«La peinture ne peut atteindre la réalité une des choses, et rivaliser par là avec la littérature, qu’à condition de ne pas être littéraire»[1] – scriveva Proust nel 1904 nell’introduzione all’edizione francese della Bibbia d’Amiens di John Ruskin. Un’affermazione che rivela quanto viva fosse in lui la coscienza dell’autonomia espressiva del linguaggio visivo rispetto a quello verbale: l’arte visiva raggiunge la sua compiutezza espressiva e coglie le profonde verità solo quando non cerca di imitare la letteratura, quando è se stessa fino in fondo. Proust si pone al termine di un processo complesso e variegato che ha il suo principio nel Settecento, quando si cominciò a porre l’accento non su ciò che accomunava ma piuttosto su ciò che distingueva la parola dall’immagine. Si andò cioè a mettere in discussione il principio dell’ut pictura poësis, quale era stato elaborato e teorizzato nel corso del Cinquecento e del Seicento, quando costituiva il cardine della teoria accademica e il garante della gerarchia dei generi: l’analogia tra pittura e poesia era possibile perché entrambe soddisfacevano il loro fine più alto quando giungevano all’imitazione ideale della «natura umana in azione» per usare un’espressione di Rennselaer Wright Lee.[2] L’ut pictura poësis era stato il nucleo generatore di una vera e propria normativa artistica i cui articoli - l’imitazione, l’invenzione, l’espressione, il decorum, il docere e il delectare – erano esemplati sul modello della retorica. Nel XVIII secolo da Du Bos a Diderot fino ad arrivare a Lessing, e poi a Mendhelsson e Moritz, numerosi furono coloro che avanzarono dubbi e perplessità sull’analogia tra parola e immagine.