«Ho solo successo come attrice… come donna distruggo tutto». Anna Magnani maschera della Commedia dell’arte ne La carrozza d’oro

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La Carrozza d’oro (1952) di Jean Renoir è un film che fonde insieme riflessioni su cinema, teatro e arte. Girato in Technicolor e ispirato all’atto unico di Prosper Mérimée (La carrozza del Santo Sacramento, 1829), è – come lo ha definito lo stesso regista – «una commedia. […] un omaggio all’antico Teatro Italiano, particolarmente a quella forma di teatro detta la Commedia dell’Arte» (Renoir, 1953). Il film mette in campo un’infinita serie di interessanti relazioni tra realtà e finzione finendo col portare sul grande schermo la storia di un’attrice (Camilla), specchio di Magnani, per la quale la vera vita è quella che interpreta nei suoi personaggi (Colombina). Il contributo si concentrasulla grande prova di Magnani-Camilla che, intessendo sul suo corpo il duplice ruolo dell’attrice e della donna contesa in amore che sceglierà alla fine la strada dell’Arte, finisce col creare un doppio gioco tra illusione di verità e attorialità. La sua arte, come accaduto già per altri ruoli, si fonda sull’equilibrio perfetto tra recitazione a teatro e recitazione nella vita al punto da rendere difficile scindere l’attrice dalla donna, divenute ormai corpus unico.

La Carrozza d’oro (1952) is a film by Jean Renoir that combines reflections on cinema, theatre and art. In Technicolor and inspired by Prosper Mérimée’s one-act play (La carrozza del Santo Sacramento, 1829), it is – as the director himself defined it – «a comedy. [...] a tribute to ancient Italian theatre, particularly to that form of theatre known as the Commedia dell’Arte» (Renoir, 1953). The film introduces an endless seriesof interesting relationships between reality and fiction, ending up by bringing to the big screen the story of an actress(Camilla), a mirror of Magnani, for whom the real life is the one she plays in her characters (Colombina). The contribution focuses on Magnani-Camilla's great performance, who, by weaving onto her body the dual role of the actress and the woman challenged in love who will ultimately choose the path of Art, ends up creating a double game between the illusion of truth and acting. Her art, as in other roles, is based on the perfect balance between acting in the theatre and acting in life, to the point of making it difficult to separate the actress from the woman, who have now become a single corpus.

«Cara Anna, questa è l’ultima forma del nostro racconto-sceneggiato, […] leggila e dammi le tue impressioni. Ti abbraccio. Luchino».[1] Camila. La carrozza del Santissimo Sacramento è il titolo della sceneggiatura firmata nel 1950 da Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Antonio Pietrangeli e conservata tra le carte del Fondo Visconti nell’archivio della Fondazione Istituto Gramsci di Roma.[2] Cosa resta oggi di quel film mai realizzato – voluto dal principe siciliano Francesco Alliata di Villafranca fondatore, insieme ad alcuni amici, della casa di produzione Panaria Films (1946) – ce lo ricorda Stefano Moretti:

un frammento di una fase aurorale e vulcanica del nostro cinema; lo spirito con cui Visconti e i suoi collaboratori ne scrissero la riduzione e la sceneggiatura. L’immagine di un paese dove “le rivoluzioni si fanno con una certa disinvoltura. Riescono bene, come le feste. Cosa facciamo oggi? Una corrida o una rivoluzione? Non è come da noi che ci si pensa tanto che si finisce per non farne niente”.[3]

Il progetto di lavorare sulla pièce di Prosper Mérimée[4] si risolse in una fumata nera per Visconti e fu nel 1952 portato a termine da Jean Renoir, che il 28 marzo 1951 riceveva dal produttore Robert Dorfmann un telegramma a cui sarebbe seguito un rapido botta e risposta:

Dorfmann: Sarebbe interessato ad essere il regista de La carrozza del Santissimo Sacramento che gireremo in Italia a settembre?».
Renoir: In quale lingua propone di girare il film? Stop Ha un’attrice in mente? Stop Leggerò di nuovo il libro prima di prendere una decisione.
Dorfmann: Francese ed inglese ingaggiata Anna Magnani.
Renoir: Sono molto interessato a Magnani e a La carrozza segue la lettera del mio agente Jean Dewalde.[5]

Renoir, all’epoca, era desideroso di tornare in Europa e di fare un film con l’attrice che non esitava a definire «la quintessenza dell’Italia». In una lettera di qualche tempo dopo, indirizzata a Jean Vilar, difatti leggiamo:

devo aggiungere che mi ero fissato un compito molto preciso: fare un film con Anna Magnani. Volevo che questo film potesse valorizzarla senza per questo basarsi sugli elementi che, prima della nostra collaborazione, avevano contribuito al suo successo. Magnani è una personificazione assoluta del teatro, quello vero, con gli scenari di cartapesta, le lampade fumanti, gli orpelli degli ori scoloriti. Dovevo logicamente rifugiarmi nella commedia dell’arte e trascinare Anna con me in questa impresa.[6]

1. «La commedia, il teatro e la vita»

Nel 1952 Magnani sale sulla carrozza in puro stile Settecento che i Lanza di Trabia[7]avevano rimesso in moto e trasferito da Palermo a Roma affinché divenisse la protagonista, almeno nel titolo, del film diretto da Renoir: Le Carrosse d’or.[8]

È la protagonista principale, un’artista che sulla scena incarna il personaggio di Colombina, maschera briosa e furba della servetta. Come nel film The River diretto in India l’anno prima, Renoir pone al centro della pellicola un carattere: Camilla (qui con il raddoppio della consonante rispetto all’originale), celebre attrice, la cui intensa vita è divisa tra due amori: il palcoscenico e gli uomini; e attorno a lei l’ambiente, un ‘quadro’, quello del teatro, paragonabile per la posizione nella più generale economia dell’opera all’India del film precedente. Il soggetto de La carrozza d’oro è un complicato pastiche risultante dalla sovrapposizione di diverse storie, parte delle quali collocate nella realtà, e parte nella finzione scenica recitata dagli attori protagonisti, con continui scambi fra i due piani e la continua allusione che anche ciò che si suppone essere la realtà sia, a sua volta, una finzione scenica.

