Anagoor riparte da Rivelazione, da quel cartiglio bianco, puro geroglifico traslucido, tratto dal Fregio oracolare o delle Arti di Casa Giorgione, che nel 2009 – con la conclusiva citazione «Si prudens esse cupis in futura prospectum intende» – lasciava presagire un possibile recupero dell’incongruente scrittura della Storia. Ora quella pietra di luce prende nuovamente a vibrare, pulsando di un bianco opalescente tra altri tre schermi lapidei, che la regia di Derai sceglie quali oggettivazioni di labirintiche configurazioni traumatiche. Ideato come un’insostenibile catabasi distrofica e linguistica, Germania. Römischer Komplex (UA) – spettacolo prodotto dal Theater and der Ruhr – trascina lo spettatore tra perigliosi intrecci discorsivi, dispiegando ancora una volta le coordinate cronotopiche di odiose pianificazioni di annientamento. E sull’antico aedo Marco Menegoni – attore feticcio del tragico universo anagooriano, condannato ad un inesausto peregrinaggio ontologico sul limite ermeneutico della rappresentazione e dei suoi indecifrabili segni – Derai sovrascrive ora tutti i suoi didaskaloi – dal pensieroso Marescalchi di Socrate il Sopravvisuuto (2016) all’umanissimo Didaskalos/aggelos dell’Orestea (2018) – secondo un’operazione drammaturgica pervasiva che fa riemergere Menegoni dai crematori dei Sonderkommando di Lingua Imperii (2012), per confondersi con quel Virgilio trasognato che in Virgilio Brucia nel 2014 svelava il perturbante dolore di una scrittura soggiogata al potere.

Consapevole dell’immaginario iconografico legato alla potenza ecfrastica della parola, Menegoni imprigiona nuovamente lo spettatore nel tempo dell’effrazione linguistica della visione, per raccontare dell’invenzione dello straniero, questa volta individuato nel popolo dei Germani, maledetto dal Tacito degli Annales. L’evocazione paurosa di una «razza d’uomini d’animali smisuratamente bestiale, vomitata fuori dal fango e dall’ombra delle querce»[1] terrorizza adesso una Roma molle e civilizzata, sconvolta innanzi alla strage delle proprie legioni, guidate dal virtuoso Varo. Intorno al ricordo della carneficina colonialista Tacito/Menegoni convoca «un corteo furioso di vivi e morti che dà fuoco alla foresta, con teschi inchiodati ai tronchi»[2] all’interno di una costellazione di immagini-sintomo che luccicano con survivance warburghiana. E così, mentre le onde del gelido mare del Nord si confondono con quella tempesta capricciosa dell’Egeo che in Orestea non permetteva ad Agamennone di salpare, negli schermi video si raddensa l’azzurro pastellato della già nota domus augustea che in Virgilio Brucia – secondo il principio della latenza individuato da Didi-Huberman per i marmi nella Madonna del Beato Angelico – accoglieva il naufragio infigurabile dell’olocausto di Troia.

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Le Musiche per il Paradiso di Dante composte da Salvatore Sciarrino nascono nel 1993 per un progetto firmato da Federico Tiezzi per il Ravenna Festival, come tentata fusione di musica e poesia. Quarant’anni più tardi, le tre parti del poema sonoro di Sciarrino vengono eseguite a Padova, nel Palazzo della Ragione, dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius, in artistica collaborazione con la performance di Anagoor. Quella di Sciarrino si presenta come un’opera tripartita, in cui l’affresco centrale, L’invenzione della trasparenza, viene anticipato da un prologo, Alfabeto oscuro, e chiuso da un epilogo, Postille. «Musica ambiente», è stata definita dall’autore, «stilizzata a porgere gli spunti che il verso tace e richiama» (Intervista a cura di S. Nardelli, ‘Nel vuoto del Paradiso’, Il Giornale della Musica, 13 settembre 2021). La prima sezione, un vero alfabeto altro, rappresenta lo sforzo di dare voce all’inesprimibile, l’assenza della parola che gli strumenti tentano vanamente di emulare (‘come parlando’ è l’indicazione in partitura). La seconda, con le sue infinite figurazioni sonore, tenta di restituire la suggestione dell’ascensione di Dante attraverso i nove cieli concentrici del Paradiso: «com’io trascenda esti corpi levi». Nella terza si va verso l’indicibile, nell’ultimo slancio che, oltre la ‘candida rosa’ dei beati, ci porta alla grande scommessa dantesca, intravedere il volto di Dio.

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Visto di recente al Teatro India di Roma e datato 2009, Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione di Anagoor è uno spettacolo che la compagnia veneta di Simone Derai sceglie di portare in tournée in questi mesi accanto al pluripremiato Virgilio brucia e al più recente Socrate il sopravvissuto / come le foglie. Criptico e frammentario, a distanza di tempo esso rivela come la questione sul potere costruttivo e distruttivo dei simboli sia un’ossessione che attraversa da tempo l’intera produzione di Anagoor, la cui iconoclastia filosofica restituisce l’ambivalenza dolorosa del linguaggio, portato in scena sia come evento capace di dar senso alla vita e all’essere-nel-modo del soggetto, sia come atto di violenta espropriazione di senso, di rapina, di infrazione della catena del significante.

