Parola musicale e parola teatrale. L’oralità in Pasolini

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Assumendo come prospettiva d’indagine la musica nel cinema di Pasolini, il contributo ripercorre parte della produzione cinematografica del poeta-regista con l’obiettivo di offrire una chiave di lettura della componente musicale. Film come La ricotta (1963) e Uccellacci e uccellini (1966), oppure documentari come Appunti per un’Orestiade africana (1970), vengono dunque passati in rassegna e osservati attraverso la dialettica che le sequenze visive instaurano con la dimensione orale del regime sonoro.

Focusing on music in Pasolini’s cinema, the contribution retraces part of the film production of the poet-director with the aim of offering an interpretation of the musical component. Movies such as La ricotta (1963) and Uccellacci e uccellini (1966), or documentaries such as Appunti per un’Orestiade africana (1970), are therefore observed through the dialectic that the visual sequences establish with the oral component of the sound dimension.

1. La parola musicale

C’è un elemento di ambiguità nell’uso della musica e della vocalità musicale nel cinema di Pasolini. Come ebbe modo di dichiarare, Pasolini non era un grande esperto di musica, eppure il ruolo che il regime musicale riveste nei suoi film è decisivo, necessario, quasi fosse del tutto connaturato all’immagine stessa. Scrive infatti ne La musica del film: «le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria». È solo la fonte musicale «che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo”» a sfondare «le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita» (Pasolini 1979, pp. 114-115).

La musica è dunque una componente necessaria e dialettica dell’immagine cinematografica perché le consente di aprirsi alla vita, trasformando il suo rispecchiamento mimetico in un vero e proprio dispositivo totalizzante in grado di dare conto delle componenti noumeniche e fenomeniche del reale. È un aspetto decisivo della poetica pasoliniana che emerge chiaramente dall’uso che il regista fa, per esempio, del repertorio operistico ne La ricotta (1963) e Uccellacci e uccellini (1966). Se in Accattone (1961) e ne Il Vangelo secondo Matteo (1964) la colonna musicale seguiva uno sviluppo interamente orientato verso un’autocoscienza della realtà stessa nell’immagine – si pensi all’uso enfatico e ripetuto della Matthäus passion di Bach in Accattone o della Maurerische Trauermusik di Mozart nella scena della crocifissione del Vangelo –, con La ricotta l’opera lirica entra per la prima volta nel repertorio pasoliniano in chiave interamente dialettica, in funzione di una totalizzazione in cui ciò che l’immagine mostra assume senso proprio a partire dal suo accompagnamento sonoro. È la melodia manipolata e stilizzata di «Sempre libera degg’io» da La traviata di Verdi a commentare beffardamente la corsa tragica all’acquisto della ricotta di Stracci, e poi la scena del banchetto fino alla sua morte sulla croce ne La ricotta [fig. 1]. La ‘libertà’ di Traviata di «folleggiar di gioia in gioia» diventa quella, rovesciata, di Stracci di correre libero nella campagna romana del set del film sulla passione di Cristo. Il brano musicale, in altre parole, costruisce con il visibile dell’immagine un vero e proprio rapporto dialettico, perché ne commenta in modo contrastivo e oppositivo l’azione (il dramma della morte di Stracci) portandola a quel livello di significato che non potrebbe appartenere semplicemente al suo registro visivo.

Lo stesso smarcamento dalla ‘musicalità’ della musica sacra verso l’‘oralità’ semantica di quella lirica lo ritroviamo, sempre in funzione dialettica rispetto all’immagine, nel sottofinale di Uccellacci e uccellini, quando Totò e Ninetto, ospiti del 1° Convegno dei Dentisti Dantisti assistono all’esecuzione camuffata della Siegfrieds Rheinfahrt dalla Götterdämmerung di Wagner. Il senso ‘orale’ della Rheinfahrt di Sigfrido, rovesciato in modo grottesco, è quello del viaggio di Totò e Ninetto verso la Dämmerung wagneriana, il «crepuscolo» delle «grandi speranze» evocato dal corvo-intellettuale togliattiano nel monologo della scena precedente, sullo sfondo di un quartiere EUR che è scenografia icastica di un mondo in rovina [fig. 2].

