Milo Rau. Della morte e della vita privata

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Il saggio ha come focus l’operato di Milo Rau all’interno di un contesto ampio di relazioni tra teatro, semiologia e antropologia. Evidenziando il carattere fortemente intertestuale dell’opera dell’artista svizzero, si propone una lettura della sua vasta produzione attraverso la teoria delle scienze sociali di Bruno Latour. In questo senso il corpus delle opere del regista è proposto come un sistema metamorfico. Si procederà, quindi, ad un’analisi degli spettacoli Family e Grief and Beauty (primi due capitoli della Trilogia della vita privata), allo scopo di mettere in relazione dialettica non solo le due opere con gli esiti precedenti, ma piuttosto la dimensione privata con la Storia, con l’Antropocene.

The essay focuses on Milo Rau's work within a broad context of relations between theatre, semiology and anthropology. Highlighting the strongly intertextual character of the Swiss artist's work, an interpretation of his vast production through Bruno Latour's social science theory is proposed. In this sense, the corpus of the director's works is proposed as a metamorphic system. We will therefore proceed to an analysis of the plays Family and Grief and Beauty (the two chapters of the Private Life Trilogy), in order to dialectically relate not only the two works with their previous outcomes, but rather the private dimension with History and with the Anthropocene.

 

 

1. Costellazioni ibride e zone metamorfiche

 

La prolifica attività produttiva di Milo Rau è espressione diretta di un metodo che all’istinto per la sperimentazione di forme unisce l’attenzione del sociologo. Sintetizzando si potrebbe affermare che la sua prassi metodologica sia la ricerca antropologica e il modo migliore per rappresentarne gli esiti. Rubando da Bossart e dalla sua intervista al regista bernese il riferimento all'etnologo Clifford Geertz, potremmo indicare, in una proficua fluidità tra teatro e antropologia, la sua come una prassi di «descrizione densa», in cui «le forme di vita»[1] acquisiscono corpo perché inscritte in un con-testo di cui ci si appropria solo attraverso partecipazione attiva e analisi interpretativa. La sua formazione come sociologo, il suo passato da attivista lo caratterizzano nel metodo e nella forma. Difatti il suo metodo investigativo-creativo, quand’anche persegua modalità tecniche di tipo documentaristico, non strumentalizza il materiale acquisito per una narrazione da reportage, piuttosto rappresenta «una sorta di guida alla lettura in senso politico dei racconti biografici degli attori. In tal modo gli aspetti più privati sono apparsi come metafora, come allegoria del sublime».[2]

Sia chiaro però che l'attributo di regista sociale non si addice all'autore di Hate Radio. Infatti, se il dramma sociale per Szondi manifesta, nella sua costruzione scenica, non il microcosmo per il macrocosmo (principio simbolico afferente al dramma) ma la pars pro toto,[3] tanto da «rappresentare drammaticamente le condizioni economico-politiche sotto il cui impero è caduta la vita individuale»,[4] e se il compito dei suoi autori è «mostrare i fattori che hanno le loro radici al di là della situazione singola e del singolo fatto, e che pure li determinano»,[5] ciò non può dirsi affine all’operato di Rau, il quale cerca di essere contemporaneamente «cronista e portatore di utopie».[6] Non c’è determinismo illuministico nelle sue opere, né alcuna necessità di restituire una mimetica riproduzione del reale o di esporre teatralmente dinamiche sociali. Difatti non tratteggia mondi esemplari da cui trarre norme comportamentali, ma recupera dal panorama storico un evento[7] per dedurne la sua caratteristica allegorica.[8] Per questa ragione, quand’anche lavori ad opere di re-enactment si tratta pur sempre di una forma d’arte la cui realizzazione pone l'obiettivo di un disvelamento mai concluso nella riproposizione dell'atto in forma mimetico-documentaristica. The last days of Ceauçescus o Hate radio sono «re-enactment artistici»,[9] opere d'intelletto in cui gli eventi si mostrano secondo una realtà fittizia, una fantasmagoria sociale non per questo non reale; così come i suoi Trial (The Congo Tribunal, The Moscow trial o The Zurich trial) sono al contempo procedimenti fittizi e accadimenti. È nell'attenzione al dettaglio che si restituisce l'effetto di realtà. «Ma la modernità, a cui io aderisco, ricerca la precisione matematica, la costruzione della presenza: l'arricchimento quasi smisurato unito all’umile semplicità di una struttura sobria; la sostituzione dell'autentico con l'intelligenza di una forma emotiva creata ad hoc».[10] Non si tratta mai di verità fattuale, ma esclusivamente di verità artistica, in cui la finzione non rende meno credibile la rappresentazione. «Questa è la ragione per cui il teatro si è sviluppato come forma d’arte: per mettere in opera la più naturale e la più fantasiosa delle abilità umane, quella di ricreare la realtà a partire da un immaginario sociale».[11] Si parla sempre, dunque, di un’opera che punta, in una dialettica laboriosa tra l’immaginazione e la comprensione, tra le idee e la loro trasposizione, a realizzare qualcosa che sia vero, che diventi reale laddove per reale si intenda una struttura aperta. «Realismo non significa che si rappresenta qualcosa di reale, ma che la rappresentazione è essa stessa reale; significa produrre una situazione che porti in sé tutte le conseguenze del reale per i partecipanti, una situazione che sia moralmente, politicamente ed esistenzialmente aperta».[12] Perché «il teatro non è altro che un ritorno molto concreto a questa semplice lezione aristotelica: tutto ciò che consideriamo come reale non è che una convenzione sociale».[13] In linea di continuità con gli studi di Turner, il teatro è qui esperienza liminale, tra realtà e rappresentazione.

