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L’articolo affronta la crisi dell’ut pictura poësis tra Sette e Ottocento. La messa in discussione di questo principio, che era stato il cardine della teoria Accademica, coincide con l’avvio di una riflessione sull’autonomia del linguaggio pittorico rispetto a quello verbale. L’autore, concentrandosi sulla cultura francese a cavallo tra neoclassicismo e romanticismo, dimostra come in tale riflessione il modello della musica svolga un ruolo di primaria importanza. Mentre Lessing rompe con l’ut pictura poësis, conferendo alla poesia il massimo della libertà, ma restringendo fortemente il campo di azione della pittura e della scultura, il cui unico fine sarebbe a suo avviso la rappresentazione della bellezza, alcuni autori francesi conducono una riflessione alternativa e ben più proficua sulle peculiarità linguistiche delle arti visive, emancipandole dalla loro sottomissione al modello letterario. Attraverso un percorso che parte da Roger De Piles, attraverso l’esempio emblematico di Paillot de Montabert, giunge fino a Delacroix, questo studio rivela quanto la musica, in particolare la musica strumentale, arte anti-mimetica e capace unicamente attraverso i suoi mezzi espressivi di coinvolgere potentemente il pubblico e di comunicargli idee e sentimenti, abbia innescato delle profonde riflessioni sull’autonomia espressiva del segno pittorico.

The article tackles the crisis of it pictura poesis as an aesthetic concept, which occurs between the 18th and 19 centuries. The undermining of this principle, which had been indeed the main pillar of academic theory, coincides with the beginning of a theoretical reflection on the autonomy of the pictorial language from the verbal one. By dwelling on French culture on the transition between Neoclassicism and Romanticism, the author aims to demonstrate how the musical pattern played a fundamental role in the development of such a reflection. On the one hand, Lessing refuses the principle of ut pictura poesis and acknowledges poetry as a free art, while restricting the features of painting and sculpture, considered as just aiming to represent beauty. On the other, French theoreticians foster an alternative reflection pivoting on the linguistic features of visual arts, thus freeing them from the subordination to the literary model. By means of a reconstruction starting from Roger de Piles and encompassing also Paillot de Montabert and Delacroix, the article stresses in particular the role that instrumental music as an anti-mimetic art performed in stimulating a new discussion on the autonomy of the pictorial code.

 

«La peinture ne peut atteindre la réalité une des choses, et rivaliser par là avec la littérature, qu’à condition de ne pas être littéraire»[1] – scriveva Proust nel 1904 nell’introduzione all’edizione francese della Bibbia d’Amiens di John Ruskin. Un’affermazione che rivela quanto viva fosse in lui la coscienza dell’autonomia espressiva del linguaggio visivo rispetto a quello verbale: l’arte visiva raggiunge la sua compiutezza espressiva e coglie le profonde verità solo quando non cerca di imitare la letteratura, quando è se stessa fino in fondo. Proust si pone al termine di un processo complesso e variegato che ha il suo principio nel Settecento, quando si cominciò a porre l’accento non su ciò che accomunava ma piuttosto su ciò che distingueva la parola dall’immagine. Si andò cioè a mettere in discussione il principio dell’ut pictura poësis, quale era stato elaborato e teorizzato nel corso del Cinquecento e del Seicento, quando costituiva il cardine della teoria accademica e il garante della gerarchia dei generi: l’analogia tra pittura e poesia era possibile perché entrambe soddisfacevano il loro fine più alto quando giungevano all’imitazione ideale della «natura umana in azione» per usare un’espressione di Rennselaer Wright Lee.[2] L’ut pictura poësis era stato il nucleo generatore di una vera e propria normativa artistica i cui articoli - l’imitazione, l’invenzione, l’espressione, il decorum, il docere e il delectare – erano esemplati sul modello della retorica. Nel XVIII secolo da Du Bos a Diderot fino ad arrivare a Lessing, e poi a Mendhelsson e Moritz, numerosi furono coloro che avanzarono dubbi e perplessità sull’analogia tra parola e immagine.