Nuovamente, non è la dimensione melodica del sinfonismo wagneriano ad essere funzionale alla costruzione della sequenza (che non è portata a coerenza nell’immagine, come nel caso della musica di Bach in Accattone), ma il modo in cui il suo portato semantico (il viaggio di Sigfrido) interagisce dialetticamente con il vagabondare senza meta di Totò e Ninetto. La vocalità operistica è la colonna sonora dell’immagine che commenta il visibile, ma assume significato in virtù del suo registro orale e non musicale che viene messo a confronto con ciò che il visibile mostra.

È il portato tematico-formale (la libertà di Traviata, il viaggio di Sigfrido) di qualcosa di non-visibile e inesprimibile che, posto a confronto con il visibile, compone la totalità strutturale dell’immagine sonora in Pasolini, come scrive egli stesso ne Il cinema e la lingua orale attribuendo alla musica il ruolo di mero ‘dilatatore semantico’:

Le parole della Traviata, dicono, sono sciocche e ridicole, esteticamente non solo prive di valore, ma anzi quasi offensive al buon gusto: eppure ciò non conta niente. È la musica che conta, dicono. Questa affermazione sembra così piena di buon senso, e invece è completamente insensata. Chi dice questo ignora la “ambiguità” della parola poetica: l’ineliminabile contrasto in essa tra “senso” e “suono”. [...] La musica distrugge il “suono” della parola e lo sostituisce con un altro. [...] Una volta sostituitasi al suono della parola, provvede poi essa a operarne la “dilatazione semantica”: e che po’ po’ di dilatazione semantica si ha nelle parole della Traviata! [...] Le parole non sono dunque affatto ancillari, nel melodramma: sono importantissime e essenziali (Pasolini 2015, pp. 266-267).

2. La parola teatrale

La parola orale dunque, pensata dialetticamente rispetto all’immagine, è una chiave decisiva per comprende come in Pasolini si instaura il rapporto dell’immagine con il proprio registro sonoro. Un aspetto che accomuna Pasolini a Bellocchio, che negli stessi anni e sulla stessa Aria di Traviata costruisce il finale de I pugni in tasca (1965), e lo distanzia dall’uso invece autocosciente del regime operistico fatto da registi come Zurlini (si pensi all’uso dell’Aida di Verdi ne La ragazza con la valigia, 1961) e successivamente i fratelli Taviani (si pensi al Tannhäuser di Wagner ne La notte di San Lorenzo del 1982). Un tratto specificamente orale e ‘anti-musicale’ della vocalità in Pasolini che permette di comprendere il nesso tra la sua teoria del cinema e quella del teatro, che non a caso a partire dalla metà degli anni Sessanta lo porterà a trovare nella tragedia greca il referente simbolico e ideale della sua narrazione cinematografica sul presente, oltre che del suo Teatro di Parola come teorizzato nel Manifesto per un nuovo teatro (1968).

Come sottolinea Antonio Costa, in Edipo re (1967) e Medea (1969) assistiamo ad un movimento verso «un linguaggio pre-costituito, pre-esistente» grazie al quale teatro e cinema, «ciò che era stato diviso, si ricompone in conflittuale, e produttiva, unità» (Costa 1993, p. 144). Scrive Pasolini:

Facendo parlare ai miei personaggi il metalinguaggio della poesia [né naturalistica né informativa], risusciterei la poesia orale come una tecnica nuova, che non può non costringere a una serie di riflessioni: a) sulla poesia stessa, b) sulla sua destinazione (Pasolini 2015, p. 283).

L’intervento della ‘poesia orale’ tragica, l’uso poetico della parola nel cinema in rapporto con la dimensione vocale del racconto, si traduce in un ripensamento dell’ontologia stessa del suo «cinema di poesia» nella direzione del teatro. Il film per Pasolini diventa un luogo in cui far convivere «la Parola del suo teatro e il Corpo della sua teoria del cinema» (Costa 1993, p. 147). Due direttrici fino ad allora conflittuali che trovano un nesso grazie all’oralità della parola poetica, capace di veicolare le forze primigenie della realtà teatrale all’interno dell’azione cinematografica. Non è un caso che proprio in Medea Pasolini decida di destituire simbolicamente il portato musicale della parola a favore di quella orale doppiando la voce di Maria Callas e rendendola un puro volto [fig. 3]. Pasolini filma la Callas come fosse una «cantatrice muta» (cfr. Parigi 2016, pp. 281-289), attraverso un montaggio seriale di primi piani frontali e laterali del volto che, sottratto tanto allo psicologismo protomoderno del personaggio di Euripide quanto alle insorgenze preromantiche di quello di Cherubini, nelle intenzioni deve far emergere la forza antica del mito originario.