 

 The repetition/La Reprise, directed by Milo Rau, 2018. Ph.: Hubert Amie

Il profilo di Rau è quasi un unicum nel panorama globale per approfondimento teorico e produttività artistica multidisciplinare. Si autodefinisce «un formalista del tutto pedante»[14] e un postmoderno senza atteggiamento postmoderno,[15] in quanto, in sintesi, alla decostruzione preferisce «l'affermazione».[16] Per sua stessa ammissione, come dichiarato nell’intervista che presentiamo contestualmente a questo scritto, ha tra i suoi mentori, oltre a figure afferenti al nucleo familiare (il nonno) che lo hanno inserito in un ambiente culturale fertile e stimolante, Pierre Bourdieu. È noto che sia stato allievo di Todorov, ed è interessante anche la vicinanza con Bruno Latour, recentemente scomparso, ricordato nella stessa intervista, con cui si può intessere più di un rimando ideologico in merito alla sua pratica scenica. Appare non privo di riverberi per la poetica di Rau, infatti, non solo il concetto di agency introdotto dallo studioso francese («la radice comune dell’agency, questa “zona metamorfica” dove siamo capaci di individuare gli agenti prima che questi diventino attori, dove le “metafore” precedono le due serie di connotazioni che saranno collegate, dove la “metamorfosi” è vista come un fenomeno antecedente a tutte le forme che verranno date agli agenti»),[17] ma soprattutto l’idea di una dimensione ecologica dello studio e della ricerca che rende interdisciplinare il pensiero e, quindi, l’agire. E ancora, è interessante, a fronte della prassi di costruzione scenica dell’artista svizzero, il superamento speculativo proposto da Latour dell’antica dicotomia tra umano e non umano, così come tra scienza e natura, oltre che l’intenzione di pensare per ‘zone metamorfiche’.

 

Il senso di vivere nell’epoca dell’Antropocene è che tutti gli agenti condividono lo stesso destino mutevole, un destino che non può essere seguito, documentato, raccontato e rappresentato utilizzando una delle vecchie caratteristiche associate alla soggettività o all’oggettività. Lontani dal provare a “riconciliare” o “mescolare” natura e società, l’obiettivo politicamente cruciale è al contrario la distribuzione dell’agency il più lontano e nei modi più differenziati possibili – finché, a quel punto, avremo perso completamente qualunque relazione tra questi due concetti di oggetto e soggetto che non sono più di alcun interesse, se non in senso patrimoniale.[18]

 