Renoir si era già servito del teatro per mettere in evidenza la natura di messa in scena del suo cinema (basti pensare a La Règle du jeu con la celebre sequenza della danza macabra o al prologo de La chienne, recitato da due burattini), e ispirandosi al testo originario «riporta il teatro alle sue origini popolari, alla spontaneità e all’inventiva dei comici, che si contrappongono alle fastose rappresentazioni del potere».[9] Il ritratto che ne viene fuori è un’esaltazione della figura della commediante in cui l’attrice porta la vita dentro la recita e allo stesso tempo tramuta la vita in recita. Un carattere capace di ricreare costantemente la dialettica attore-spettatore, palcoscenico e platea in una narrazione in cui tutti sanno di essere dei fantocci che recitano nel più generale copione dell’esistenza. Una commediante è figura multiforme e il regista ci consegna con Camilla un’attrice che a sua volta interpreta un ruolo in un gioco di specchi che incarna il contrasto tra verità e finzione e corrobora il motto che era dello stesso Mérimée: mémneso apistéin.

Tra il 1936 e il 1945 vedremo Magnani affrontare al cinema i personaggi di sciantosa e di primadonna, riuscendo a dar vita a una gamma di artiste di varietà, lei che quel genere lo conosceva bene, tutte straordinarie. Basti pensare a Teresa Venerdì di Vittorio De Sica (1941) in cui è una sciantosa infatuata di un giovane dottore, o al ruolo di soubrette in cui si sarebbe ritrovata anche per l’episodio Anna Magnani di Visconti in Siamo Donne (1953), o in Risate di gioia di Mario Monicelli (1960). Nannarella sembra citare sé stessa, ricordando i primi passi mossi all’interno delle Riviste degli anni Quaranta, la sua formazione teatrale forte e sempre rivendicata, anche quando diventa una diva del cinema.[10]

Per un attore la migliore scuola è il palcoscenico. Secondo me bisogna che colui il quale vuol diventare attore abbia il coraggio di fare il generico; di cominciare da “la signora è servita”; di esordire insomma dal gradino più basso. Questo tirocinio è utilissimo perché si compie davanti a un pubblico vero, a un pubblico che giudica senza riguardi. L’attore sente se gli spettatori lo seguono o non lo seguono, istintivamente si corregge, è costretto a studiarsi, impara. E impara anche osservando come si muovono e come parlano gli altri. Così si gettano le prime e le vere basi di un attore. Confesso di parlare per esperienza personale, però sono certa che se molti di coloro che si dedicano al cinema compissero questo tirocinio, se ne vedrebbero ben presto i risultati visibili e sensibili. La verità è che nessuno oggi ha il coraggio di guadagnare poco e di battere una strada faticosa e ingrata. Perché è la sola che esista. Tutte le altre, scuole per attori comprese, non portano a nulla o danno scarsissimi risultati.[11]

La data de La carrozza d’oro è emblematica in tal senso per Magnani: dopo essere stata scoperta dal cinema deciderà di compiere una nuova incursione nel teatro confessando di aver «estremo bisogno di buonumore»[12] e nel 1953 – otto anni dopo la sua ultima apparizione insieme a Totò (Pio Pio, rivista che lanciò Garinei e Giovannini e i due attori come «coppia comica») – torna in passerella con Chi è di scena?[13] di Michele Galdieri, il cui filo conduttore era proprio la duplice commedia dell’arte e della vita.[14] Magnani dimostra, ancora una volta, che non esiste, nel suo caso, una soluzione di continuità tra vita e palcoscenico. Quando è che Magnani dà spettacolo? Quando recita la vita? O quando recita un copione?

Come prima di lui Visconti,[15] anche Renoir dunque celebra le origini del temperamento teatrale di Magnani, nonché il suo radicamento nello spettacolo popolare. Aveva sin da subito espresso il desiderio di lavorare con lei e in conferenza stampa, il 1° giugno 1951, usa la parola «commediante» per connotare la sua figura:

[…] io e i miei collaboratori abbiamo ricreato un soggetto che potrebbe anche intitolarsi: La commedia, il teatro e la vita. La mia è la storia dell’attrice o piuttosto, come direi in francese, della comédienne e cioè dell’interprete. C’è una grande differenza tra un’attrice e una comédienne. Il cane lupo RinTinTin è un attore, Chaplin un comédien. I commedianti, gli artisti, i giullari, gli acrobati, i cantanti, i mimi – coloro che senza distruggere e senza uccidere continuano a morire e rinascere, a soffrire e ad amare ogni sera – sono più veri dei veri uomini.[16]

E ancora, aggiunge: «la Magnani […] ha fatto il varietà. Ha interpretato sullo schermo i ruoli più naturali e più improvvisati. […] Le si può attribuire la qualifica di comédienne e io sono felice che lei voglia simboleggiare nel mio film tutti gli altri comédiens del mondo».[17]

Renoir sembra voler aderire alla sistematizzazione di Jouvet (che a sua volta prendeva origine dalle riflessioni di Diderot) fra acteur e comedien:[18] se il primo è in grado di recitare soltanto parti corrispondenti al tipo cui di norma dà vita in scena, il secondo, il comedien, recita qualsiasi parte, ricevendo in sé,[19] il proprio personaggio. In merito alle affermazioni del regista Magnani così risponderà qualche tempo dopo a un giornalista:

