Orhan Pamuk, L'innocenza degli oggetti. Il museo dell'innocenza, Istanbul

di

     

Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione

fantastica e del sogno poetico dànno alle cose un’anima

sensibile e mutabile come l’anima umana.

Gabriele D’Annunzio, Il piacere

Poetiche o artistiche, consolidate dalla tradizione o sperimentali, sono molteplici le espressioni che possono dare forma a una storia d’amore. Modulando un incontro tra parola e immagine che contempla, in un continuum tematico, la stesura di un romanzo, l’allestimento di un museo e la pubblicazione del catalogo, Orhan Pamuk ci offre delle prove invitanti.

Nel 2008, due anni dopo il conseguimento del Premio Nobel, lo scrittore aveva richiesto al fruitore de Il museo dell’innocenza, romanzo caratterizzato da una tensione metanarrativa non troppo celata, una duplice condizione. All’interno di un testo non illustrato, tra le pieghe rassicuranti di un flusso narrativo tradizionale, il narratore si era rivolto tanto al lettore di un museo in fieri e ‘visibile’ solo verbalmente, quanto al visitatore di un romanzo che finiva per coincidere con il racconto legato al criterio di esposizione degli oggetti. È stata questa la prima forma della sofferta relazione tra Kemal, imprenditore dell’alta borghesia, e Füsun, avvenente commessa. Ambientata negli anni Settanta, l’opera si concludeva con un abile cedimento alla tentazione dell’autoreferenzialità, giacché il protagonista decideva di dare ordine e sistematizzare, attraverso la creazione di un museo, la collezione di oggetti (dalle sigarette alla grattugia per mele cotogne, dai fermagli per capelli ai cucchiaini) ossessivamente raccolti per alleviare il tormento provocato dalla lontananza e, infine, dalla morte dell’amata.

Pamuk mantiene la promessa del suo personaggio. Mettendo in atto i propositi di Kemal, acquista la casa di Çukurcuma, nel quartiere popolare di Istanbul dove immagina abbia vissuto Füsun, la trasforma in sede del progetto che da anni lo tiene realmente impegnato (con ricerche e collezioni accumulate contemporaneamente alla stesura del romanzo) e nella primavera del 2012 inaugura il ‘Museo dell’innocenza’. Ogni ekphrasis «nozionale» (secondo l’accezione di Hollander) si materializza e ciascuna delle teche, disposte secondo la divisione in capitoli del romanzo, rende visibili gli oggetti appartenuti a Füsun (o a lei riconducibili per metonimia), che il protagonista aveva annusato, accarezzato e di cui aveva tentato di sentire il sapore, quasi fossero parte di lei.

La finzione letteraria, quindi, precede la realtà ed è l’impatto generato da un simile cortocircuito a rappresentare anche il nucleo de L’innocenza degli oggetti (Torino, Einaudi 2012), catalogo illustrato del Museo e ultima, singolare produzione di Pamuk. Il potere evocativo degli oggetti (ma anche delle cartoline, delle fotografie e dei dipinti contenuti nelle teche, in un abisso di illustrazioni) diviene tangibile, così come l’anima di questi feticci memoriali, traccia del ricordo della donna amata e del ritorno dell’infanzia nell’immaginazione di Kemal. Lo scrittore, che decide, per non interferire con l’immaginazione del fruitore, di non svelare i volti dei personaggi, non è estraneo all’influenza delle arti figurative e chiarisce che, per la configurazione interna delle vetrine, ha dedicato la sua attenzione alla ricerca della «bellezza che nasce dall’incontro casuale» (p. 103) di ogni elemento della collezione; un’armonia che potesse consentire agli oggetti di liberarsi dai limiti della corporeità ed esprimere, giungendo alle astrazioni, perfino la caducità della vita, la tristezza delle navi sul Bosforo, il senso di colpa.

Il volume, del quale Pamuk ribadisce l’autonomia rispetto al romanzo, restituisce alcune testimonianze fotografiche del Museo in fase di allestimento ed è al momento compositivo che lo scrittore fa riferimento anche nel testo che correda il catalogo, attraverso rivelazioni che spiegano l’ideazione e la genesi del progetto. Inoltre, lungi dal rappresentare delle note di commento di puro contorno, o dal limitarsi a riportare esclusivamente brani del romanzo, le sezioni verbali ci conducono nella città dell’autore, tra le sue strade, la sua storia, in una commistione di autobiografia e analisi sociologica che ricorda lo stile saggistico di Istanbul (2003). Eccola l’innocenza ed ecco, quindi, dove va ricercato il segreto di cui sono custodi i suoni udibili nel Museo (ambizioni multimediali erano ravvisabili già nel romanzo) e gli oggetti: nella vita quotidiana di una comunità costretta alla perpetua oscillazione tra Oriente e Occidente, convocata alla definizione di un’identità resa fragile dal declino dell’impero ottomano e dalla rovina seguita alla nascita della Repubblica. Una scelta antigerarchica quella di Pamuk, che nel suo catalogo inserisce Un modesto manifesto per i musei, una rivincita dell’individuo sulla Storia, sull’autorità dello Stato e della sua classe dirigente.

Ne L’innocenza degli oggetti il dominio della realtà e quello della finzione romanzesca non sono separati. Nel corso della lettura scopriamo che l’allestimento del Museo è frutto di un costante dialogo con Kemal – che ne Il museo dell’innocenza aveva commissionato l’opera a Orhan Pamuk e gli aveva concesso l’utilizzo della prima persona – e del contributo di altri personaggi secondari, tutti ricordati come persone reali e inseriti in un Indice dei nomi. Il gioco di sdoppiamento tra autore e protagonista, che reggeva l’impianto narrativo del romanzo, prosegue anche nel catalogo; forse Kemal è solo l’altro Orhan di Istanbul, l’alter ego della cui esistenza lo scrittore era convinto da bambino, e con lui ha deciso di realizzare un’ulteriore declinazione di un omaggio ininterrotto. La storia di Kemal, di Füsun, del suo orecchino, Leitmotiv dell’intreccio e soggetto di sparizioni e ritrovamenti, alla stregua di una mediorientale goccia d’oro, rivela, attraverso il sapiente incontro di diversi codici espressivi, la sua più intima ragione d’essere: un atto d’amore verso Istanbul nato – ancora una volta – dal senso di perdita.