Rau assomma in sé approfondimento teorico e fare artistico, opponendosi con la pratica alle distinzioni tra le parti, in perfetta linea con Latour. Il suo teatro – realista – è interdisciplinare e multidisciplinare: spazia dalla prosa all’artivismo, al cinema, al re-enactment, interpolando formati e fonti diverse. Basti pensare al Nuovo Vangelo (2019), prodotto filmico e azione di artivismo; The last days of Ceauçescus (2009), The Congo tribunal (2015), The Moscow Trail (2013), che hanno avuto anche esiti documentaristici; Family o Familie (2020), spettacolo teatrale e produzione cinematografica. I suoi interventi pubblici (in occasione di eventi istituzionali quali premiazioni, aperture di festival internazionali o prestigiose stagioni di prosa) diventano sempre occasioni di una rivendicazione del ruolo dell’arte nella società, o meglio, nella rete di rapporti che costituisce il nostro fronte di realtà sociale. Per questi motivi la sua figura nel panorama teatrale ha un valore aggiunto, quello della testimonianza scientifico-teorica e civile, reclamata riconducendo all’arte la facoltà di cambiare il reale. Ne è testimone il Manifesto di Gent (2018),[19] edito in corrispondenza del suo insediamento come direttore artistico del Teatro della cittadina belga. Il documento espone chiaramente la prospettiva teatrale e politica di Rau, il suo legame ideologico al marxismo e la sua proposta di teatro politico, relazionale, autorale, transeuropeo, sostenibile.

C’è un attivismo accalorato e sincero, una forma di «militanza ostinata»[20] che rende le produzioni artistiche di Rau iconiche, al di là degli esiti. Appaiono come macchine semplici (dispostivi) attanti[21] di un sistema complesso, microcosmi teatrali in comunicazione. Mutuando ancora da Latour e dalla sua terminologia, potremmo dire che sono soggetti estetici dotati di agency che esplicano non solo verso il pubblico, ma verso sé stessi. Non a caso molti suoi progetti hanno esiti mediatici multipli che creano costellazioni ibride[22] in una rete di affinità tematiche, estetiche, stilistiche.

 

Non credo di passare realmente da un tema all’altro, piuttosto metto a fuoco prospettive diverse sullo stesso macro-tema. Per me ogni spettacolo si colloca di fatto intorno alla stessa domanda: qual è la biografia, qual è il destino individuale in una storia collettiva? Qual è la relazione tra questi aspetti? Ho provato a dare risposte in modi formalmente molto diversi: così ho fatto ricorso al teatro classico, alla tragedia, alla rievocazione storica, alle forme del reale, alla ricerca storico-documentaria, ad attori e ad attori-non attori. Il mio teatro è diverso negli argomenti specifici e nelle forme, ma è molto unitario nello sguardo d’insieme che assumo.[23]

 

Questa contaminazione intrinseca si esplica nelle trilogie composte dal regista bernese, forma di organizzazione drammaturgica necessaria a dar conto della complessità dell’ispirazione del Nostro, nonché del carattere di affinità interna dei diversi progetti. Oltre ai Trails, assonanti per la specificità tecnica della forma giudiziale (The Zurich Trial, The Moscow Trial, The Congo Tribunal) e la triade tematica sul Congo (costituita da Hate Radio (2011), The Congo Tribunal, Compassion (2016)), Rau ha dato forma con The Civil War (2014), The Dark Ages (2015), Empire (2016), alla Trilogia dell'Europa,[24] che nel 2017 fu salutata dallo stesso come il suo lavoro più diretto nel rappresentare l’Io e la Storia in un tutt’uno.[25] A questa segue La Trilogia della Rappresentazione, sul paradosso della replicabilità della violenza. Iniziata con Five easy pieces (2016) e proseguita con Le 120 di Sodoma (2017),[26] si conclude con The Repetion/La reprise (2018) che apre l'ambizioso progetto Histoire(s) du théâtre. Allo stesso tempo due delle tre opere citate (Five easy pieces e The Repetition) compongono con Family/Familie (2020) la Trilogia dei crimini moderni.[27] Family a sua volta inaugura la Trilogia della vita privata il cui secondo capitolo, Grief and Beauty (2021) denuncia con Everywoman, spettacolo contemporaneo a Familie, più che un rimando di affinità, confermando il carattere fortemente intertestuale del lavoro di Rau.[28]

