatela è ragionevole provare delle perplessità. Cfr. B. Pischedda, L’idioma molesto. Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale, Milano, Aragno, 2015.
11 Firenze, Sansoni, 1958.
12 Milano, Adelphi, 1985.
13 E. Cecchi, Messico, p. 60.
14 Cfr. ‘Note e notizie sui testi’, in E. Cecchi, Saggi e viaggi, pp. 1799-1821.
15 Cfr. Fondo Cecchi.
16 «L’aritmetica del bibliografo fa il calcolo delle pagine, spacca il numero a metà, e press’a poco al centro del libro, nel ’36 come nel ’41, incontra un gruppo di frammenti collegialmente intitolati Album […]. Un’altra suite che per la sua analogia tocca subito la memoria, Lanterna magica, situata anche più esattamente a metà dell’Osteria del cattivo tempo. C’è un forte rischio che pagine del genere, cuore dei rispettivi libri certo ma perciò anche equidistanti dall’evidenza degli estremi (o della superficie), celate strategicamente, rappresentino la traccia meno pubblica ma forse meno alienabile dello scrittore», cfr. G. Contini, Cecchi e il «Libro segreto», ora in Id., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei, p. 291.
17 E recuperata nel più tardo America amara (Firenze, Sansoni, 1939), dove l’antiamericanismo di Cecchi deflagra (anche in parte su commissione).
18 In realtà solo due, nell’edizione del 1932.
19 Si percepisce una somiglianza tangibile tra questi luoghi, che Cecchi frequenta nelle prime pagine di Messico – sulla scorta dichiarata dello Stevenson di The Silverado Squatters, allora non ancora tradotto – e quelli che ottant’anni dopo avrebbe visitato Giorgio Vasta in uno dei più notevoli esempi di narrativa intermediale contemporanea, cfr. G. Vasta, Absolutely Nothing, Macerata, Quodlibet, 2016. Sulle dinamiche fototestuali del romanzo di Vasta cfr. M. Rizzarelli, ‘Raccontare e coltivare il deserto. Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel’, Arabeschi, V, 10, luglio-dicembre 2017.
20 P. Stockbrugger, ‘Visività in “Pesci rossi”. Arti figurative e prosa “artiste”’, Italianistica, anno 2016, n.2, pp. 107-132.
21 Cfr. A. Meda, ‘Babilonie stellate. Immagini delle metropoli americane nella letteratura di viaggio degli anni Trenta’, Forum Italicum, anno 2011, n.1, pp. 100-123.
22 E. Cecchi, Messico, pp. 8-9.
23 Cfr. A. Ottani Cavina, Terre senz’ombra, Milano, Adelphi, 2015.
24 E. Cecchi, Messico, p. 8.
25 Cfr. P. Leoncini, ‘Etica e visività in Emilio Cecchi critico cinematografico’, Studi novecenteschi, anno 2003, n.1, pp. 135-173.
26 E. Cecchi, Messico, p. 10.
27 W. Benjamin, ‘Parigi, la capitale del XIX secolo’, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p. 160, corsivo nostro.
28 È la foto n. 6 in Messico, intitolata Pietre sacre. Chinese Theatre.
29 Cfr. G. Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo, modernità dell’impronta, trad. it. di C. Tartarini, Torino, Bollati Boringhieri, 2009. Si veda anche il pionieristico J. von Schlosser, Storia del ritratto in cera (1911), a cura di P. Conte, Macerata, Quodlibet, 2011.
30 E. Cecchi, Messico, p. 17.
31 Ivi, p. 18.
32 Ivi, pp. 19-20.
33 Ivi, pp. 22-23.
34 Cfr. il classico J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco [1970], a cura di C. Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
35 E. Cecchi, Messico, p. 22.
36 G. Contini, Emilio Cecchi o della Natura, p. 102, corsivo nostro. Cfr. anche i citati Pischedda e Schilirò.
37 Cfr. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, trad. it. di A. Serra, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. Altri momenti warburghiani in Messico sono la visione della danza del serpente, e l’articolo Ecce Homo, che lo studioso di Amburgo avrebbe trovato una perfetta declinazione dei suoi concetti operativi di Pathosformeln e Nachleben.
38 E. Cecchi, Messico, p. 61.
39 Ivi, p. 62.
40 Ivi, p. 65. Nella versione definitiva il brano sarà staccato e intitolato L’elemosima.
41 O a una sinistra premonizione, se si pensa a ciò che Ciudad Juarez diventerà. Cfr. S. Gonzaléz Rodriguez, Ossa nel deserto, trad. it. di G. Maneri e A. Mazza, Milano, Adelphi, 2006, e naturalmente R. Bolaño, 2666, trad. it. di I. Carmignani, Milano, Adelphi, 2009.
42 E. Cecchi, Messico, p. 66.
43 Uno dei modelli di Cecchi, D.H. Lawrence, in Mornings in Mexico (1923) a sua volta quando descrive Rosolino, il garzone che vive insieme a lui, ricorre a terminologie simili. Parla ripetutamente di «grandi occhi di ossidiana». Delle donne scrive: «tuttora le donne del Messico sembrano partorire coltelli di pietra». La religione azteca, con le sue divinità feroci e mostruose, sembra persistere nel presente, mutare la natura dei corpi. La pietra diventa un attributo somatico, il segno della contaminazione tra gli abitanti di un luogo, il paesaggio, e i loro culti.
44 E. Cecchi, Messico, p. 88.
45 J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, trad. it. di M. Marchetti, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, in particolare il cap. Surrealismo etnografico, pp. 143-182.
46 E. Cecchi, Messico, p. 95.
47 A. Brenner, The Wind That Swept Mexico: The History of The Mexican Revolution, 1910-1942, 184 photographs assembled by George R. Leighton, New York-London, Harper & Brothers, 1943.
48 E. Cecchi, Messico, nuova ed. accresciuta, Firenze, Vallecchi, 1948, pp. 191-192.
49 Ivi, p. 193.
50 È la foto n. 71 del libro di Brenner. Oggi la si trova facilmente su Google Images.
51 E. Cecchi, Messico, nuova ed. accresciuta, p. 192.
52 Cfr. C. Cheroux, L’errore fotografico, in particolare il cap. IV, La fotografia dei fluidi, ovvero ‘il lapsus del rivelatore’, pp. 102-131.
53 F. Amigoni, L’ombra della scrittura, p. 11.
54 E. Cecchi, Messico, nuova ed. accresciuta, p. 193, corsivo nostro. La foto è la n. 108 del libro di Brenner.