2.5. Amorevoli, intuitive, pazienti? Questioni di genere nella professione di casting director

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La professione di casting director è una delle meno conosciute, se non misconosciute, fra quelle coinvolte nella produzione cinematografica. Lavorando a stretto contatto sia con il comparto della regia, che con quello della produzione, il e la casting director hanno il compito fondamentale di assegnare a ciascun personaggio previsto in sceneggiatura il volto, la voce e le movenze di un attore o di un’attrice in carne e ossa. Nell’immaginario mediale la rappresentazione del(la) casting director è spesso connotata negativamente: la figura severa che, in pochi minuti, distrugge i sogni di giovani aspiranti interpreti o, peggio ancora, il funzionario che, dal casting couch, promette loro opportunità di carriera in cambio di prestazioni sessuali. In tutti i casi, alla figura di casting director è conferito un ruolo di gatekeeping, di esercizio (talvolta abusivo) del potere che trova il suo momento di massima espressione nella pratica del provino. Da questo tipo di rappresentazioni rimane esclusa la parte più consistente del lavoro effettivo di un(a) casting director, che precede il momento dei provini e che prevede la messa in atto di un insieme molto complesso di competenze e di risorse tecniche, creative e relazionali all’interno di una rete di agenti e di organizzazioni a livello nazionale e internazionale. Al di fuori degli schermi, la professione di casting director ha ricevuto un’attenzione relativamente scarsa da parte della letteratura accademica che, quando vi si è dedicata, lo ha fatto principalmente in relazione al tema dell’attorialità e dello stardom (Pierini 2015; O’Rawe e Renga 2017; Renga 2020) o dell’inclusione di interpreti appartenenti a minoranze etniche e sociali (Turow 1978; Gerarghty 2010; Warner 2015; Martin 2018). L’interesse verso il mestiere di casting director e, più in generale, le professioni che ruotano intorno alla figura dell’attore, è andato crescendo negli ultimi anni, come testimoniano il convegno curato da Paolo Noto e Catherine O’Rawe (2017); il progetto di ricerca guidato da Francesco Pitassio (2017) e la conferenza prevista alla University of South Wales (2021).

Anche all’interno dell’industria audiovisiva, la figura del(a) casting director fatica a ottenere pieno riconoscimento. A livello internazionale, fra le principali cerimonie di settore, solo gli Emmy Awards e i BAFTA assegnano annualmente un premio per la categoria ‘casting’. Non esistono Oscar e Golden Globes per questa categoria, nonostante le pressioni da parte della Casting Society of America (Vaillancourt 2021). In Italia, solo il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani ha istituito nel 2014 un Nastro d’Argento al(la) miglior casting director. Questa resistenza a riconoscere il contributo professionale dei e delle casting director è esemplificata anche dal fatto che, ancora oggi, nei crediti di un film non si parla di ‘casting director’ o di ‘direttore/direttrice casting’, ma, rispettivamente, di casting by’ e ‘casting’. Questa scelta lessicale, apparentemente neutra, deriverebbe dal rifiuto della potente Directors Guild of America (DGA) di rinunciare all’esclusiva sul titolo di ‘director’ (tesi sostenuta dal documentario prodotto da HBO Casting by, di Tom Donahue, 2012). Tra i motivi alla base di questo rifiuto vi sarebbe il fatto che la professione di casting director è a netta prevalenza femminile: 75% dei membri della Casting Society of America sono donne (Hill 2014, p. 162); 78% nel caso dell’Unione Italiana Casting Director (cfr. sezione ‘Membri’ sul sito dell’associazione). Come osserva Diana Jaher: «That the DGA, whose members are overwhelmingly male, does not prevent directors of photography, also primarily men, from receiving billing with their professional titles intact, demonstrates gendered attitudes towards casting» (Jaher 2014, p. 114).

Secondo Erin Hill, una delle principali studiose in questo ambito, il processo di femminilizzazione della professione di casting director è cominciato negli anni Sessanta con la fine dello studio system hollywoodiano e la conseguente esternalizzazione delle attività legate al reclutamento, alla formazione e alla gestione degli attori (Hill 2011). Questo comportò una diminuzione nello status del(la) casting director, che perse i benefici economici e sociali tipici delle posizioni dirigenziali interne agli studios. Ciò spinse molti uomini a cercare altrove le opportunità di avanzamento di carriera e di retribuzione che quel settore non poteva più garantire loro (Hill 2014). Molte donne fecero la scelta opposta, diventando freelance e aprendo i propri uffici, attratte dalla prospettiva di un’organizzazione del lavoro flessibile, meno gerarchizzata, e più compatibile con le esigenze familiari (Jaher 2014). Tra di esse, Marion Dougherty (1923-2011) responsabile, tra gli altri, del casting di Un uomo da marciapiede (1969), Grease (1978), Batman (1989), e universalmente considerata come la pioniera del casting moderno [fig. 1]. In Italia, la prima persona a essere impiegata come casting director è stata Isa Bartalini (1922-1996), già segretaria di edizione per Alessandro Blasetti, che curò, fra gli altri, il casting italiano delle commedie americane Pranzo di Pasqua (The piegeon that took Rome, 1961) e Cos’è successo tra mio padre e tua madre (Avanti! 1972) (Hartmann Trapani 2020) [fig. 2].