è vero, la vita di un’attrice o, come preferisce Renoir, di una commediante, è simile a quella di Camilla: distrugge involontariamente come un animale, tutto ciò che ha intorno. Essa riesce a essere donna solo nei limiti che le sono consentiti dall’arte. Anch’io sono così. Anch’io sono come Camilla. Non so se Renoir l’abbia capito.[20]

Il film di Renoir voleva essere da una parte un omaggio al teatro e alla Commedia, ma dall’altra, così come nel testo di Mérimée, presenta una più ampia riflessione sullo statuto della verità nell’Arte e sulla condizione umana (grazie alle riflessioni sulle differenze fra volgo ed aristocrazia e sugli intrighi di potere),[21] che andrà via via precisandosi nella produzione più matura del regista[22] in cui i drammi trovano la loro realtà nella teatralizzazione del quotidiano (del 1969 è l’ ultimo Le Petit Théâtre de Jean Renoir).

«Invece dell’uomo con la sua individualità, vede il personaggio, e, più ancora, la maschera. […] Quasi a significare che la vita è in sostanza tutta una rappresentazione»,[23] per cui la realtà si dissolve in un gioco scenico. Il rapporto tra mondo e teatro, tra credenza e illusione viene concretizzato in modo inaspettato: non sono il mondo e la vita a inglobare il teatro, ma il contrario e Renoir indicava proprio nel mondo della Commedia dell’arte una delle forme più affascinanti di questa relazione fra la recitazione scenica e quella quotidiana.[24]

Il regista ben conosceva quell’immaginario che aveva visto sin da piccolo illustrato più volte dal padre in dipinti dedicati a spazi urbani nei quali spesso avevano luogo spettacoli di commedie, anche sotto forma di balletti, che si rifacevano ai copioni della cosiddetta Commedia dell’Arte.[25] Vito Pandolfi, in qualità di consulente per la Commedia dell’arte,[26] aveva ritrovato in un archivio dei libricini dove erano pubblicati numerosi canovacci di commedie con la relativa melodia.[27] Nel film, anche per merito suo, la Commedia appare autentica e così Renoir può esplorare le infinite possibilità della profondità del genere instaurando un discorso fatto di porte che si aprono e si chiudono con l’andare e venire dalle stanze, come fra le quinte del teatro, e finestre aperte sul pubblico.[28] Il regista, lo ricorda poi Alliata, consentì agli attori di improvvisare i dialoghi su un’idea di storia sviluppando l’intero film come una performance teatrale, cosa che ben si sposava con la grande capacità di Magnani che aveva fatto sua, dall’avanspettacolo, l’arte di recitare ‘all’improvvisa’. La sua ironia sferzante, il suo umorismo petroliniano («un Petrolini in gonnella», scriverà Morandini), la sua risata anarchica ne fanno una perfetta comédienne. Con naturalezza trasforma per il nuovo medium i saperi teatrali appresi. L’esperienza condotta come diva del teatro ‘leggero’ (la rivista) si rintraccia in Camilla, personaggia grazie alla quale Magnani può offrire il suo estro caricaturale, la sua bellezza anomala, la sua presenza.

Anna Magnani, Odoardo Spadaro, Riccardo Rioli, William Tubbs in La carrozza d’oro (1952), frame

 

2. Il corpo ‘comico’ di Camilla

Magnani la tratteggia, o meglio, la ‘riceve in sé’, con intelligenza e ironia, ben consapevole di non rappresentare l’ideale di una Camilla-Colombina perché non più giovanissima (ricordiamo però la battuta dell’attrice anziana della compagnia: «l’artista è sempre giovane»), non ha il physique du rôle, come annota Morandini, e nell’immaginario dello spettatore incarna ormai una donna del popolo. Si misura, come detto, con il ruolo femminile più antico, la ‘servetta’, eredità – come ci ricorda Cristina Jandelli – delle antiche «parti in commedia», che grazie a Goldoni avevano subito «una ‘riscrittura’ drammaturgica tale da assicurarle un “travaso indolore” anche nel passaggio al ruolo moderno».[29] Magnani potrà sembrare apparentemente lontana dal personificare la maschera di Colombina, ma il film è l’illusione che il teatro cambi tutto: quasi sempre le attrici sono belle solo sul palcoscenico, il loro fascino dura solo lo spazio della recita: è questo che ci racconta per esempio Gautier nel Capitan Fracassa. E il personaggio di Camilla ha molte affinità proprio con la figura di Zerbine di Gautier, la soubrette, termine che veniva riservato alla «servetta furba» che interpretava parti brillanti.