L’anno successivo a Medea, negli Appunti per un’Orestiade africana del 1970 (girato come sopralluogo in Africa per la produzione successiva, mai effettuata, di un film sull’Orestea di Eschilo) il «“poema del Terzo mondo” raggiunge l’apice di ricerca formale e l’inveramento definitivo dell’incontro tra la parola orale, la scrittura tragica e la riflessione metadocumentaria» (Mileto 2023). Pasolini gira infatti un docu-film in cui la sua presenza fisica (il film inizia con la sua immagine riflessa in una vetrina; fig. 4) e vocale (la sua voce fuori campo racconta immagini-appunti che sarebbero dovuti diventare un’opera compiuta) fanno sì che il documentario diventi «un luogo di meditazione tra sé e il mondo» (Bertozzi 2018, p. 198). La parola poetica dell’Orestea «trasforma il racconto moderno di una tragedia in un processo di auto-analisi del regista a proposito della sua stessa opera» (Mileto 2023). Al piano oggettivo e mimetico dell’immagine egli infatti contrappone quello soggettivo e orale del discorso meta-cinematografico, mescolando la parola poetica della tragedia di Eschilo con quella partecipativa del film ‘da farsi’, come scrive Pasolini nell’Appendice finale del testo che lo accompagna:

Il documentario, visivamente, sarebbe oggettivo: le sequenze del funerale sono sequenze di un funerale vero, le sequenze su una città moderna sono sequenze su una città moderna; è compito dello speaker – come nel documentario sull’India – di esprimere con chiarezza le intenzioni e le allusioni dell’Orestiade negra da farsi (Pasolini 2001, pp. 1203-1204).

In altri termini, per Pasolini è la parola dello speaker, teatrale e meta-discorsiva allo stesso tempo, a fornire senso a ciò che si vede. La parola assume nuovamente un significato integralmente semantico e orale, che esattamente come ne La ricotta e in Uccellacci e uccellini si configura in chiave letteraria, cioè rifugge da qualsiasi drammaturgia sonora per costruirne una interamente verbale. Ritorniamo dunque al Manifesto per un nuovo teatro e alla sua matrice gramsciana e idealistica, secondo cui è proprio in contrapposizione alla musica che la parola è intesa quale veicolo di un linguaggio «nazionale» e anti «cosmopolitico» (Gramsci 1975, Quaderno 23, p. 2195), che invece caratterizza tanto il medium musicale quanto quello cinematografico: «la musica» ha, in una certa misura, «sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare», e i «genii musicali» hanno avuto «quella popolarità che invece è mancata ai letterati» (Gramsci 1975, Quaderno 9, p. 1136). Perché, si chiedeva Gramsci, «la “democrazia” artistica italiana ha avuto una espressione musicale e non “letteraria”? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani? […] Ecco la ragione del “successo” internazionale del cinematografo modernamente» e prima, della musica (Gramsci, 1975, Quaderno 23, p. 2195).

La voce negata di Maria Callas, la dilatazione semantica operata dal suono sul valore verbale delle parole di Traviata o la riduzione del sinfonismo wagneriano alla sua componente drammatica, sono precisamente il modo in cui Pasolini, sulla scia di Gramsci, costruisce il senso ‘anti-cinematografico’ e ‘anti-musicale’ della sua oralità.

 

 

Bibliografia

F. Ceraolo, Opera, in R. De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, II, Milano, Mimesis, 2015, pp. 361-428.

A. Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Torino, UTET, 1993.

M. Bertozzi, Documentario come arte, Venezia, Marsilio, 2018.

A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1975.

A. Mileto, Dal teatro di parola ai “cori tragici” del cinema. La resurrezione della “poesia orale” nei documentari pasoliniani, in F. Ceraolo, A. Frattali, M.C. Provenzano (a cura di), Corpo, rito, parola. Il teatro di Pier Paolo Pasolini, Lecce, Salento University Publishing, 2023 (in corso di pubblicazione).

S. Parigi, La cantatrice muta di Pasolini, in L. Aversano e J. Pellegrini (a cura di), Mille e una Callas, Macerata, Quodlibet, 2016.

P.P. Pasolini, La musica del film, in A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979.

P.P. Pasolini, L’Atena bianca, in Id., Per il cinema, I, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, pp. 1202-1204.

P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 2015.