Lo spazio nudo e nero del dispositivo scenico, abitato unicamente da due semplici microfoni, un leggio con qualche piccolo libro riposto con cura e due superfici rettangolari a cristalli liquidi non molto grandi – calate ad uguale altezza dalla graticcia – lascerebbero in un primo momento intendere la semplicità sottesa all’evento. Ideato in parte secondo le giovanili influenze sul gruppo del Teatro Settimo di Torino, Rivelazione si presenta ambiguamente come una colta lezione-dibattito sull’arte e la poesia di Giorgione, rivoluzionario pittore veneziano del XVI. Un mito, quello del noto artista cinquecentesco, come annuncia la voce narrante di Marco Menegoni (unico attore presente in scena), la cui biografia rimane celata nella leggenda, alla stregua di quel misticismo esoterico che s’insinua nella sua produzione. Da qui la proposta di un accostamento trasversale alla sua opera (drammaturgia di Laura Curino e Simone Derai), con l’adozione di uno sguardo ‘diagonale’, il medesimo che permette alle Pleiadi – come si legge nel foglio di sala – di esser colte nella loro intera bellezza.

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L'italiano è ladro | una transizione imperfetta ha debuttato lunedì 2 maggio 2016 nell'ambito della rassegna Stanze. Teatro in appartamento, alla Casa della memoria a Milano. Sarà ospite all’Operaestate Festival Veneto il 3 settembre a Bassano del Grappa e a Short Theatre il 16 settembre 2016 a Roma.

La compagnia Anagoor, sempre attenta nelle sue creazioni all'indagine sulla lingua e alle molteplici rifrazioni del passato nel presente (si pensi a Lingua Imperii ma anche al più recente Virgilio Brucia), solca le impervie vie della poesia pasoliniana con una nuova produzione. La scelta ricade non a caso sull'Italiano è ladro di Pier Paolo Pasolini: un poemetto plurilingue, dalla marcata connotazione politica, a cui Pasolini lavora durante la fervida e per certi aspetti controversa stagione degli anni Cinquanta.

Lisa Gasparotto: Un po' per caso, qualche tempo fa, mi hai chiesto di consigliarti una lettura pasoliniana: ti ho subito suggerito L'italiano è ladro, un testo poco noto ma cruciale, secondo me, nell'ambito dell'esperienza letteraria ma anche politica e umana di Pasolini. Tu hai così scelto senza esitazione di accogliere quella proposta, realizzando il 2 novembre 2015 una prima mise en espace, con pochi amici ad assistere: «per ricordare», hai detto. In quella prima occasione la scelta fu quella di portare sulla scena la lettura integrale della cosiddetta Redazione Falqui, la redazione più lunga del testo (accessibile al lettore perché pubblicata postuma nel Meridiano Mondadori), e un mio intervento critico, per accompagnare e mediare quindi l’ascolto di questi versi. A te e a tutti noi (ma anche al pubblico amico presente) è parso subito evidente si potesse iniziare a lavorare a una lettura scenica. E così è stato. D'altro canto la struttura teatrale e drammaturgica dell'Italiano è ladro, sebbene nel non-finito, è piuttosto marcata. Cosa dunque ti ha colpito inizialmente di questo testo? Forse la matrice tragica dei cori o quel pianto, corale e quindi ancestrale, delle madri? O invece, la riflessione pasoliniana sulla lingua, quella lingua del potere e del dolore su cui anche voi vi soffermate nelle vostre creazioni?

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Le frecce vengon giù a dirotto, questo il racconto,

come scrosci di pioggia durante un temporale.

W.G. Sebald, Le Alpi nel mare (2011)

Uno spettacolo che si snoda al tempo del battito di un cuore ferito (il cuore della vittima) da una voce-dardo (il cacciatore-carnefice). Di notevole bellezza e intelligenza, L.I. | Lingua Imperii di ANAGOOR, gruppo emergente della scena italiana, è andato in scena al Teatro dell’Elfo di Milano dal 14 al 19 gennaio, e sarà in tournée al Teatro Rossini di Pesaro (31 gennaio) e al Teatro Comunale di Bolzano (14 marzo). Come già nelle precedenti produzioni – Tempesta (segnalato al Premio Scenario nel 2009), Fortuny, Et manchi pietà, *jeug- –, il lavoro di ricerca e di indagine di Anagoor approda in creazioni che mescolano la tradizione classica con le forme del contemporaneo (danza, musica, video installazioni), sempre indagando temi di grande respiro.

L.I. | Lingua Imperii (vincitore del premio Jurislav Korenić per la regia – di Simone Derai – al GRAND-PRIX del 53mo Festival MESS di Sarajevo nel 2013) è un coro tragico, in cui la parola e il gesto, il canto e la musica, sono funzionali a una riflessione sul rapporto tra lingua e potere. La lingua dell’impero intesa come dominio coercitivo (e viene in mente Lingua Tertii Imperii, 1947, del filologo e francesista Victor Klemperer); ma anche lingua in quanto linguaggio della violenza, e infine impossibilità della parola stessa, voce-muta, arresa di fronte alla violenza del dominatore. Tutta l’azione drammatica ruota così attorno ai concetti di vittima e di sacrificio (e qui si pensa a La violenza e il sacro, 1980, di René Girard).

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