Anna Magnani, La carrozza d’oro (1952), frame

Libera, spettinata e anticonvenzionale, dotata di una spumeggiante vis comica, Camilla conquista tutti.[30] Camilla è colei che dall’inizio alla fine dell’opera conduce il gioco con un tempismo perfetto che culmina nel colpo di teatro della donazione della carrozza al vescovo. È cosciente di avere un potere ottenuto attraverso le arti femminili, ma quel potere le consente di superare le barriere che lo stesso ruolo, di teatrante cortigiana, le ha imposto. La maschera scivola continuamente nella vita (la stessa carrozza è vista come teatro e l’uscita del viceré da essa viene accolta dagli applausi), tutto diventa messinscena e vita insieme.[31] È questa reversibilità che interessa a Renoir, e non per inghiottire il mondo dentro il suo sogno, ma per liberarlo, per «mostrare come anche quando la vita irrompe (e viene fagocitata) nel/dal teatro (e dal cinema), noi assistiamo a un movimento di redenzione».[32] Camilla è scissa tra il desiderio di piacere al suo pubblico («il solo che conti») e quello di sentirsi amata da uno dei suoi tre pretendenti (il cavaliere, il torero e il viceré): «posso io amare come una vera donna?». I dubbi della protagonista si dissolvono quando comprende che anche il mondo del viceré è imprigionato in una rappresentazione. Dopo i vani tentativi di poter entrare in quella realtà, nella battuta che rivolge all’aristocrazia, prima di andar via con la lussuosa carrozza che è stata motivo di vanto, poi elemento di concertazione, quindi pegno sentimentale e infine simbolo del sacrificio, c’è tutta la consapevolezza di non poter appartenere a quel mondo: «alla fine del secondo atto, quando Colombina esce, scacciata dai suoi padroni, c’è una tradizione che sembra voi ignoriate, i commedianti si inchinano a lei». È la Colombina attrice (e non la donna) ad ottenere così l’inchino dell’aristocrazia. Il racconto subisce un’accelerazione che ha il ritmo della pochade quando i tre pretendenti si recano a casa sua per strapparle una promessa d’amore, ma Camilla è confusa: «ho bisogno di capire, io sono assolutamente sincera sia come donna, sia sulla scena. Allora perché ho solo successo come attrice e come donna distruggo tutto quello che amo. Ma chi può dirlo dove finisce il teatro e dove la vita comincia». Se nel testo di Merimée l’epilogo e la morale erano affidati a un prete, «Signorina, questa carrozza sarà per voi come il carro di Elia, vi porterà dritto in cielo»,[33] qui la battuta è proprio di Don Antonio-Pantalone, che riporta la celebrazione di Camilla sul palcoscenico:

Camilla, Camilla, in scena. Non perdere il tuo tempo nella cosiddetta vita reale. Tu appartieni a noi, attori, cantanti, mimi, clown, saltimbanchi. Il solo posto dove puoi trovare la tua felicità è ogni palcoscenico, ogni piattaforma, ogni pubblica piazza durante quelle due brevi ore nelle quali ti trasformi in un’altra persona. E solo allora diventi te stessa.

L’inquadratura che all’inizio del film si era soffermata su un palcoscenico a questo ritorna, il sipario si chiude e Camilla rimane sola sulla scena con lo sguardo in macchina come se si rivolgesse allo spettatore. Risolto il momento di crisi esistenziale il palcoscenico trionfa, e attraverso l’attrice si istituisce «un isomorfismo fra vita e scena, in cui il secondo termine diventa l’unica realtà possibile»:[34] tutto ritorna al teatro, come all’inizio del film e forse dal teatro non ci eravamo mai mossi.

 

3. Sentirsi vivi anche quando si recita

Magnani – circondata da un piccolo stuolo di caratteristi (tra tutti uno straordinario Don Antonio/Pantalone-Odoardo Spadaro) mobilitati per dare all’interpretazione quel tono guittesco che sottolinei il concetto di commedia della vita – diventa sintesi della recitazione, trovando una sponda nel capocomico impersonato proprio da Spadaro. Attraverso questo attore, che sembra non essere mai sceso dal palcoscenico, Renoir rappresenta il mistero dell’atto artistico, riflettendo su quei confini sfumati tra teatro e vita che saranno dominanti nei successivi French Cancan e Elena et les hommes.

La capacità di Magnani di giocare con la propria maschera, muovendosi costantemente sulla soglia tra l’arte che simula la vita e la vita che imita l’arte, è qui esaltata da Renoir che si cimenta con l’anomalo divismo dell’attrice, fondato paradossalmente sulla discesa della star nel terreno dell’espressività popolaresca, in una singolare e unica commistione di alto e basso. Il film si concentra dunque sulla performance di Magnani, sulla sua tipologia attoriale, che rispecchia emblematicamente le tensioni antidivistiche del cinema del periodo postbellico. Magnani-Camilla eccelle nella capacità di illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a una persona autentica, capace di far percepire la tridimensionalità della personaggia anche attraverso i sospiri, le pause, le battute inventate. C’è qui la Magnani della camminata impetuosa, delle posture da sciantosa, del suo splendido décolleté, delle mani sui fianchi e della sua espressività più convenzionale. C’è quando fa esplodere il grido rivolto al toreador Ramon: «fuori dai piedi burrattino che non siete altro…» o quando litiga furiosamente con Felipe mostrandoci tutta la sua «overwhelming eruption».[35]

Conserva la sua fisicità in grado di esprimere mimeticamente stati d’animo ed emozioni, come se lo schermo fosse il palcoscenico e la macchina da presa la platea adorante.

Per Catherine O’Rawe Magnani ha saputo più di altre attrici del dopoguerra valorizzare la sua espressività, il suo «istinto animalesco».[36] Nel film di Renoir recita con divertimento, malizia, leggerezza e con la sua leggendaria spontaneità, canta e balla, come faceva in teatro e nella vita privata. Recita e ride con tutto il corpo come sapeva fare lei.[37] Il corpo di Magnani-Camilla mette in scena il desiderio di essere una donna bella, contesa da uomini più o meno giovani, più o meno potenti. Per quasi tutto il film la sua è una fisicità esibita e dai suoi atteggiamenti impulsivi traspare tutta la sua umanità di donna, santa e peccatrice.[38] Ma nel momento della fine dell’illusione il corpo di Magnani, in veste di penitente e generosa donatrice, non catalizza più gli sguardi, è il viso ad essere il perno di tutto, a far trasparire l’anima di Camilla attraverso l’uso di quel primo piano che con Jandelli possiamo definire «rivoluzionario» per il suo mettere al centro il volto dell’attore, la fusione tra personaggio e personalità.

