Salvatore Sciarrino – Anagoor, Il Paradiso di Dante

di

     

Le Musiche per il Paradiso di Dante composte da Salvatore Sciarrino nascono nel 1993 per un progetto firmato da Federico Tiezzi per il Ravenna Festival, come tentata fusione di musica e poesia. Quarant’anni più tardi, le tre parti del poema sonoro di Sciarrino vengono eseguite a Padova, nel Palazzo della Ragione, dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius, in artistica collaborazione con la performance di Anagoor. Quella di Sciarrino si presenta come un’opera tripartita, in cui l’affresco centrale, L’invenzione della trasparenza, viene anticipato da un prologo, Alfabeto oscuro, e chiuso da un epilogo, Postille. «Musica ambiente», è stata definita dall’autore, «stilizzata a porgere gli spunti che il verso tace e richiama» (Intervista a cura di S. Nardelli, ‘Nel vuoto del Paradiso’, Il Giornale della Musica, 13 settembre 2021). La prima sezione, un vero alfabeto altro, rappresenta lo sforzo di dare voce all’inesprimibile, l’assenza della parola che gli strumenti tentano vanamente di emulare (‘come parlando’ è l’indicazione in partitura). La seconda, con le sue infinite figurazioni sonore, tenta di restituire la suggestione dell’ascensione di Dante attraverso i nove cieli concentrici del Paradiso: «com’io trascenda esti corpi levi». Nella terza si va verso l’indicibile, nell’ultimo slancio che, oltre la ‘candida rosa’ dei beati, ci porta alla grande scommessa dantesca, intravedere il volto di Dio.

ph. Giulio Favotto

Intorno a questo evento musicale, si intreccia e si attua la performance di Anagoor, severa e ineffabile. Qualcosa, è vero, può essere raccontato: non molto. Perché l’evento spettacolare non rappresenta, rimette in vita l’esperienza dantesca. Racchiuso nel recinto sonoro che Simone Derai e Mauro Martinuz hanno creato, il pubblico viene sottoposto a un’operazione sinestetica e filosofica estrema e crudele. Nella prima parte dello spettacolo, Dante e Virgilio (Ferole Stebane Dongmo Noumedem e Marco Menegoni), recitando il I canto del Paradiso in italiano e in francese, attuano in scena un rito apollineo, nel sacro scambiarsi delle fronde di alloro che costituirà l’unica azione performativa dello spettacolo. Il Virgilio di Marco Menegoni adombra e incarna Apollo, come suggerisce la terzina chiave (Paradiso, I, vv. 19-21) – radice della performance – in cui Dante chiede al dio della poesia l’estrema ispirazione di entrargli dentro, di far esplodere i suoi limiti umani come è avvenuto per la pelle lacerata del satiro Marsia, di renderlo infinito, capace di accogliere ed esprimere l’esperienza mistica, il dolore e la poesia. Dopo questa unica azione, lo spettacolo si svuota di qualsiasi movimento. Del resto, la grande sala del Palazzo della Ragione è stracolma di immagini, ed aggiungerne altre sarebbe stato ridondante; mentre proprio iconoclasta, e dichiaratamente, è stato qui l’intento di Anagoor. La performance si articola, invece, in parole: voci registrate che in lingue diverse sussurrano e comunicano brani di Simone Weil (secondo la suggestione del saggio di Filippo La Porta, Il bene e gli altri, che ha influenzato la scelta di Derai), attraverso la quale è Dante a parlare.