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Negli ultimi decenni le nuove tecnologie hanno lasciato scorgere la possibilità di suscitare emozioni superando la dimensione algida che ha spesso caratterizzato le creazioni dall’alto livello tecnologico; oggi, nei migliori esempi della scena contemporanea che se ne avvalgono, la purezza dell’immagine e del suono supera la soglia della contemplazione immobile facendosi capace di ‘muovere’ (e di com-muovere). Non si tratta di una reazione che passa attraverso il sentimento, bensì di un movimento emotivo innescato dall’appello alla sfera percettiva. Qualcosa di simile a quanto intuiva Kandinskij nello Spirituale nell’arte nel distinguere, nell’esperienza del colore, la semplice associazione visiva mnemonica dall’effetto ‘spirituale’, dove la percezione cromatica avrebbe ‘toccato’ (fatto risuonare) direttamente l’anima. Le categorie alle quali fa ricorso Kandinskij, ‘risonanza’ o vibrazione, sembrano essere rivisitate in chiave contemporanea nella creazione di Takatani.

In ST/LL l’implicazione di tecnologie avanzate non riguarda solo l’elemento più vistoso, cioè l’utilizzo di una spidercam (una camera senza limiti di direzioni nell’esplorazione dello spazio), strumento e perno della concezione drammaturgica, ma anche un complesso sistema di spazializzazione del suono e un raffinatissimo impiego della luce, capaci appunto di ‘risuonare’ nell’esperienza visiva e auditiva dello spettatore.

Takatani, fondatore a Kyoto del collettivo Dumb Type nel 1984, concepisce una scena fortemente segnata da linee orizzontali e verticali. Nell’ampio spazio del palcoscenico, la zona centrale è occupata da un importante impianto verticale: perpendicolare alla ribalta, si allunga una tavola apparecchiata; la lunga linea del tavolo prosegue idealmente nell’alto schermo verticale, bianco di luce. Colpisce lo scarto proporzionale tra gli oggetti (minuscoli, ma sin dall’inizio protagonisti nella composizione visiva) e il respiro dello spazio. Accenti cromatici completano il quadro (la trasparenza di calici e sedie, il metallo delle stoviglie, una mela rossa – unico accento di colore e solo elemento organico di questa tavola “imbandita” di assenza).

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et fait l’abîme fleurant et bleu

là-dessous.

Arthur Rimbaud

 

 

Scrive Northrop Frye che la letteratura si colloca «a metà strada tra il musicale e il visuale» alludendo alle due polarità, di visibile e udibile, presenti in modo inestricabile nella parola, e più che mai in quella poetica. Il volume di Teresa Spignoli, Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura (Pisa, ETS 2014) indaga, seguendo questa traccia, le molteplici tangenze e forme di interazione rintracciabili nell’opera del poeta con altre espressioni artistiche quali la musica e la pittura, testimoniate da collaborazioni, saggi critici e riflessioni teoriche oltre che dalla stessa produzione poetica.

Il metodo seguito dalla studiosa per tutte e tre le sezioni tematiche prescelte consiste nella creazione di un tessuto testuale densissimo di riferimenti e citazioni tratte non soltanto dall’opera ungarettiana ma anche dalla penna di intellettuali e artisti che col poeta condivisero le medesime istanze culturali, al fine di rendere sia la complessità e la varietà di tali interazioni sia la frequente circolazione di motivi comuni. Le sezioni dedicate al rapporto con la musica e la pittura sono costruite secondo un movimento che procede dal generale al particolare: dal significato e dalla definizione che esse assumono nel macrotesto ungarettiano, e dunque nella riflessione teorica, si passa poi alle declinazioni concrete che tali rapporti assumono nella prassi scrittoria del poeta.

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La conversazione restituisce ai lettori/spettatori la forte sintonia artistica fra i tre, l’idea condivisa di creazione come textum in cui si amalgamano generi artistici differenti nonché il rifiuto di indulgere a facili effetti attraverso l'esposizione di immagini macabre. «Il teatro può fare di più» – dice Baliani – «molto di più».

