Rivelazione o del desiderio svelato. Le sette meditazioni intorno a Giorgione di Anagoor

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Visto di recente al Teatro India di Roma e datato 2009, Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione di Anagoor è uno spettacolo che la compagnia veneta di Simone Derai sceglie di portare in tournée in questi mesi accanto al pluripremiato Virgilio brucia e al più recente Socrate il sopravvissuto / come le foglie. Criptico e frammentario, a distanza di tempo esso rivela come la questione sul potere costruttivo e distruttivo dei simboli sia un’ossessione che attraversa da tempo l’intera produzione di Anagoor, la cui iconoclastia filosofica restituisce l’ambivalenza dolorosa del linguaggio, portato in scena sia come evento capace di dar senso alla vita e all’essere-nel-modo del soggetto, sia come atto di violenta espropriazione di senso, di rapina, di infrazione della catena del significante.

Lo spazio nudo e nero del dispositivo scenico, abitato unicamente da due semplici microfoni, un leggio con qualche piccolo libro riposto con cura e due superfici rettangolari a cristalli liquidi non molto grandi – calate ad uguale altezza dalla graticcia – lascerebbero in un primo momento intendere la semplicità sottesa all’evento. Ideato in parte secondo le giovanili influenze sul gruppo del Teatro Settimo di Torino, Rivelazione si presenta ambiguamente come una colta lezione-dibattito sull’arte e la poesia di Giorgione, rivoluzionario pittore veneziano del XVI. Un mito, quello del noto artista cinquecentesco, come annuncia la voce narrante di Marco Menegoni (unico attore presente in scena), la cui biografia rimane celata nella leggenda, alla stregua di quel misticismo esoterico che s’insinua nella sua produzione. Da qui la proposta di un accostamento trasversale alla sua opera (drammaturgia di Laura Curino e Simone Derai), con l’adozione di uno sguardo ‘diagonale’, il medesimo che permette alle Pleiadi – come si legge nel foglio di sala – di esser colte nella loro intera bellezza.

Fin da subito, tuttavia, la composta premessa filologica rivolta agli spettatori – quasi un’apollinea assicurazione sul percorso sotteso alla presunta lettura scenica – si frange sui primi particolari: l’assenza di committenze papali, la mancanza di firme autografe, l’oscurità simbolica che serpeggia nei suoi capolavori, ad oggi ancora non circoscritti precisamente nel numero, alcuni enigmatici dettagli autobiografici alludono all’incombere di un sinistro cammino nel rimosso, attraversando le regioni del bisogno, della domanda e del desiderio dell’essere umano.

L’avvio è affidato all’evocazione di nebbie antiche, varchi temporali attraverso i quali condurre lo spettatore in medias res, restituendogli i particolari incombenti della statua di Augusto Benvenuti ispirata al genio del veneziano, «una cofana di capelli di pietra in testa… uno spolverino che gli pesa addosso come cemento tombale». L’invito è quello d’abbandonarsi alla vivida sinestesia delle immagini – complice l’evocativo sound design di Mauro Martinuz – perché con tutta quella nebbia «non si vede nulla e occorre orientarsi con le orecchie e gli odori», tra miasmi di concerie, echi di danze lontane, odore di laguna e profumi di speziali. Nell’ekphrasis avvolgente affidata alla conturbante narrazione di Menegoni prende lenta a raddensarsi l’immagine di una Venezia superba ed arrogante, che «trasudava lusso e lo spendeva in incontri, banchetti, feste» per celar la paura di un secolo che andava morendo tra sinistri presagi di peste. La corsa frenetica tra le calli di una gioventù maleducata si perde nei riverberi lattiginosi di un Canal Grande misteriosamente gelato e scema, infine, tra i bordelli malati di una Venezia morente.

[…] morbo castellano, morbus gallicus, morbus Sanctae Reginae, morbus Sancti Jobi, morbus Sancti Rochi, mulo epidemico, peste marranica, vaiolo ispanico… sifilide. Chiamala come vuoi ma si porta via tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento non solo le teste matte, ma anche la meglio generazione degli intellettuali dell’epoca: Poliziano, Pico della Mirandola, Ermolao Bàrbaro.

