«La profondità va nascosta. Dove? Nella superficie» scriveva Hugo von Hofmannsthal nel Libro degli amici (1922): un invito a lasciar parlare le cose da sé, da parte di un poeta alla ricerca di un linguaggio in grado di non tradire l’intensità dell’esperienza del reale. Il contesto è certo lontano, ma ripensando a ST/LL di Shiro Takatani vengono alla mente poetiche di autori che si sono confrontati con la necessità di dare forma all’inesprimibile, sul filo del rovesciamento dell’invisibile in visibile (non a caso nel paesaggio di riferimento dell’artista giapponese vi sono Mallarmé e Wittgenstein). Quasi un secolo dopo, le arti sembrano uscire da questa dicotomia e concepire un’evidenza manifesta (una ‘superficie’) del reale che è essa stessa profondità. Nel nostro caso, una scena tecnologicamente avanzata è al servizio di questo apparente paradosso.
Negli ultimi decenni le nuove tecnologie hanno lasciato scorgere la possibilità di suscitare emozioni superando la dimensione algida che ha spesso caratterizzato le creazioni dall’alto livello tecnologico; oggi, nei migliori esempi della scena contemporanea che se ne avvalgono, la purezza dell’immagine e del suono supera la soglia della contemplazione immobile facendosi capace di ‘muovere’ (e di com-muovere). Non si tratta di una reazione che passa attraverso il sentimento, bensì di un movimento emotivo innescato dall’appello alla sfera percettiva. Qualcosa di simile a quanto intuiva Kandinskij nello Spirituale nell’arte nel distinguere, nell’esperienza del colore, la semplice associazione visiva mnemonica dall’effetto ‘spirituale’, dove la percezione cromatica avrebbe ‘toccato’ (fatto risuonare) direttamente l’anima. Le categorie alle quali fa ricorso Kandinskij, ‘risonanza’ o vibrazione, sembrano essere rivisitate in chiave contemporanea nella creazione di Takatani.
In ST/LL l’implicazione di tecnologie avanzate non riguarda solo l’elemento più vistoso, cioè l’utilizzo di una spidercam (una camera senza limiti di direzioni nell’esplorazione dello spazio), strumento e perno della concezione drammaturgica, ma anche un complesso sistema di spazializzazione del suono e un raffinatissimo impiego della luce, capaci appunto di ‘risuonare’ nell’esperienza visiva e auditiva dello spettatore.
Takatani, fondatore a Kyoto del collettivo Dumb Type nel 1984, concepisce una scena fortemente segnata da linee orizzontali e verticali. Nell’ampio spazio del palcoscenico, la zona centrale è occupata da un importante impianto verticale: perpendicolare alla ribalta, si allunga una tavola apparecchiata; la lunga linea del tavolo prosegue idealmente nell’alto schermo verticale, bianco di luce. Colpisce lo scarto proporzionale tra gli oggetti (minuscoli, ma sin dall’inizio protagonisti nella composizione visiva) e il respiro dello spazio. Accenti cromatici completano il quadro (la trasparenza di calici e sedie, il metallo delle stoviglie, una mela rossa – unico accento di colore e solo elemento organico di questa tavola “imbandita” di assenza).
Più ampia rispetto al rettangolo verticale, sul piano scenico una superficie d’acqua sulla quale si riflettono tutti gli elementi; in particolare vi si specchia senza soluzione di continuità il piano di proiezione, così da costituire un unico campo visivo che accoglie al suo interno tavolo, oggetti, figure.
Dall’alto cala un oggetto tramite fili.[1] È un ‘occhio’ (la camera) che percepiamo da subito come motore di drammaturgia e presenza drammaturgica; una sorta di punto di condensazione (o punto critico di un passaggio di stato) di tutto quanto accade.