 

Riprese: Maria Vignolo; Montaggio audio e video: Giulio Barbagallo; Grafica e animazioni: Gaetano Tribulato

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«Se ad un musicista togli lo strumento, ciò che rimane è un danzatore: il movimento delle braccia, gli spostamenti, i gesti…tutto concorre a generare l’azione visiva di un performer»

Salvatore Romania, a proposito di Pixel

 

Tre pulsazioni, tre musicisti, tre performer posti ai vertici di due triangoli, immersi l’uno nell’altro. Questo lo sguardo inziale su Pixel, che rivela immediatamente il proprio omaggio alla perfezione simbolica del numero tre, ribadito dalle prime protagoniste sulla scena durante il buio in sala: le luci del metronomo digitale che alternano una sfera verde a due rosse. One, two, three, One, two, three, e i puntatori illuminano il palco rendendo manifesti due triangoli che s’abbracciano: nel primo figurano i danzatori Salvatore Romania, Valeria Ferrante, Claudia Bertuccelli e nel secondo i musicisti Alessandro Borgia, Salvo Amore, Michele Conti. Stop! metronomo tacet. I timpani immergono ogni cosa in un’atmosfera tribale: a tratti tellurici sovrappongono linee morbide e agili coi tak della darbuka e gli slap sul djembe, mentre i danzatori disegnano, con le loro sagome, lunghi binari nell’aria, marciando su solchi invisibili all’interno del proprio triangolo. Divorano lo spazio a ogni falcata. È pura potenza mescolata a grazia ed eleganza; i ritmi musicali, modulando di metro in metro, determinano cadenze incerte e spezzate che non risolvono.

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Negli ultimi anni l’Europa ospita sempre più frequentemente le creazioni di Saburo Teshigawara, l’artista che qualche anno fa suscitò un certo scalpore e curiosità per una sua coreografia danzata su frammenti di vetro (Glass Tooth, 2006, vista a Romeuropa Festival nel 2009). Non si trattava di un facile effetto giocato sul filo del rischio, ma della tappa di un percorso di ricerca perseguito con coerenza, nell’instancabile rimessa in questione degli esiti raggiunti. Lo dimostrano le ultime creazioni presentate nel nostro paese, in Francia (Parigi ha visto le sue coreografie danzate dall’Opéra – Darkness is hiding black horses –, nel novembre 2013, mentre a maggio il tour francese ha toccato Chaillot, La maison du Japon de Paris, La maison de la Culture, Nîmes, il Festival di Marsiglia) in Germania, con una performance, di cui diremo, alla Ruhrtriennale di Heiner Goebbels. Partecipazioni significative non solo per una semplice questione di risonanza internazionale, ma perché quasi sempre si tratta di nuove creazioni, dunque di progetti ad hoc, quando non pensati (o ri-pensati) specificamente per il luogo. E spesso inseriti in contesti aperti alle interazioni tra le arti, piuttosto che strettamente legati al mondo della danza. È questo il paesaggio in cui si inserisce anche l’iniziativa “Sculture d’aria”, un seminario previsto a Padova il 19 ottobre, durante il quale il coreografo dialogherà col pubblico, esplicitando le intime correlazioni fra materie e linguaggi diversi alla base dei suoi ‘testi’.

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La messa in scena di Terry Gilliam della Damnation de Faust di Hector Berlioz (English National Opera, 2011) costituisce l’esordio del cineasta britannico nel mondo dell’opera, la prima penetrazione nel campo melodrammatico da parte di un regista la cui poetica dalle note debordanti ha sempre costituito un terreno dai connotati profondamente affini a quelli del teatro d’opera. Siamo davanti dunque al contatto tra una delle personalità più eclettiche e barocche della recente storia del cinema e un universo estetico come quello dell’opera, per sua natura considerabile – usando le parole di Gerardo Guccini – come «una macchina teatrale gigantesca e fascinosa che costituisce il più vitale residuo dell’età barocca in età moderna». In un certo senso, la Damnation si pone inoltre come una vera e propria summa all'interno dell'itinerario registico di Gilliam, capace di travalicare le limitanti linee di confine tra un’arte e l’altra per accogliere in sé tutti i motivi ricorrenti più caratteristici del suo cinema, ponendosi in linea con la sua estetica dell’ibridazione «dove l’epica si mescola all'ironia dando vita a un melange del tutto particolare» (Francesco Liberti). Il presente articolo analizza in dettaglio la messa in scena di Gilliam, collocandola non solo nel contesto della sua filmografia, ma anche in quello del cinema degli ultimi decenni, e mettendola in dialogo con le tendenze recenti della messa in scena dell’opera in musica e del dibattito critico su di essa.