Ed è tra i fumi di roghi e l’odor di calce viva che si rivela la Prima Meditazione. Silenzio, la cui epifania luminosa, ritagliata negli schermi mediali, va ad inscenare un dittico virtuale, dando avvio – da qui alla fine dello spettacolo – ad una fruizione inversa dell’opera d’arte, la cui esteriorità frantumata afferra lo spettatore, toccandolo ed implicandolo a se stessa. A ricordare per primi che il soggetto esiste al mondo come oggetto dello sguardo dell’Altro sono i dettagli della Madonna col Bambino tra San Francesco e San Nicasio i cui ritagli di volti, occhi, dita – proposti in un continuo glissement semantico e visivo (video di Simone Derai e Moreno Callegari) – si fanno subito reminiscenza proustiana, con un’immagine mariana eletta a madeleine eretica su cui declinare ricordi adolescenziali e inattesi innamoramenti. Un volto santo, di donna, sul quale il regista sovrascrive la storia di Caterina Cornaro, ‘regina sreginata’, affidando a Marco Menegoni la rivelazione della dolorosa committenza sottesa all’opera.

Ed è il momento in cui si schiudono le prime ferite. Il corpo morcelée della Madonna – punto d’impatto, nel suo disfarsi, tra la vita e la morte – si fa eternizzazione del desiderio d’infinito di un padre: Tuzio Costanzo, privato del bel figlio Matteo dalla guerra del Casentino contro Firenze. Scopertosi demente assassino per aver mandato il bel figliolo in battaglia, egli invocò Giorgione affinché gli donasse un simbolo, un ‘sigillo’, un’immagine magica, una Pietà maschia che trattenesse ancora un po’, tra i vivi, l’anima amata. «Dammi una pittura che lo vegli e che la notte gli faccia compagnia… E Giorgione glielo fa il dipinto. O forse già lo aveva tra i sui teli», commenta sospeso Marco Menegoni. «Tela per sepolcro. Straccio e strazio avvolti. Sudario per il padre prima che per quel figlio morto», con una Madonna il cui sguardo è già deposto ai piedi della croce, pietrificato in una ghirlanda di morte che incatena nel silenzio la madre beata, il figlio santo e il bel Matteo, «morto a vent’anni, dipinto sotto la sua inutile avventura».

 ANAGOOR. Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione. Foto Andrea Pizzalis

Comprendiamo presto che i ritratti di Anagoor non sono allora la pudica condivisione di una ricerca storica, ma stazioni di una Via crucis di immonda bellezza, dispiegate sulla pulsione di perdita immanente del desiderio. È questa forse l’arcana Rivelazione celata nel titolo dello spettacolo, in cui la colta regia di Simone Derai inscrive le pulsioni scopiche dello spettatore, per esporlo in ultimo alla perdita di se stesso. E se la Seconda Meditazione sfiora la questione ultima sulla natura umana («Solo l’uomo ha la punta del cuore non in mezzo al petto, ma a sinistra… Lui solo balbetta e solo sulle sue cicatrici non nascono peli… E la felicità consiste innanzitutto nella durevole salute, unita alla bellezza del corpo»), è con la Venere Dormiente che si disvela il dispositivo della passione amorosa. Certo, in un tempo lontano – ricorda beffardo Menegoni – la donna nuda e sdraiata «era un dipinto di nozze. Un rivoluzionario dono di matrimonio», volto a stimolare la procreazione sul talamo degli sposi. L’esposizione frammentata della Venus, pulsante nella sua estenuata ostensione, si mostra tuttavia, in ultimo, come bordatura del vuoto della morte. Il corpo sinuoso, il seno sinistro sollevato verso lo sfondo a esaltare la plasticità tutta della figura, la mano pudicamente appoggiata a celare il morbido sesso rivelano il carattere feticistico dell’immagine, il suo essere velo posto sull’abisso dell’irrappresentabile. Gli occhi chiusi («Dorme o è morta?» s’interroga incredulo Menegoni) restituiscono la folgore del limite, complice quel tronco mozzato che si nasconde sulla collina, poco sopra il tenero inguine: non è dato sapere se il rinvio sia alla castrazione celata o alla forclusione paterna. Alla stregua di una maligna «grandinata sul letto nuziale», ella giace immobile, costeggiando il perimetro incandescente del reale, come Lucifero, la stella del tramonto «che addormenta e confonde», preannunciando l’avvento dell’Anticristo. O come mantide religiosa, nella cui geometria sfuggente delle membra predisposte al piacere si inscena l’ostacolo del godimento fallico dell’uomo, misero Uno, impossibilitato ad incontrare il godimento del corpo dell’Altro: non possono infatti gli amanti «con lo sguardo saziarsi di quel corpo che pure è presente, né con le mani staccare qualcosa della sua tenerezza». Per questo «avidamente costringono i corpi e mescolano sulle labbra le salive e il respiro, premendo coi denti le labbra. Invano, perché nulla possono raschiare di là, né penetrare né confondersi con tutto il corpo in quel corpo».

