Teresa Spignoli, Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

et fait l’abîme fleurant et bleu

là-dessous.

Arthur Rimbaud

 

 

Scrive Northrop Frye che la letteratura si colloca «a metà strada tra il musicale e il visuale» alludendo alle due polarità, di visibile e udibile, presenti in modo inestricabile nella parola, e più che mai in quella poetica. Il volume di Teresa Spignoli, Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura (Pisa, ETS 2014) indaga, seguendo questa traccia, le molteplici tangenze e forme di interazione rintracciabili nell’opera del poeta con altre espressioni artistiche quali la musica e la pittura, testimoniate da collaborazioni, saggi critici e riflessioni teoriche oltre che dalla stessa produzione poetica.

Il metodo seguito dalla studiosa per tutte e tre le sezioni tematiche prescelte consiste nella creazione di un tessuto testuale densissimo di riferimenti e citazioni tratte non soltanto dall’opera ungarettiana ma anche dalla penna di intellettuali e artisti che col poeta condivisero le medesime istanze culturali, al fine di rendere sia la complessità e la varietà di tali interazioni sia la frequente circolazione di motivi comuni. Le sezioni dedicate al rapporto con la musica e la pittura sono costruite secondo un movimento che procede dal generale al particolare: dal significato e dalla definizione che esse assumono nel macrotesto ungarettiano, e dunque nella riflessione teorica, si passa poi alle declinazioni concrete che tali rapporti assumono nella prassi scrittoria del poeta.

Così l’interesse di Ungaretti per il musicale, oggetto della prima parte del libro, si esplica, come per la pittura, su due livelli: simbolico e prosodico. Il primo attiene all’origine mitica e ancestrale del linguaggio stesso, andando a ritroso fino a quel tempo in cui la parola era ancora musica, «ritmo fisico, passo, danza battiti del cuore». L’attenzione alle «qualità acustiche della parola», di ascendenza mallarméana, «situa il ritmo – e dunque la musica – all’origine della poesia» e riunisce entrambe sotto il comune denominatore di «arti auditive» in opposizione a quelle visive, rimandando allo stesso tempo alla celebre distinzione di Lessing tra le arti del tempo e quelle dello spazio. Il secondo livello riguarda la struttura metrica dei componimenti, l’analisi delle «infinite possibilità musicali del verso», ed è oggetto di alcuni saggi quali Difesa dell’endecasillabo (1927) e Punto di mira (1924). All’ambito musicale infine rimandano frequentemente i titoli dell’autore, pensiamo a Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, Ultimi cori della Terra Promessa, Canzone, Preludio, Recitativo di Palinuro, senza dimenticare le collaborazioni con musicisti nella realizzazione di partiture musicali tratte dalle sue poesie.

La seconda sezione del volume, Tra prosa e poesia: «Un grido e Paesaggi», oltre a testimoniare la presenza di continue interferenze tra le due forme espressive, introduce il lettore nell’ambito del rapporto di Ungaretti con la visualità, che qui specificatamente ci interessa. L’autrice segue il complesso procedimento di riscrittura poetica che dalle prose di viaggio porta agli Svaghi e al Monologhetto: tramite il carteggio con Pietro Bigongiari e le carte autografe riportate nel volume possiamo comprendere l’iter attraverso cui il poeta attua «la riduzione del frammento prosastico a poesia». Ungaretti utilizza, infatti, le prose «come bacino di immagini cui attingere», per poi spogliare gradualmente i paesaggi delle loro connotazioni reali fino a trasformarli in «visioni della mente». Monologhetto, insieme al Cantetto senza parole, è sentito quale fondamentale punto di snodo poiché inaugura una diversa linea nella produzione ungarettiana «protesa» – scrive la Spignoli – «sia verso un’accentuazione della qualità fonica del dettato poetico, che verso un potenziamento della qualità visiva delle immagini».

È quest’ultima caratteristica che induce Ossola a inserire le prose, con le loro eventuali riscritture, nella categoria dell’ekphrasis. La modalità descrittiva individuata come prevalente «consiste nella resa dell’immagine paesaggistica secondo stilemi propri della composizione pittorica» ed è stata definita da Heffernan come pictorialism; in questo modo dalle cosiddette ‘prose olandesi’ a Vecchia Napoli, al reportage sul Polesine, Ungaretti «sembra ancora sostituire la penna col pennello» tramite un ispessimento linguistico che si serve soprattutto di figure quali l’analogia e la sinestesia. Il paesaggio olandese della prosa Il mare addomesticato, dai cui sono tratti i primi due Svaghi, è filtrato attraverso le suggestioni pittoriche dei grandi maestri fiamminghi, secondo quel meccanismo che Umberto Eco definisce «patto ecfrastico», un patto stabilito tra lettore e scrittore e basato sulla condivisione di esperienze culturali da parte di entrambi. Agli antipodi rispetto al procedimento ecfrastico si pongono invece componimenti come le due Acqueforti, in cui la parola «non si limita a mimare i modi della pittura ma si situa all’incrocio tra dicibile e visibile, ed acquisisce lo statuto di icona». Nell’assenza di un referente figurativo il poeta, secondo le parole di Ricœur, «suscita e modella l’immaginario per mezzo del solo gioco del linguaggio» e crea, come accade sulla lastra di metallo, i suoi paesaggi «attraverso i giochi di luci e ombre». Saltellano invece racchiude l’ekphrasis di un’opera d’arte esistente, cioè l’evocazione poetica dei mosaici di Galla Placidia.