Terry Gilliam’s staging of Berlioz’s La damnation de Faust (English National Opera, 2011) constitutes the director’s first foray into the world of opera. In a sense, though, Gilliam’s excessive, over-the-top poetics has always exhibited a strong affinity with the poetics of the operatic genre. We witness, then, the coming together of one of the most eclectic and baroque personalities in the history of film and the aesthetics of a genre defined by Gerardo Guccini as «a gigantic, enthralling theatrical machine that constitutes the most vital residue of the baroque in our times». What is more, this Damnation emerges, perhaps paradoxically, as the summation of Gilliam’s directorial journey: moving beyond the boundaries separating different artistic forms and media, it highlights all the recurring motives of his films and their aesthetics of hybridization, «where epic and ironic modes mix, producing a unique mélange» (Francesco Liberti). This article analyzes in detail Gilliam’s staging of La damnation de Faust, locating it in the context not only of his filmography, but also in that of cinema of the last few decades, and putting it into dialogue with recent trends in operatic mise en scène and its lively critical debate. 

 

La Damnation de Faust di Hector Berlioz, messa in scena da Terry Gilliam nel 2011 all'English National Opera di Londra, deve parte del suo enorme interesse al suo costituirsi come esordio del cineasta britannico (o meglio, naturalizzato britannico) nel mondo dell'opera in musica, come prima penetrazione in un simile territorio artistico del regista la cui poetica dalle note debordanti ed eccessive ha sempre costituito un terreno dai connotati profondamente affini a quelli del teatro d'opera, e come contatto (da sempre atteso e finalmente avvenuto) tra una delle personalità più eclettiche, barocche e visionarie della recente storia del cinema e un universo estetico come quello dell'opera in musica, per sua natura considerabile come «una macchina teatrale gigantesca e fascinosa che costituisce il più vitale residuo dell'età barocca in età moderna» (Gerardo Guccini).[1] In un certo senso, questa Damnation si pone inoltre come una vera e propria summa all'interno dell'itinerario registico di Gilliam, un'opera capace di travalicare le limitanti linee di confine tra un'arte e l'altra per accogliere in sé tutti i Leitmotive più caratteristici del suo cinema, divenendo in questo senso un oggetto esemplare.

Per queste ragioni, ritengo che tale messa in scena meriti un'attenzione critica che ad oggi non ha ancora ricevuto, né dagli studiosi di regia d’opera né dagli esperti della cinematografia di Gilliam, la quale peraltro non ha mai goduto di una sufficiente considerazione all'interno del panorama degli studi, per lo meno in italiano. Nelle pagine che seguono articolerò il mio percorso di analisi seguendo un itinerario che parte dall'opera cinematografica del regista britannico e giunge al suo esordio nel mondo dell'opera. Inizierò con una breve panoramica sull’estetica di Gilliam, attivo fino al 2011 esclusivamente come regista cinematografico, e sui potenziali punti di contatto tra questa e l’opera di Berlioz. Seguiranno un’analisi dello spettacolo, tesa a ripercorrere l'impressionante poliedricità delle soluzioni adottate da Gilliam e dunque inevitabilmente condotta ‘scena per scena’, una considerazione della sua posizione nel contesto del dibattito contemporaneo sulla regia d’opera, e infine qualche breve cenno alla ricezione critica. Prima di iniziare ritengo tuttavia doveroso chiarire che non ho visto questa Damnation dal vivo, ma solo nel DVD prodotto dalla BBC con la regia video di Peter Maniura, peraltro corredato di una preziosa intervista a Gilliam.[2] Il pubblico italiano, invece, ha potuto assistere allo spettacolo grazie alla ripresa che nel 2012 ne ha fatto il Teatro Massimo di Palermo.[3]

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