Gli oggetti immobili rivivono proiettati sullo schermo e appaiono come sovradimensionati, nel dinamismo della metamorfosi di piani, prospettive multiple, sguardi obliqui o rovesciati. Tra gli oggetti, alcuni metronomi. Il suono (la sapientissima musica è affidata a Sakamoto, Marihiko Hara, Takuya Minami), che sin dall’inizio avvolge lo spettatore, dilata ed espande ulteriormente il nostro campo percettivo; in corrispondenza del quadro iniziale rumori di stoviglie, voci, un reticolo sonoro ‘quotidiano’ ribadisce il doppio nastro su cui si muove lo spettacolo, tra gesti e oggetti familiari e loro riverbero cosmico in onde sonore e luminose.
Takatani riesce, senza banali illustrazioni, a porci di fronte l’evidenza di un tempo che si fa spazio, di uno spazio animato dall’incedere temporale. La misura sulla quale l’artista cadenza il ritmo visivo che mette in relazione oggetti reali e loro ‘animazione’ (è il movimento pluridirezionale della camera a conferire loro dinamismo) si dipana come una composizione musicale. Questo ‘occhio tecnologico’ sembra scolpire il tempo (e Tarkovskij è richiamato anche dallo specchio d’acqua, come rileva Asada Akira http://realkyoto.jp/en/review/takatani-shiros-stll/).
Entrano una alla volta tre figure femminili, vestite di nero, poi una figura maschile; come in punta di piedi sembrano glissare sullo specchio d’acqua. Successivamente i performer creeranno relazioni diverse con questo elemento, mettendone in evidenza le qualità materiali e insieme la valenza allusiva allo scorrere del tempo e all’incessante fluire delle cose.
La partitura scenica lavora su sottili corrispondenze: lo schermo rimane vuoto anticipando ciò che avviene subito dopo in scena, quando la tavola viene sparecchiata. La stessa dinamica si ripropone in altri momenti (le danzatrici lasciano lentamente cadere una posata, anticipando una serie di ‘cadute’ di oggetti nella proiezione).
Una volta scomparsi gli oggetti (e le loro immagini), la gestualità si fa più astratta, svincolata dai gesti del pranzo. Questa rarefazione ci conduce ad una visione dello spazio differente, in una dimensione onirica; l’oscurità inghiotte ogni cosa, lasciando visibile la figura di un danzatore disteso sopra al tavolo; muta anche il registro sonoro (bandoneon, rumori di stoviglie, grilli).
Ora lo spazio non è più definito dal movimento dell’occhio/camera, dagli oggetti e dai performer. Il buio lo riplasma: due piccole luci scendono e trasformano le coordinate dello spazio. Successivamente calano altre lampadine appese a fili, configurano un paesaggio in divenire che muta a seconda del loro riflesso nell’acqua e della loro intensità. La scena è accompagnata da uno struggente canto giapponese.
I corpi divengono sempre più attivi nel loro rapporto con l’ ‘occhio’, che ripropone dal suo sguardo molteplice e simultaneo innumerevoli sfaccettature del movimento; nella proiezione compaiono fili che creano volumi dinamici, entro i quali si muovono i danzatori, abitando lo spazio virtuale. Li vediamo contemporaneamente appoggiati con tutto il loro peso sulla superficie del tavolo e insieme librati senza gravità nello spazio fluido segnato dai fili (come non pensare alla grazia della Marionetta di Kleist?).
Il motivo della metamorfosi e delle infinite prospettive della visione è magnificamente incarnato dall’ombra, procedimento utilizzato per una variazione del tema proposto in apertura. Così come gli oggetti appaiono nella loro pluridimensionalità e molteplicità, così l’ombra (o il controluce) dispiegano infinite sfumature della qualità di presenza dei performer: figure di fronte allo schermo in controluce e loro riflesso sull’acqua, figure in ombra dietro lo schermo e riflesso delle ombre sull’acqua, figure in controluce che proiettano la loro ombra, figure in controluce che si sovrappongono a ombre di altre figure dietro lo schermo, corpi reali in luce… lo spettatore è trascinato in una vertigine visiva e ritmica di rara bellezza.