Sono le mani a costituire il vero baricentro della figura di Camilla resa da Magnani che, a detta di molti, aveva delle mani bellissime: negli sketch con Arlecchino (come quello allo specchio), quando chiama a sé l’applauso del suo pubblico e quando assume la classica posa con le braccia protese in avanti o le mani sui fianchi o sul seno. Per l’intera durata del film le mani ‘fanno’, sottolineano le azioni, prolungano il significato delle parole. «Anna che te ne importa della voce, tu parli con le mani» le dirà un giorno Eduardo.[39]

Anna Magnani, La Carrozza d’oro (1952), frame

Così come sono protagonisti anche i suoi occhi che diventano grandi, lucidi, quando si aggrappa col braccio a quegli uomini che dicono di amarla, guardano dal basso verso l’alto sognanti proiettandola verso un futuro migliore, ma il momento in cui lo sguardo di Magnani-Camilla si fa più luminoso è quando è sul palcoscenico, quello è il suo mondo. Nella risata contagiosa, in cui si cela anche l’amarezza per non comprendere ciò che la circonda, Magnani e Camilla sono poi più vicine. La risata è «un prodotto altamente culturale che sembra una regressione all’animalità»:[40] in una scena Camilla si paragona a un toro conquistando Ramon e facendo scoppiare tutti, lei compresa, in una grande risata (sarà anche il torero a paragonare Camilla a una bestia da domare). Ma Camilla ride anche del viceré quando si toglie la parrucca comprendendo che si era voluto appartare con lei solo per liberarsi di quella costrizione; ride con la bella risata piena della Magnani, e il viceré ride con lei.

L’attrice sguaina le sue armi invincibili: il sorriso e uno sguardo che non mentiva mai, quegli occhi energici che raccontano la storia della vita che hanno osservato, eloquenti anche nel silenzio. Lei che aveva fatto del suo sorriso e dell’amore per il teatro e per il cinema la sua arma di vita.

Anna Magnani, La Carrozza d’oro (1952), frameAnna Magnani, La Carrozza d’oro (1952), frame

Intervistata dal critico teatrale Luciano Lucignani, Magnani si dirà soddisfatta del lavoro fatto con Renoir e aggiungerà: «lei non mi giudicherà male se le dico che credo di avere due modi di recitare, proprio come se fossi due Anna Magnani; una quella di Roma città aperta e magari di Bellissima, e una quella de La Carrozza d’oro, la Magnani del teatro per capirci».[41] Uscito il film nelle sale, Alberto Moravia (già collaboratore di Visconti per la prima sceneggiatura) elogiò la protagonista che si rivelava, ancora una volta, la grande attrice che era, «sapida, espressiva, umana, sempre viva e impreveduta».[42] Vittorio Guerriero invece stroncò il film: «Sbagliato, falso, freddo. Così freddo da far venire i geloni al cuore».[43] I frizzi, i lazzi e gli amori impossibili della Commedia ci sono sebbene Renoir sembri aver preso il tema con la leggerezza che il genere gli imponeva; forse più interessato alle gustose scenografie, ai fondali dipinti, alla minuziosa ricostruzione d’epoca, alla tavolozza di colori; dando così l’impressione di aver trascurato l’oggetto del suo omaggio invece che affinarne la natura giocosa e sarcastica.[44] Eppure il 10 dicembre 1952 Magnani scrive una lettera in italiano a Renoir e alla moglie, di cui è diventata amica, premurandosi di comunicare loro i commenti dei critici italiani e annunciando che «…malgrado le smorfie di alcuni critici. “Troppo critici”. Il film va a gonfie vele. […] Insomma la Carrozza va a duecento all’ora».[45]

La carrozza d’oro sembra scritta per Magnani, perché coerente con la sua drammaturgia d’attrice, caratterizzata da figure femminili segnate dalla malinconia e per le quali l’amore è precluso. Magnani era in grado di dominare ogni personaggia, di arricchirla con una serie di sfumature e di accenti. La sua Camilla è una donna forte e combattiva, ostinata e testarda, ma anche sensibile e comprensiva. Lei che faceva fatica a definirsi: «chi sono io? Boh! Sono profondamente umana», a differenza di Bette Davis, che aveva dichiarato di aver sempre accettato parti in cui trovava qualche profonda «dissimiglianza» da sé, diceva: «voglio personaggi nei quali poter credere, a cui il pubblico possa credere». Magnani vede in Camilla un personaggio autentico, che la commuove e in cui rispecchiarsi. Una parte che sembra essere scritta proprio per lei, così in difficoltà nelle questioni della vita privata, ‘scomoda’ come amava definirsi, ma assolutamente a proprio agio di fronte allo sguardo di quel pubblico che non smetterà mai di ammirarla e amarla. A Renoir un giorno dirà:

“Come fa a sapere tante cose sulla mia vita privata?” Affermai che ne sapevo molto poco. “Allora – continuò – come ha potuto scrivere questo testo che narra esattamente la mia storia – quella di un’attrice che dopo non poche storie infelici si rende conto di non essere fatta per la vita privata, ma che la vera vita per lei è quella che interpreta nei suoi personaggi?”[46]

Sicuramente si trattò di una coincidenza, ma Magnani rappresenta nella sostanza l’emblema di quella «saldatura imprevista fra vissuto e finzione»[47] tipica del nuovo divismo del dopoguerra. La donna non sa separarsi dall’attrice, il passaggio continuo tra autenticità e teatralità appare possibile perché i due modi si incarnano nel corpo di Magnani che in sé accoglie e scioglie la tensione tra il suo essere creatura da palcoscenico e, allo stesso tempo, creatura del cinematografo, incarnandole entrambe come declinazione dell’Arte.

