Antonio Latella, Il servitore di due padroni

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Per Antonio Latella e Ken Ponzio a richiamare Il servitore di due padroni sulla scena del nostro tempo è la ricerca di interstizi inediti, spazi vuoti dentro la sfera della tradizione: un’opera di decostruzione che apre nuove possibilità di significazione attraverso una regia scenica e una scrittura drammaturgica che agiscono come una mano che scompiglia i fili della storia per poterli intrecciare diversamente.

In un articolo scritto in occasione di una rappresentazione parigina de La locandiera con la regia di Visconti (1956), Roland Barthes sostiene di non riscontrare, in Goldoni, i caratteri tipici della Commedia dell’Arte: i personaggi anticipano e già appartengono, invece, a quella commedia borghese che il binomio Ponzio-Latella si cura, oggi, di far emergere con forza ancora maggiore attraverso un valido tentativo di riconfigurazione dell’ambiguità pura della maschera, secondo una chiave contemporanea che punta all’essenza, seppur complessa, di ciascun personaggio. A proposito delle simbologie tradizionali che attraversano il testo, lo spettacolo sembra rifarsi ancora una volta a Barthes, poiché del simbolo il testo mette in luce la costanza, mentre ciò che varia è la coscienza che la società ne ha e i diritti che gli accorda.

A gestire la tensione tra il palco e la platea, per mezzo di un interfono, è il locandiere Brighella (interpretato da Massimo Speziani): un concentrato di energie, contornato dal frac come da un preciso segno di pennarello. Perduti i rombi colorati del costume, l’Arlecchino di Roberto Latini è vestito del bianco che è la somma di tutti i colori. La sua trasparenza, quella di un prisma rifrangente la luce, è il contrappeso di uno spettacolo tutt’altro che pallido. Il suo corpo è acrobatico, la voce è masticata a fondo prima di essere emessa, articolata in un polifonico, talvolta inceppante, grammelot. Il timone della creazione è nel suo sguardo libero, spietato e penetrante, una lente che sembra ingrandire il senso delle parole del testo laddove si appoggia sulle pagine della sceneggiatura, chiarendole.

La compagnia è diretta da una regia affilata che si fonde – ritmicamente e formalmente – nella scrittura di Ponzio. L’attribuzione di inflessioni diverse alle voci dei personaggi è segno della lettura fedele e del rispetto portato al testo d’origine, ma anche della necessità profonda di una riattualizzazione che non tema e anzi sappia esaltare le ambiguità di fondo. È così che la parlata diventa il tratto più elementare di ciascuna identità presente sulla scena, è così che si esplicita quell’ambiguità dei rapporti che concede ad Arlecchino di diventare non più il servo di Beatrice, ma suo fratello.

Un’ambiguità di genere, anche sessuale, caratterizza i personaggi femminili: nella vicenda, Beatrice veste i panni di Federigo Rasponi – motore assente della vicenda e icona della potenza dei morti – e la sua interprete, Federica Fracassi, diviene essenza dello spettacolo mostrandosi capace di esserne il perno narrativo. Clarice (Elisabetta Valgoi), che di Beatrice è l’alter ego monocromo, sbriciola la sua iniziale frivolezza: la sua femminilità, occupata e appiattita inizialmente dal peso della figura del padre Pantalone, si riappropria di sé, si emancipa svelando un io tridimensionale. Tuttavia, solo la cameriera Smeraldina, una Lucia Peraza Rios che conquista applausi a scena aperta, è autorizzata a non perdere di vista la realtà. Lei è l’osservatrice, occhio allo stesso tempo interno ed esterno, sintesi delle altre figure femminili e l’unica che, in scena, esplicita il nucleo della narrazione. Ed è lei a chiedere ad Arlecchino di ricordare perché egli sia maschera: maschera di morte o rivoluzione.

Morte o rivoluzione sono, dunque, le due ipotesi generate dall’incarnarsi della tradizione nel contemporaneo. La domanda originaria, quella che muove tutta la rappresentazione, prende forma attraverso il personaggio di Smeraldina e trova svolgimento specie nel momento in cui Arlecchino, schiavo di sé stesso, mostra la propria frattura interiore: il vuoto che egli contiene è il risultato del passaggio di tutte le voci che ha dovuto fare proprie, servendo l’ambiguità dei suoi padroni.

La scena, di Annelisa Zaccheria, è un luogo chiuso, una hall d’albergo sulla quale si affacciano un ascensore e quattro porte tutte segnate col numero sei, quel sei che – forse – è il virtuale sesto grado di separazione tra tutte le identità che partecipano al gioco. Con il concludersi dello spettacolo, le pareti della scenografia vengono rimosse, la finzione viene letteralmente smontata. Appare allora la scena nuda, capace forse di restituire all’Arlecchino quell’unità di senso che troppe separazioni avevano sbiadito, rendendolo bianco.

La conclusione dello spettacolo riprende un classico della maschera di Arlecchino: il lazzo della mosca, quella mosca che è larva, ma che in latino è maschera, spettro. La larva/maschera è, infatti, la forma che attraverso la metafora riconosciamo in quanto unità, l’unità che il linguista Emile Benveniste avvicina al concetto di ‘ritmo’.

Mentre Bologna dedica a Romeo Castellucci una lunga rassegna – E la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale – che già nel titolo dichiara l’apporto fondamentale della linguistica al teatro di questi decenni, la semiosi generata da Latella sembrerebbe riferirsi non tanto a De Saussure col suo percorso di decrittazione, quanto – appunto – a Benveniste. Il linguista francese, infatti, ha mostrato come il concetto del termine “ritmo” non corrispondesse inizialmente a quanto è stato descritto da Platone – il ritmo come «fondamento dell’armonia» - ma alla forma, cioè ad una particolare disposizione delle parti in una totalità.

Lo spettacolo lascia quindi intravedere la possibilità di un dialogo linguistico-formale instauratosi a distanza tra Latella e Castellucci. La scelta di smontare la scenografia, verso la conclusione dello spettacolo, potrebbe essere una citazione: nell’episodio #07 Roma della Tragedia Endogonidia, Arlecchino è allo stesso tempo vittima e complice di una doppia schiavitù – politica (Mussolini) e morale (la Chiesa) – che si esprime in una domanda irrisolta: «Che cos’è questo? Che cosa ci rappresenta?». L’Arlecchino di Castellucci è schiavo di due poteri totalitari, mentre quello di Latella è un Arlecchino interiore, nevrotico, schiavo del rifrangersi continuo della propria identità e della propria appartenenza. In entrambi i casi, l’unica soluzione è nel rito purificante della distruzione, sia fisica, sia del contenitore che costringe il corpo, la scena, il mondo in cui abitano. La scelta tra morte o rivoluzione si conferma necessaria, spietatamente esclusiva nel suo essere fondamento dell’unità del senso dello spettacolo.

 

Il servitore di due padroni

da Carlo Goldoni

drammaturgia Ken Ponzio

Regia Antonio Latella

Interpreti Marco Cacciola, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Roberto Latini, Annibale Pavone, Lucia Peraza Rios, Massimiliano Speziani, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi

Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile Del Veneto, Fondazione Teatro Metastasio Di Prato