La terza e ultima parte, «Concordi lumine maior»: intersezioni tra poesia e pittura, è suddivisa in due capitoli principali: il primo ci restituisce la figura di Ungaretti critico d’arte, le sue riflessioni sui movimenti artistici coevi, il suo ruolo nel clima culturale romano e le numerose tangenze tra la propria elaborazione poetica e la contemporanea sperimentazione pittorica; il secondo, Verba Picta, presenta al lettore una panoramica delle molte collaborazioni editoriali cui il poeta diede vita con alcuni amici pittori.

Gli assidui riferimenti testuali che costellano lo studio di Spignoli rendono in queste pagine l’idea del trascorrere di identici motivi verbali e iconici, dalla pagina alla tela e viceversa: non solo la Roma barocca e carnale di Scipione si riflette nelle poesie del Sentimento ma anche le vedute metafisiche di Savinio e De Chirico sembrano trovare un corrispettivo verbale nelle immagini che il poeta crea tramite le parole. L’«ora cieca» del deserto, «l’ora della monotonia estrema» visualizzata da Ungaretti ne La risata dello dginn Rull, e in molte delle prose dedicate al Mezzogiorno, è la stessa ora sospesa delle città dechirichiane, è «la deuzième heure» che col suo abbaglio fa cadere «il velo delle apparenze».

Giorgio De Chirico, L’enigma dell’ora, 1910, Firenze, collezione privata

Il saggio del 1933 Poesia e pittura si inserisce nel secolare dibattito sui rapporti tra le due arti: come già a proposito della musica, anche in questo caso la precedenza spetta al pittorico, considerato come «prima divinazione», segno «ancora muto» che «aspetta la parola». Successivamente, in Pittori italiani contemporanei (1950), Ungaretti definisce la pittura come «discorso scritto dalle parole profetiche», «essendo primordiale, essendo il più istantaneo nel riflettere i segreti dell’essere». La differenza tra i due medium è stabilita dunque a partire dal diverso rapporto che essi intrattengono con il loro referente oggettivo: le arti visuali, e la scultura sopra tutte, sono più vicine alla natura, al contrario – scrive nel saggio su Peikov – l’arte della parola è la più astratta in quanto «esige una metamorfosi radicale. Si tratta di contenere l’universo nelle sillabe».

La sostanziale unità nello sviluppo delle arti è confermata dallo stesso poeta che, nella Risposta all’anonimo, scrive: «i miei problemi, della mia poesia che va dal 1919 al 1927, possono essere i problemi di un Picasso o di uno Stravinski». Sono questi, infatti, gli anni del generale rappel à l’ordre, di riviste come «Ars Nova» e «Valori Plastici», in cui si inserisce anche l’evoluzione poetica che conduce dall’Allegria al Sentimento del tempo.

Giuseppe Ungaretti, La luce. Poesie, 1914-1961, con litografie di Piero Dorazio, St. Gallen, Erker Presse, 1971

Nel corso della sua vita Ungaretti realizzò un cospicuo numero di collaborazioni editoriali con artisti diversi attraverso le quali sperimentò varie possibilità di intersezione tra immagine e parola: dall’edizione d’arte al libro illustrato fino al livre de dialogue nel quale si attua un vero e proprio connubio artistico tra pittore e poeta, che può giungere fino ad «una reale interazione tra segno pittorico e linguistico» in una stessa pagina. È ciò che accade in Frammenti per la Terra Promessa, edito come sesto numero del «Concilium Lithographicum» e realizzato con Pericle Fazzini, o in La luce, frutto della sintonia con Piero Dorazio, mentre la plaquette Piccola Roma è composta dai circa 50 disegni di Orfeo Tamburi e termina con il componimento Poesia da questi “occasionato”, in Gridasti: soffoco sono i disegni di Léo Maillet che prendono vita dal testo poetico. All’ultimo ventennio della sua attività risalgono infine le collaborazioni con Fautrier, Burri e Fontana, nate dall’interesse del poeta per l’Informale, interesse che trova il proprio corrispettivo poetico nel ritorno alla tecnica frammento avvenuto nel passaggio dalla Terra Promessa al Taccuino.

Il saggio di Spignoli riesce nella non facile impresa di delineare la complessa mappa dei rapporti che a diversi livelli Ungaretti ha intrattenuto con la musica e la pittura. Ciò è reso possibile da uno studio capillare dei testi, dalla prosa alla poesia, dalle corrispondenze epistolari ai manoscritti autografi, nonché da un’attenta ricognizione degli interventi critici precedenti, che fino ad ora erano rimasti circoscritti all’analisi di ambiti più limitati.