 Giorgione, Venere dormiente, Gemaldegalerie, Dresda

L’assenza dilaga e il soggetto, condannato al godimento autistico del proprio corpo, si scopre preda del Reale, espropriato dal proprio sé. La ferita è definitivamente aperta, a metà di quell’ora in cui si dipana lo spettacolo, svelandosi abitata da quella Hilflosigkeit freudiana, da quel senso di ‘inermità’ che ha incendiato i grandi portati filosofici dell’esistenzialismo novecentesco. Un taglio che in Anagoor erode la rassicurante armatura dell’Io, sussurrando al soggetto la sua indicibile identità, quella dell’Anticristo. «L’Anticristo è il dominatore travestito da samaritano, è Oloferne che conquista, domina, spoglia, insulta, e ubriaco fradicio crolla sbavando sul letto di Giuditta. Eppure c’è un modo per ribellarsi all’insano desiderio, resistere alla corruzione, dare battaglia al Chaos», recuperando, direbbe Lacan, il padre della Legge, dell’ordine e di quell’amore che pone un limite al godimento della devastante pulsione di morte. «Nasce di dentro una forza vendicatrice, un argine all’orrore» ci ricorda Derai ne La quarta meditazione. Giuditta: «la mano armata di un’eroina, la bellezza pura che stronca Oloferne, mozzando con la spada il capo al Marcio»: è la Giuditta dell’Hermitage, quella Giuditta serena di Giorgione, il cui piede sicuro – rimando intertestuale al tallone di Madonna che all’inizio dominava la serpe – calpesta il capo del maledetto condottiero assiro, emblema di ogni godimento irrapresentabile ed indicibile. Un orrore biblico che abita tuttavia il contemporaneo, come suggerisce La quinta meditazione, che slabbra il quadro dei Tre Filosofi (allegoria esoterica dell’oroscopo delle religioni monoteiste) e lascia intendere come nel più giovane di loro, e quindi tra noi, sorgerà l’Apocalisse. L’Anticristo incombe, per il Giorgione di Anagoor, e viene al mondo nella misteriosissima La Tempesta, avvolta in un diluvio sonoro d’acqua e tuoni, in cui la figura della madre e del neonato bucano la cornice rappresentativa dell’ordine semantico dell’opera, e Das Ding si fa centro causativo del soggetto, catturato dalla tela.

 Giorgione, Giuditta con la testa di Oloferne, Ermitage, San Pietroburgo

Il Fregio oracolare o delle Arti, affresco realizzato sulle pareti di Casa Giorgione a Castelfranco Veneto, meditazione sulla circolarità del tempo, invita infine speranzosamente la stirpe umana ad «allenare la capacità di scelta, ad usare il libero arbitrio per resistere agli attacchi del destino». Per la prima volta le sequenze pittoriche scorrono orizzontalmente, quasi a restituire allo spettatore il possesso della visione, anche se la presunta cecità (emotiva, intellettuale, spirituale?) di quest’ultimo è conclamata dalle orbite cave che abitano i volti dell’esoterico dipinto. Dopo l’ultimo cartiglio «Si prudens esse cupis in futura prospectum intende», lo spettacolo si arresta su un secondo foglio – che conclude il fregio – vuoto: spazio immacolato, in cui le nuove generazioni scriveranno il futuro di libertà, o forse sorprendente anticipazione di quella lapide bianca di Virgilio brucia, in cui – nella proiezione sincopata delle Res Gestae Divi Augusti, offerta tra grida di genti beanti e un digrignare di bestie da macello – Derai annuncerà che la fine del mondo è già avvenuta.

 dettaglio del Fregio oracolare di Casa Barbarella, Museo Casa Giorgione, Castelfranco Veneto

 

Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione

drammaturgia Laura Curino, Simone Derai

regia Simone Derai

con Marco Menegoni

video Simone Derai, Moreno Callegari

sound design Mauro Martinuz

produzione Anagoor

coproduzione Operaestate Festival Veneto