 


1 Lettera di Luchino Visconti a Anna Magnani riportata in M. Hochkofler, Anna Magnani, Milano, Bompiani, 2018 [prima ed. Bompiani 2013], p. 155. Ricordiamo che Magnani non lasciò memorie scritte né autorizzate dichiarando sempre di non sentirsi pronta a rivelarsi in un’autobiografia, inibita forse dalla potenza della sua immagine pubblica. A provarci per lei, aiutata da Luca Magnani, figlio di Anna, sarà, a più riprese, Matilde Hochkofler.

2 Collaboratori illustri furono anche Franco Zeffirelli, Alberto Moravia, Piero Tellini e Irene Brin, che diedero a questo progetto un grande valore letterario, oltre che cinematografico.

3 S. Moretti, ‘Come la censura impedì a Visconti di girare «La carrozza del Santissimo Sacramento»’, L’Indice dei libri del mese, XXX, 10, 2013.

4 Sulle pagine della Revue de Paris, il 14 giugno 1829, compare Le Carrosse du Saint-Sacrement (La Carrozza del Santissimo Sacramento), atto unico del giovane Prosper Mérimée (cfr. P. Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, trad. it. di G. Davico Bonino, Macerata, Liberilibri, 1993). Tra le brevi commedie a firma di Mérimée è sicuramente quella che arriva a riscuotere maggior successo sui palcoscenici e sulla carta stampata. La pièce, ad esclusione dell’insuccesso nel 1850 (le cronache dell’epoca raccontano che all’apparizione del vescovo in scena il pubblico abbandonò la sala fischiando), ha goduto di un interesse crescente anche grazie alla storica messinscena di Jacques Copeau, Louis Jouvet e Valentine Tessier al Théâtre du Vieux Colombier nel 1920. In seguito, ispirerà numerose riletture letterarie, musicali, teatrali e cinematografiche: dall’opera buffa Périchole di Ludovic Meilhac e Henri Halévy musicata da Jacques Offenbach (1868) sino a La carrozza d’oro, film di Jean Renoir del 1952 con Anna Magnani.

5 D. Thompson, L. Lo Bianco (a cura di), Jean Renoir, Letters, London, Faber and Faber, 1994, pp. 263-264.

6 Lettera di Jean Renoir a Jean Vilar, 21 dicembre 1968. Un’attenta analisi sul rapporto tra il testo originario e la versione cinematografica la si può leggere in M. Carcaud-Macaire, J.-M. Clerc, Pour une lecture sociocritique de l’adaptation cinématographique. Propositions méthodologiques, Montpellier, éditions du CERS, 1995, pp. 191-264.

7 La carrozza lega il suo nome e il suo ruolo al rango di una delle famiglie più in vista del Regno del XVIII secolo, la data riportata sul telaio è quella del 1766. Oggi è custodita all’ingresso di Palazzo Reale o dei Normanni (sede del Parlamento siciliano) a Palermo.

8 La carrozza d’oro (La carrosse d’or, 1952). Regia: Jean Renoír; Soggetto: liberamente ispirato a Le carrosse du Saint-Sacrement di Prosper Mérimée; Sceneggiatura: Jean Renoir, Renzo Avanzo, Giulio Macchi, Jack Kirkland e Ginette Doynel; Fotografia: Claude Renoir; Scenografia: Mario Chiari e Gianni Polidori; Musica: Antonio Vivaldi adattato da Gino Marinuzzi; Interpreti: Anna Magnani (Camilla), Duncan Lamont (il Viceré), Odoardo Spadaro (Don Antonio), Riccardo Rioli (Ramon), Paul Campbell (Felipe), Nada Fiorelli (Isabella), Georges Higgins (Martinez), Dante (Arlecchino), Rino (il dottore), Gisella Mathews (la marchesa Altamirano), Lina Marengo (la vecchia attrice), Ralph Truman (Duca di Castro), Elena Altieri (Duchessa di Castro), Renato Chiantoni (Capitan Fracassa), Giulio Tedeschi (Baldassarre), Alfredo Kolner (Florindo), Alfredo Medini (Pulcinella), i fratelli Medini (quattro bambini), John Pasetti (capitano delle guardie), William Tubbs (l’albergatore), Cecil Mathews (il barone), Fedo Keeling (il visconte), Jean Debucourt (il vescovo); Produzione: Francesco Alliata; Produttori associati: Renzo Avanzo; Durata: 103. Oggi disponibile in un Dvd della RaroVideo, restaurata nello splendore del suo originale Technicolor e accompagnata da un booklet che ne ricostruisce l’intricata vicenda produttiva, a partire dalla testimonianza del suo artefice.

9 S. Pietrini, Il mondo del teatro nel cinema, Roma, Bulzoni, 2007, p. 144.

10 Se in Teresa Venerdì Magnani non è protagonista ma ben si inserisce, e con grande ironia, tra i personaggi tratteggiati da De Sica e dagli sceneggiatori, in Risate di gioia Magnani (con Totò) rievoca il suo passato, i numeri di avanspettacolo, dando vita alle sue personagge e immaginando cosa ne sarebbe stato di lei se il cinema non l’avesse corteggiata, in Siamo donne la dimensione divistica diventa un tutt’uno con quella quotidiana e il palcoscenico si fa il luogo deputato affinché questa malìa avvenga: dopo aver ‘recitato’ la vita per le strade di Roma Magnani entra in teatro e con davanti il suo pubblico trova il suo vero ruolo, la sua autenticità di donna nella realtà della finzione teatrale, nella verità esplicitamente fittizia del ‘meraviglioso’ teatrale. All’interno del confronto tra ‘vita cioè cinema’ e ‘finzione cioè teatro’, il cinema svela la profonda finzione che lo caratterizza, mentre il teatro dimostra la vitalità dei propri artifici spettacolari che riescono a far emergere la verità; cfr. F. Prono, ‘Anna Magnani: il cinema come vita e il teatro come finzione’, L’asino di B., L’attore fra teatro e cinema, a cura di M. Pierini, XII, 14, 2008, pp. 113-116.

