Le frecce vengon giù a dirotto, questo il racconto,
come scrosci di pioggia durante un temporale.
W.G. Sebald, Le Alpi nel mare (2011)
Uno spettacolo che si snoda al tempo del battito di un cuore ferito (il cuore della vittima) da una voce-dardo (il cacciatore-carnefice). Di notevole bellezza e intelligenza, L.I. | Lingua Imperii di ANAGOOR, gruppo emergente della scena italiana, è andato in scena al Teatro dell’Elfo di Milano dal 14 al 19 gennaio, e sarà in tournée al Teatro Rossini di Pesaro (31 gennaio) e al Teatro Comunale di Bolzano (14 marzo). Come già nelle precedenti produzioni – Tempesta (segnalato al Premio Scenario nel 2009), Fortuny, Et manchi pietà, *jeug- –, il lavoro di ricerca e di indagine di Anagoor approda in creazioni che mescolano la tradizione classica con le forme del contemporaneo (danza, musica, video installazioni), sempre indagando temi di grande respiro.
L.I. | Lingua Imperii (vincitore del premio Jurislav Korenić per la regia – di Simone Derai – al GRAND-PRIX del 53mo Festival MESS di Sarajevo nel 2013) è un coro tragico, in cui la parola e il gesto, il canto e la musica, sono funzionali a una riflessione sul rapporto tra lingua e potere. La lingua dell’impero intesa come dominio coercitivo (e viene in mente Lingua Tertii Imperii, 1947, del filologo e francesista Victor Klemperer); ma anche lingua in quanto linguaggio della violenza, e infine impossibilità della parola stessa, voce-muta, arresa di fronte alla violenza del dominatore. Tutta l’azione drammatica ruota così attorno ai concetti di vittima e di sacrificio (e qui si pensa a La violenza e il sacro, 1980, di René Girard).
Sulla scena una piccola comunità di uomini e donne, una sorta di coro di Erinni della memoria: con movenze da lamento funebre e uno sguardo attento ma stanco, gli interpreti si ripiegano su se stessi, disorientati e inquieti finiscono per non accettare la propria identità; non è più possibile convivere con la riemersione mnestica di un passato da cacciatori. Luogo mitico di questo confine anzitutto umano (quindi interiore, dell’accettazione della propria identità), è un luogo geografico: il Caucaso (dove anche Eschilo sceglie, non a caso, di incatenare il suo Prometeo). Rievocato nei dialoghi prelevati da Le Benevole di Jonathan Littell e nelle immagini dei molteplici volti della vittima che si alternano in uno schermo sospeso al centro della scena, il Caucaso viene scelto in quanto simbolo di uno spazio paradossalmente protetto, labirinto di lingue, etnie, religioni, tradizioni. I tre dialoghi, ambientati tra la primavera del 1942 e l’autunno dello stesso anno nel corso delle operazioni di penetrazione delle truppe tedesche in area, appunto, caucasica, costituiscono il ganglio spinale di tutto lo spettacolo. Due interlocutori, un ufficiale delle SS, Hauptsturmfürer Aue, e il giovane linguista, nonché ufficiale dell’esercito tedesco, Leutnant Voss, discettano di questioni linguistiche nel tentativo di rimarcare la fallacia di ogni ragionamento volto a dimostrare l’esistenza di una discendenza ebraica sulla base di una lingua parlata, magari in una comunità montana (lì, appunto, nel Caucaso del 1942). La presenza fantasmatica dei due interpreti, ‘replicati’ virtualmente attraverso l’emanazione-video di due schermi sospesi ai lati del proscenio, non impedisce alla parola di incombere ugualmente con forza.
Sempre tesi alla comparazione tra uomo e animale (tanto che ai volti molteplici della vittima si alternano sullo schermo centrale branchi di pecore tatuate come prigionieri), a voler dimostrare la bestialità (bêtise) dell’uno, si distinguono così i due temi al centro della ricerca di Anagoor: la caccia, dell’uomo nei confronti dell'uomo, la caccia in quanto dominazione, e quindi, secondo l’etimo, la caccia come inseguimento e come espulsione. Viene rievocato il sacrificio di Ifigenia, sgozzata come un agnello, e quindi le diverse forme di sacrificio e di sterminio (nei campi tedeschi, in Armenia, a Sarajevo, a Srebrenica), fino al racconto di Sebald (via Flaubert) sulla follia venatoria di San Giuliano, simbolo e patrono dei cacciatori.
Non lascia indifferenti la voce, una voce del pensiero e della coscienza (quella di Marco Menegoni), che riesce a toccare con forza il punto nevralgico delle emozioni, come il dardo lanciato dall’arco di una delle donne del villaggio, nel suo inflessibile portato simbolico. Sulla scena i corpi nudi ammassati rievocano il racconto biblico di Nimrod (non a caso titolo originario del progetto), il re cacciatore per eccellenza che esercita il suo potere cinegetico nell’accumulazione venatoria destinata a diventare un grande cumulo-torre, simbolo della sua hybris, e che, per analogia, richiama alla memoria le montagne di cadaveri che la storia del secolo scorso ci ha consegnato in eredità. Sembra quasi che Mnemosyne coinvolga a un certo punto anche lo spettatore nel vortice del senso di colpa di quella piccola comunità di uomini e donne che si aggira inquieta e pentita sulla scena. Efficace a questo proposito il fluttuare, delicato e incisivo al tempo stesso, degli interpreti, figura di una collettività, vittima e carnefice al tempo stesso, in cui ognuno può riconoscersi. A sancire con forza il coinvolgimento emotivo del pubblico, interviene la voce intensa della cantante di origine armena (Gayanée Movsisian), memoria viva di un popolo segnato da un genocidio a volte ancora ignorato. Laceranti, infine, nella loro disarmante verità, i Quindici consigli al genitore in lutto pronunciati nelle diverse lingue: quasi un vademecum allo spettatore chiamato prima o poi a soccombere alla caccia dell’uomo sull’uomo e comunque a interrogarsi sulla traccia lasciata dalla dominazione incontrollata di sé stesso.
L.I.| Lingua Imperii
Con Anna Bragagnolo, Moreno Callegari, Marco Crosato, Paola Dallan, Marco Menegoni, Gayanée Movsisyan, Alessandro Nardo, Eliza Oanca, Monica Tonietto e con Hannes Perkmann, Hauptsturmbannführer Aue; Benno Steinegger, Leutnant Voss
Voci fuori campo Silvija Stipanov, Marta Cerovecki, Gayanée Movsisian, Yasha Young, Laurence Heintz
Traduzione e consulenza linguistica Filippo Tassetto
Costumi Serena Bussolaro, Silvia Bragagnolo, Simone Derai
Musiche originali Mauro Martinuz, Paola Dallan, Marco Menegoni, Simone Derai, Gayanée Movsisyan, Monica Tonietto
Musiche non originali Komitas Vardapet, musiche della tradizione medievale armena
Video Moreno Callegari, Simone Derai, Marco Menegoni
Drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi
Regia Simone Derai
Produzione Anagoor 2012
Categoria: recensioni, spettacoli
Tag: Anagoor, Lingua Imperii, potere, retorica, visualità