La Weil risulta insieme uno schermo ed una via privilegiata di accesso a Dante: ci sono coincidenze e consonanze che alludono al pensiero mistico del poeta, concetti quali, ad esempio, ‘la pesantezza del male’, oppure il ‘desiderare a vuoto’, che fungono da chiavi interpretative funzionali, sebbene inattese, per insinuarsi nel Paradiso e nella camera di lavoro dell’autore. Il cortocircuito tra Dante e Simone Weil avviene soprattutto sul terreno dell’etica, in quella che è l’idea germinale del poema dantesco, ovvero che il male nasce da un uso perverso dell’immaginazione, quella particolare disposizione che la filosofa Iris Murdoch classifica come fantasy (immaginazione menzognera, irreale) contrapposta a imagination, immaginazione virtuosa e capace di riconoscere e correttamente considerare l’essere che è altro da sé. Simone Weil sostiene appunto che «è bene ciò che dà maggiore realtà all’altro, male ciò che gliela toglie» (S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano, Bompiani, 2002, p. 27). Si può dare realtà in assenza di immagini? Si può conferirla in assenza di corpi? Anagoor dimostra di sì. Si realizza qui un teatro dell’assenza fisica, abitato da un protagonista invisibile, la voce, conformato con ogni evidenza sul celebre ‘principio audiotattile’ di Vincenzo Caporaletti, secondo il quale si verifica, utilizzando musica in scena in assenza di azione e di parola, una vera e propria «adesione somatico-comportamentistica alla quale il materiale musicale si configura e organizza in uno specifico senso linguistico-formale» (V. Caporaletti, Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili. Un paradigma per il mondo contemporaneo, Roma, Aracne, 2019, p. 106). Ogni verso, ogni singola parola recitata, sembra, grazie alla restituzione compiuta tramite i supporti meccanici, allungarsi e riverberare, per dar luogo ad effetti di suono che si pongono al contempo come un caleidoscopio di senso, capaci di chiarire ed insieme ‘manomettere’ il pensiero della Weil e la poesia di Dante. Attraverso la mediazione degli amplificatori, dei microfoni, le voci si fanno totali: allo stesso tempo mezzi tecnici e strumenti, affrancano i performer del loro corpo. Non a caso Marco Menegoni e Ferole Stebane giacciono per tutto il tempo distesi, completamente abbandonati, ai piedi dei trasmettitori che si incaricano, proprio per l’invisibilità della sorgente, di attuare la mistica e l’alta filosofia che innervano lo spettacolo. E il pubblico, seduto in cerchio come avveniva nelle origini rituali del teatro, impegnato a sostenere col silenzio e l’attenzione lo sforzo della trasmissione, riceve il messaggio da un ‘di dentro’, i mezzi meccanici che lanciano nel silenzio le parole, gli strumenti che rendono vivi i suoni musicali, a un altro: il cuore, la mente, qualunque area dell’interiorità riteniamo adeguata ad aprirsi ad un simile messaggio.

Il sublime balbettio e lo stridere e il trillare dell’orchestra sostengono e motivano le mille lingue e le mille parole della scatola sonora costruita da Anagoor: una babele struggente, indecifrabile e incomprensibile, perché «non eran da ciò le proprie penne». Eppure, segretamente, questo Paradiso algido e deserto è l’esperienza più dantesca che potesse esserci riservata. Il Paradiso, lo sappiamo, quel giorno del viaggio, era effettivamente vuoto, fatta salva la sacra rappresentazione che le anime inscenarono per accogliere il pellegrino. Lo abitavano parole in molte lingue, e luce («due forze regnano sull’universo, luce e pesantezza», secondo la Weil (S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano, Bompiani, 2002, p. 35), e musica. Nella performance di Anagoor avviene quasi la stessa cosa: chi parla e chi ascolta sono lontani in prossemica, ma vicini in tecnologia. Non si compiono gesti che accompagnino l’attraversamento dantesco, né che impieghino una qualche mimesi per raffigurarlo. Senza azione e senza immagine, lo spettacolo risolve in parole e musica l’umana inadeguatezza rarefacendo, e insieme ribadendo, l’irriducibile presenza della poesia.

 

5 Settembre 2021, Salone del Palazzo della Ragione (Padova)

Orchestra di Padova e del Veneto; Direttore Marco Angius; Flauto Andrea Biagini; Violino Lorenzo Gentili Tedeschi; Viola e viola d’amore Garth Knox; Testi Dante Aligheri, Simone Weil; Adattamento Simone Derai; Recinto d’ascolto a cura di Mauro Martinuz, Simone Derai, con Ferole Stebane Dongmo Noumedem, Marco Menegoni; Voci Marco Menegoni, Gayanè Movsisyan, Simone Thoma, Monica Tonietto, Ferole Stebane Dongmo Noumedem, Eliza Oanca, Ben Jance IV, Giulio Gasparin, Nadege Noumedem, Iva Coku, Rocco Valenti.