11 Anna Magnani in S. De Matteis, M. Lombardi, M. Somarè (a cura di), Follie del varietà, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 236.

12 In un’intervista del febbraio di quell’anno Magnani confessa: «Credevo di non esser più capace di recitare e mi sono presentata alla ribalta con un’immensa timidezza, timorosa di non saper far più quello di cui ero capace un tempo. Invece mi sono accorta che, anche se animata da un’emozione pari a quella del mio primo debutto, la mia passione per il teatro ha potuto farmi facilmente superare il primo istante di panico e ho potuto constatare con gioia che il pubblico non mi aveva dimenticata. […] Ritengo che a torto la rivista venga qualificata con l’appellativo di “teatro minore”. Non può essere affatto “minore” un teatro alla cui realizzazione occorrono doti di fantasia, di genialità, di “costruttività” estranee a qualsiasi altro genere di spettacolo. In rivista mi sento viva e completamente padrona del mio spirito, della mia personalità, dei miei mezzi di espressione. Dopo questo mio ritorno al giudizio diretto del pubblico, sono sicura di essere ancora amata dagli spettatori. E questa sicurezza varrà a spronarmi di più nel mio lavoro avvenire», in ˂https://www.archivioannamagnani.it/anna-magnani-teatro/> [accessed ottobre 2021].

13 La Settimana Incom il 28 dicembre 1953 riprese qualche momento dello spettacolo lasciando l’unico documento visivo di Magnani sul palcoscenico; un breve frammento è possibile vederlo al link: ˂https://www.youtube.com/watch?v=QG6aUX4SgAE> [accessed ottobre 2021].

14 Galdieri aveva immaginato per lei un’entrata ad effetto: nel mezzo di un quadro alla Commedia dell’arte un suono di una sirena la vedeva irrompere in scena: attrice o personaggio? È la pirandelliana figliastra dei Sei personaggi che stancatasi della fissità a cui il suo autore l’aveva confinata decide di ‘scendere’ nella vita divenendo donna da marciapiede. La realtà infrange i ritmi della Commedia dell’arte, e il personaggio rinnega sé stesso «per incominciare a vivere: pretesti stupendi per un’attrice drammatica come la Magnani» (M. Morandini in S. De Matteis, M. Lombardi, M. Somarè (a cura di), Follie del varietà, p. 237). La rivista non sarà un successo e, nonostante la sua indiscussa bravura, Chi è di scena? rappresenterà per Magnani la conclusione di un’esperienza di per sé già alle soglie della crisi del genere.

15 Cfr. L. Miccichè, ‘Siamo donne. Anna Magnani. Dalla falsa storia vera alla vera storia falsa’, Drammaturgia, 7, 2000, pp. 7-14.

16 Discorso di Jean Renor riportato in M. Hochkofler, Anna Magnani, p. 156. Si veda anche J. Renoir, La vita è cinema, Milano, Longanesi, 1978.

17 Ibidem.

18 Cfr. L. Jouvet, Le comédien désincarné, Parigi, Flammarion, 2009.

19 Cfr. P. Pavis, L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema [1996], Torino, Lindau, 2004.

20Anna Magnani in Anna Magnani canterà la tarantella dei maccheroni, Roma, 1952 in ˂https://www.archivioannamagnani.it/blog/maestro-marinuzzi-anna-magnani/> [accessed ottobre 2021].

21 Secondo Des O’Rawe il regista in questo film riporta il teatro alle sue origini popolari, alla spontaneità e all’inventiva dei comici, che si contrappongono alle fastose rappresentazioni di potere, tema a lui caro. Un teatro che con le sue maschere denunciava il potere, si pensi anche alla sequenza in cui Colombina canta di spalle al pubblico per sottolineare lo sgarbo fatto ai comici dal Toreador che con il suo ingresso ha ‘occupato’ la scena, cfr. D. O’Rawe, ‘Cinema of Masks: Commedia dell’Arte e The Golden Coach di Jean Renoir’, in D. Robb (a cura di), Clowns, Fools and Picaros: Popular Forms in Theatre, Fiction and Film, Amsterdam, Rodopi, 2007, pp. 147-161.

22 Nei due film successivi, French Cancan ed Elena et les hommes, Renoir rifletterà su altri due generi di spettacolo: il music-hall e l’operetta. Ancora una volta l’allusione al palcoscenico serve al regista per esasperare la connotazione convenzionale dei personaggi e delle storie che i film propongono.

23 C.F. Venegoni, Jean Renoir, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 102-103.

24 Cfr. S. Bernardi, ‘Rossellini, Renoir e la commedia dell’arte’, Biblioteca Teatrale, 16, 1989.

25 È proprio questo lo stile che ritroviamo in Pierrot blanc (1901-1902) in cui il soggetto dell’opera è Jean Renoir ritratto dal padre all’età di sette anni, con un costume da Pierrot.

26 Ricordiamo che Pandolfi avrebbe licenziato qualche anno dopo i sei volumi La Commedia dell’Arte, storia e testo, in cui raccolse numerosi documenti e una nutrita trattazione di vari aspetti della Commedia dell’Arte. Cfr. V. Pandolfi (a cura di), La Commedia dell’Arte, storia e testo, Firenze, Edizioni Sansoni Antiquariato, 1957.

