La professione di casting director è una delle meno conosciute, se non misconosciute, fra quelle coinvolte nella produzione cinematografica. Lavorando a stretto contatto sia con il comparto della regia, che con quello della produzione, il e la casting director hanno il compito fondamentale di assegnare a ciascun personaggio previsto in sceneggiatura il volto, la voce e le movenze di un attore o di un’attrice in carne e ossa. Nell’immaginario mediale la rappresentazione del(la) casting director è spesso connotata negativamente: la figura severa che, in pochi minuti, distrugge i sogni di giovani aspiranti interpreti o, peggio ancora, il funzionario che, dal casting couch, promette loro opportunità di carriera in cambio di prestazioni sessuali. In tutti i casi, alla figura di casting director è conferito un ruolo di gatekeeping, di esercizio (talvolta abusivo) del potere che trova il suo momento di massima espressione nella pratica del provino. Da questo tipo di rappresentazioni rimane esclusa la parte più consistente del lavoro effettivo di un(a) casting director, che precede il momento dei provini e che prevede la messa in atto di un insieme molto complesso di competenze e di risorse tecniche, creative e relazionali all’interno di una rete di agenti e di organizzazioni a livello nazionale e internazionale. Al di fuori degli schermi, la professione di casting director ha ricevuto un’attenzione relativamente scarsa da parte della letteratura accademica che, quando vi si è dedicata, lo ha fatto principalmente in relazione al tema dell’attorialità e dello stardom (Pierini 2015; O’Rawe e Renga 2017; Renga 2020) o dell’inclusione di interpreti appartenenti a minoranze etniche e sociali (Turow 1978; Gerarghty 2010; Warner 2015; Martin 2018). L’interesse verso il mestiere di casting director e, più in generale, le professioni che ruotano intorno alla figura dell’attore, è andato crescendo negli ultimi anni, come testimoniano il convegno curato da Paolo Noto e Catherine O’Rawe (2017); il progetto di ricerca guidato da Francesco Pitassio (2017) e la conferenza prevista alla University of South Wales (2021).
Su cosa sia successo al cinema italiano per diventare così marginale per la vita delle persone (e di conseguenza in un più ampio panorama internazionale) si possono avanzare diverse ipotesi. Una potrebbe essere quella riportata dalle parole di una vecchia conversazione tra Ciprì e Maresco e Tatti Sanguineti, nella trasmissione Il club del 1997: il cinema italiano ha dimenticato i volti delle persone e li ha sostituiti con un mondo posticcio, spesso creato dalle scuole di recitazione, luogo ideale in cui registi provenienti dai corsi di regia possono soddisfare le esigenze di produttori ligi ai criteri stabiliti dalle film commission sparse per il territorio o da altri finanziatori pubblici. Cartina di tornasole di questo panorama non sono tanto i cosiddetti film d’autore ma soprattutto la produzione media, il cinema ‘commerciale’, dal momento che con sempre maggiore difficoltà il cinema italiano riesce a portare avanti un discorso autoriale che non parli soltanto al suo mondo e a quello della critica e dei festival ma riesca a sporgersi un po’ più in là, verso il mondo reale. I film di molti dei più coraggiosi registi italiani non riescono, loro malgrado, a toccare una cerchia più ampia di quella costituita da competentissimi spettatori o lungimiranti estimatori, e se anche hanno l’impressione di contribuire a ridisegnare il panorama del cinema contemporaneo è ancora troppo poco. Il risultato è quello di una partizione netta tra un cinema magari audace e apprezzato nei circuiti d’essai, ma poco o per nulla visto, e un cinema popolare artefatto, che parla alle masse mettendo in primo piano l’intrattenimento o i suoi alter ego più ricattatori (le tematiche sociali, le ‘finzioni di sinistra’). Più difficile è trovare nel panorama italiano contemporaneo un cinema d’autore e da grande pubblico come lo erano innumerevoli esempi del grande e meno grande cinema italiano fino a non molto tempo fa – e come lo sono ancora oggi molti film, ad esempio in Francia o negli Stati Uniti. Più difficile è trovare in Italia un cinema non compiaciuto che provi a ragionare sul mondo contemporaneo assumendosi il rischio di prendere le distanze da una certa standardizzazione delle immagini e della narrazione senza rinchiudersi immediatamente in nicchie protette. Si salvano solo poche eccezioni, e ognuno farà i nomi che più ritiene opportuni: Moretti, Maresco, Garrone, Bellocchio, Bertolucci…