Solo apparentemente ST/LL accosta ‘visioni’ slegate. Il disegno drammaturgico è un percorso circolare. Ce ne rendiamo conto quando sullo schermo, davanti alla tre figure, appaiono in movimenti rallentatissimi oggetti che ci riportano alla scena d’esordio: posate, oggetti, libri, un orologio, una sedia, una bottiglia, calici… volteggiano, cadono o si rompono. Colpisce l’immagine di un piatto che oscilla, rimbalza mostrando il cerchio rilucente e la sua ombra.
Sul luogo dell’anima delle cose, dove si incontrano animato e inanimato, sembra chiudersi questo cerchio. Ne è conferma l’ultima parte dello spettacolo, dove gli oggetti lasciano spazio a immagini atmosferiche: cieli e nuvole in movimento, schiarite e obnubilamenti. Entra sullo schermo da sinistra la curva di una forma in ombra; scattano molteplici associazioni: un bulbo oculare, ma anche l’occhio che si libra verso l’infinito di Redon, o una roccia liscia sull’acqua in un paesaggio orientale; una presenza che lascia presagire qualcosa. La figura presente in scena avanza pacatamente verso l’immagine mentre la forma in ombra si appropria dello spazio luminoso dello schermo: si compone fluidamente l’immagine di un’eclissi. Ricorda l’ombra del calice “in caduta” visto poco prima, il piatto e la sua ombra: ancora le forme “microscopiche” degli oggetti risuonano in quelle del macrocosmo.
Questa sinfonia visiva si chiude sull’immagine proiettata del mare, che si congiunge alla superficie d’acqua reale; una danzatrice china tocca l’acqua e sembra di nuovo rammentare la fluidità di tempo e spazio.[2]
Rientrano le figure, esattamente nella posizione che avevano assunto nella scena iniziale, in controluce in riva al mare e non più nella ‘stanza’, i loro profili si stagliano immobili nella luce atmosferica della scena: hanno assorbito la quiete delle cose. Le ‘cose’, immerse nella luce fredda della proiezione, hanno assunto il respiro dell’organico.
Shiro Takatani ST/LL
Regia Shiro Takatani
Con Yuko Hirai, Mayu Tsuruta, Misako Yabuuchi, Olivier Balzarini
Musica Ryuichi Sakamoto, Marihiko Hara, Takuya Minami
Luci Yukiko Yoshimoto
Creazione multimediale Ken Furudate
Testo Alfred Birnbaum (traduzione Italiana: Daniela Shalom Vagata) Voce Mario Vattani
Direttore di palcoscenico Nobuaki Oshika Direttore tecnico Thomas Leblanc
Tecnico suono Corentin Vigot Tecnico palcoscenico Aiko Harima
Assistente multimediale Ryo Shiraki
Foto © Yoshikazu Inoue
Produzione Dumb Type Office, in coproduzione con Le Volcan – Scène Nationale Du Havre (Francia), Biwako Hall - Center For The Performing Arts Shiga (Giappone), Fondazione Campania Dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia Produzione Touring Epidemic - Richard Castelli (assistito da Chara Skiadelli, Florence Berthaud, Claire Dugot)
Napoliteatrofestival Napoli, Teatro Politeama, 20 Giugno 2016
1 Nelle versioni precedenti a quella presentata a Napoli la camera non è visibile in scena, bensì collocata in graticcia (ringrazio Enrico Pitozzi per l’informazione). Questa variante sposta diverse questioni dello spettacolo, a nostro avviso a vantaggio dell’interazione tra questo ‘sguardo’ e i performer.
2 Sulla linea di questi motivi il progetto che sarà esposto al Macro di Roma dal prossimo ottobre, 3D Water Matrix - ST/LL, http://romaeuropa.net/digitalife-2016/3d-water-matrix-stll/