27 In merito alla musica del film ricordiamo che su tutto domina il fascino dei componimenti di Antonio Vivaldi adattati e diretti da Gino Marinuzzi.

28 La drammaturgia dei comici dell’Arte, fluida e vitale, come ci ricorda Siro Ferrone, fu all’insegna del palcoscenico, della tempestiva registrazione della cronaca coeva e del rapimento, del remake e del meticciato di testi e di tecniche performative differenti. Come riportato anche da Roberto Tessari nel suo volume dedicato alla Commedia dell’arte, La carrozza d’oro: «irradia sulla sale cinematografiche di tutto il mondo un’immagine quanto mai suggestiva del teatro delle maschere». Si vedano, come detto, S. Ferrone, La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo), Torino, Einaudi, 2014; R. Tessari, La Commedia dell’arte. Genesi d’una società dello spettacolo, Roma-Bari, Laterza, 2013. Non possiamo poi non ricordare il fondamentale: F. Taviani, M. Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII secolo, Firenze, La Casa Usher, 2008.

29 C. Jandelli, I ruoli nel teatro italiano, Imola (BO), Cue Press, 2016, p. 20. Grazie a Goldoni infatti la ‘servetta’ cominciò a incarnare il motore dell’azione per divenire poi, nell’Ottocento, un ruolo tra i più ambiti. A partire dagli anni Quaranta del Novecento, la moderna riedizione della ‘servetta’ confluirà nella prima attrice comica-soubrette, capace di quella spiccata verve interpretativa che Magnani sicuramente padroneggiava.

30 Grazie anche ai bellissimi costumi di Maria De Matteis realizzati dalla Casa d’arte Peruzzi.

31 Cfr. B. Roberti, ‘Maschera’, in R. De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Milano-Udine, Mimesis, 2015, II, pp. 215-282.

32 Ivi, p. 246.

33 P. Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, p. 73.

34 S. Petrini, Il mondo del teatro nel cinema, Roma, Bulzoni, 2007, p. 149.

35 Cfr. F. Pitassio, ‘Popular culture, performance, persona: Anna Magnani between Rome, Open City and The Rose Tattoo’, Journal of Italian Cinema & Media Studies, 3, 2018, pp. 373-388.

36 Cfr. C. O’Rave, ‘Anna Magnani. Voice, Body, Accent’, in T. Whittaker, S. Wright (a cura di), Locating the Voice in Film: Critical Approaches and Global Practices, Oxford, Oxford University Press, 2017, pp. 157-172.

37 L’unico freno è rappresentato dalla lingua inglese. La carrozza d’oro infatti è stato girato in presa diretta in inglese e poi doppiato dalla stessa Magnani in italiano, inglese e francese. La non conoscenza della lingua, come messo in luce sempre da O’Rawe, che ha interrogato la relazione tra performance vocale e presenza scenica, soprattutto nei film in cui Magnani non recita nella sua lingua madre, era una barriera che le impediva di far emergere pienamente le emozioni che voleva esprimere.

38 Siro Ferrone nel fondamentale volume sulla Commedia dell’arte, pone l’attenzione (che trova ampio riscontro nella prima delle tre parti in cui si articola il libro) sull’importanza delle donne in scena: attrici di grande fascino, che furono spesso anche abili capocomiche di complesse formazioni teatrali (cfr. S. Ferrone, La Commedia dell’Arte).

39 Testimonianza di Eduardo inserita nel documentario di Chris Vermorcken Io sono Anna Magnani, 1979 ˂https://www.youtube.com/watch?v=aUnDxSDccTA>, minuto 1.15.26 [accessed ottobre 2021].

40 Cfr. M. Dolar, La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicanalisi, a cura di L.F. Clemente, Napoli, Orthotes, 2014.

41 L. Lucignani in M. Persica, Anna Magnani: biografia di una donna, Bologna, Odoya, 2016.

42 A. Moravia, ‘La carrozza della Magnani’, L’Europeo, 25 dicembre 1952.

43 V. Guerriero, ‘Bellissima’, Marcaurelio, 22 gennaio 1952.

44 Ciò nonostante nel 1974 Rossellini e Jean Gruault raccoglieranno l’eredità di Renoir e il suo voler vedere nella commedia dell’arte una delle forme più affascinanti della relazione biunivoca e reversibile fra la vita e il teatro tanto da scrivere una sceneggiatura inedita di quello che sarebbe dovuto diventare un film dal titolo Pulcinella, o le passioni, le corna e la morte (protagonista Michelangelo Fracanzani). Si legga il paragrafo a ciò dedicato di Bruno Roberti inserito nel più ampio ragionamento sulla maschera: Pulcinella e un inedito Rossellini, in R. De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano, pp. 244-248.

45 Anna Magnani in C. Vaccarella, L. Vaccarella (a cura di), Anna Magnani: la mia corrispondenza americana, Roma, Edizioni Interculturali, 2005, p. 13. Non è un caso che l’attrice utilizzi questa espressione. Da una foto dell’epoca la vediamo ritratta tra la carrozza del XVIII secolo e la Ferrari che acquistò all’epoca delle riprese del film. Alessi, fotografo di scena, ricorda l’arrivo sul set, vestita da Colombina, a bordo della fiammante automobile. La sua immagine in costume sarà usata per anni come pubblicità dalla casa automobilistica di Maranello.

46 J. Renoir, Anna Magnani, testimonianza presente nel booklet del DVD La carrozza d’oro, versione restaurata in HD, RaroVideo.

47 C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Venezia, Marsilio, 2007, p. 112.