Il processo di femminilizzazione della professione di casting director, però, non è solo una questione di numeri. Il fatto che siano soprattutto le donne a svolgerlo ha fatto sì che la retorica intorno al mestiere di casting director incorporasse una serie di elementi discorsivi tipici, da una parte, di altre professioni a maggioranza femminili (primo fra tutti quelli di segretaria) e, dall’altra, dell’immaginario sociale tradizionalmente associato alla donna. Per quanto riguarda i primi, alla figura della casting director vengono accostate le cosiddette soft skills: precisione, capacità organizzative, intelligenza emotiva, doti comunicative e attitudine al lavoro di squadra. A ricorrere a questo tipo di retorica sono coloro che lavorano con le casting director, ma anche queste ultime. Janet Gilmore, casting director, tra gli altri, della serie TV Alias, sostiene che «[Women] are better able to do more than one thing at the same time» (Seipp 2003). In Italia, Cristina Priarione, presidente di IFC Italian Film Commission, tra le doti di un(a) buon(a) casting director elenca «una buona dose di abilità psicologica» e «un intuito sopra la media» aggiungendo anche: «forse non è un caso che molti casting director di successo siano donne» (Hartmann Trapani 2020, p. 12). Secondo Juliet Taylor, storica casting director di Woody Allen:

[W]omen have good instincts for casting. […] You have to be enormously interested in people, to the extent that you put your own ego aside. Women are trained to do that, to listen and to be very interested in all kinds of people, even people who are unlikable. Also, it’s a job that requires a great deal of care for details. But I think it’s probably the more social-personal aspect of it that women are better at. […] Sometimes you do feel like a hostess at a great party (Shewey 1982).

Il riferimento di Taylor al fatto che questo mestiere richiede di mettere da parte la propria individualità e di porsi al servizio degli altri (in particolare del regista) emerge anche nelle parole delle professioniste italiane. Lilia Hartmann Trapani [fig. 3], casting director, fra gli altri, della serie I Medici e del film TV Francesco, dichiara: «[I]l casting director si fa un’idea propria del personaggio, ma anche se si affeziona molto al progetto, bisogna che si ricordi che si tratta del film del regista e non del proprio e quindi è alla sua aspettativa che deve andare incontro» (Hartmann Trapani 2020, p. 33). Cristina Proserpio [fig. 4], (Zero; La variabile umana), commentando la prevalenza femminile nel mestiere ipotizza: «Siccome è un lavoro molto operativo, di servizio, le donne lo fanno meglio, perché sono abituate a lavorare senza che nessuno dica loro “Che brava che sei stata”. Dato che in questo ruolo non c’è quel riconoscimento esplicito, forse i maschi ne soffrono troppo» (Proserpio 2021).

Per quanto riguarda gli elementi discorsivi che associano il mestiere di casting director a tratti convenzionalmente femminili, questi emergono in particolare in riferimento al tema dell’emotional work, la gestione dei propri stati d’animo al fine di favorire il benessere emotivo altrui (Hochschild 2003). La regista Liliana Cavani elogia la pazienza come virtù importante per un casting director: «Nel mio lavoro ho avuto casting director bravissimi e tanto pazienti. La pazienza è parte del loro pregio perché per prima cosa cercano di capire la personalità del regista […]» (Hartmann Trapani 2020, pp. 14-15). Da parte loro, nelle parole delle casting director, questo aspetto emerge in relazione al lavoro con gli attori, in particolare in occasione dei provini, quando esse si dedicano a minimizzare lo stress psicologico derivante dalla performance: «È molto importante metterli a loro agio e fare quanto in nostro potere per sdrammatizzare e per mettere l’attore in condizione di rendere al massimo facendo capire che si è dalla sua parte» (ivi, p. 36). L’emotional work svolto dalle casting director viene anche assimilato esplicitamente all’istinto materno: a proposito della casting director Ellen Lewis (Al di là della vita, The Departed, The Irishman), l’attore e cantante Marc Anthony dichiara «Right after the audition, Ellen called, “Marc, you did a wonderful job.” She sounded like a proud mom.» (Dinello 1999). Sara Casani [fig. 5], casting director italiana de L’amica geniale e Suburra afferma che «in questo mestiere c’è qualcosa che ha a che fare con la gestazione, la cura» (Solari 2019, p. 52). In alcuni casi, il mestiere viene tramandato letteralmente di madre in figlia, come per Lilia Hartmann Trapani, figlia della citata Isa Bartalini. Ma anche in assenza di legami di sangue, per alcune professioniste la dimensione affettiva del mestiere si estrinseca nel rapporto con le proprie assistenti, poi divenute a loro volta casting director. Un rapporto che in alcuni casi si estende su più generazioni. Juliet Taylor, già assistente di Marion Dougherty, e a sua volta mentore di Ellen Lewis, dichiara: «Marion considers me her daughter and Ellen her granddaughter» (Dinello 1999). Cristina Proserpio (2021), che tiene anche corsi post-diploma presso diverse istituzioni, racconta: «Alcune casting che ci sono in giro adesso erano mie studentesse ed è bello, mi piace. Poi ognuna declina il mestiere a modo suo, con la sua sensibilità».

Da queste considerazioni emerge l’immagine di una professione che, pur sviluppatasi nel solco di una forzata distribuzione dei ruoli professionali in base al genere e, per questo, tuttora oggetto di discriminazione all’interno dell’industria, ha saputo trasformare quei presunti difetti originari in punti di forza. In questo senso, risultano essenziali la collaborazione, il mentorato e l’attenzione per la dimensione relazionale del lavoro che le casting director mettono in pratica nel rapporto con le altre componenti creative della produzione, ma ancor di più nelle «sorellanze laboriose» (Maina e Tognolotti 2018, p. 9) che le legano alle altre professioniste del settore e alle loro assistenti. Sarà prezioso, dunque, continuare a perseguire questa linea di indagine: approfondendo le dinamiche interpersonali, le pratiche collaborative e l’insieme di valori condivisi tra casting director e assistenti casting, nella consapevolezza che, anche in questa professione, «essere due» (Irigaray 1994) è spesso ciò che permette di non essere «seconde» (De Beauvoir 2016).

 

Bibliografia

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