 

 

2. Una famiglia

Family[29] trae spunto dal suicidio collettivo dei Demeester. Padre, madre e due figli trentenni, residenti a Coulogne, il 27 settembre del 2007 scelgono di impiccarsi nella veranda della propria abitazione. Impacchettati, come per un trasloco, tutti i propri oggetti personali, lasciano solo un biglietto privo di firma a chi li avrebbe ritrovati: «We messed up, sorry» («ci siamo spinti troppo oltre/abbiamo sbagliato, scusate»). Niente di più. Nessuna malattia, nessuna bancarotta. Nessun valido movente. «A deep feeling of guilt and hope of redemption»: così gli esperti, come apprenderemo dai titoli di coda proiettati in scena che precedono gli applausi, stigmatizzano il gesto estremo di questa tranquilla famiglia occidentale. Un istinto autodistruttivo che ha colpito l’interesse di Rau, inducendolo a trattare il caso secondo la sua consueta modalità artistica fatta di prove documentali, elementi biografici, metateatro e dichiarata finzione, attraverso un procedimento lento di sedimentazione, per approdare, attraverso libere associazioni, alla composizione finale: una situazione reale che parli di per sé.[30]

 

 

 

Il fatto di cronaca, il suicidio, viene esposto al pubblico attraverso la cornice drammaturgica costruita sull’autofiction della più grande delle due adolescenti: Louise. Il regista giustifica la scelta di rendere protagonista della conduzione drammaturgica un’adolescente affermando che «Teenagers wonder anyway about what it is all for».[31] Una videocamera riprenderà il volto in primo piano della ragazza quando racconterà, in apertura dello spettacolo, come, da un periodo di depressione in cui ha nutrito pensieri suicidi successivo al suo trasferimento in collegio, abbia deciso di interessarsi al caso Demeester, coinvolgendo nella sua pratica investigativa l’intera famiglia. Con questo espediente Rau espone metateatralmente nella finzione scenica la propria detection. Se Louise, la figlia maggiore, sarà la portavoce delle istanze drammaturgiche strutturali ̶ è suo il volto e la voce che ci racconta il ritrovamento dei corpi, così come dettagli degli elementi che hanno caratterizzato l’ultima sera della famiglia di Coulogne ₋ tuttavia è la madre, An, che detta i tempi, dirigendo di fatto l’azione scenica interna. Attraverso la sua figura Rau dà voce alle istanze di morte di una generazione che sente votata all’autodistruzione e che ha condotto in questo baratro anche i propri figli, senza nessuna giustificazione possibile. Non rimane che assumersene la responsabilità e trarne le dovute conseguenze. Non si tratta dell’apologia del suicidio. Semmai di una fotografia del presente. In questo Rau è molto chiaro. Espone la situazione che sente paradigmatica e, ancorandosi alla realtà cronachistica, propone agli spettatori uno degli scenari possibili. Potremmo immaginarlo come «an experiment, an ethnological study of today’s private life, an exhibition of the everyday»[32] che espone, senza alcuna retorica sentimentale, come da determinate premesse si arrivi alle necessarie conseguenze.

 

  Familie, directed by Milo Rau, 2020. Ph: Michiel Devijver

Ciò che compone l'allestimento scenico di Familie è un proscenio (luogo deputato alla meta-teatralità) pressoché vuoto, eccezione fatta per una sedia pieghevole, un tavolino, un microfono, una telecamera posizionati sulla destra del palco. Più in là, al centro, la riproduzione 1:1 di una casa (comprensiva della quarta parete) divisa in tre ambienti: bagno, cucina, camera da letto; una villetta monofamiliare che appare disabitata. Uno schermo occupa la parte superiore della scena, come già nella Trilogia dell'Europa, nella Trilogia della Ripetizione, come in (praticamente) tutti gli spettacoli più specificamente teatrali del Nostro, compresi Everywoman e Grief and Beauty.

Sentiamo in sequenza il cinguettio degli uccelli e il rumore di pneumatici sull’asfalto mentre una luce investe da dietro la scenografia, suggerendo, con un movimento da destra a sinistra, un passaggio di auto oltre la casa, su una strada provinciale che sembra essere trafficata anche di notte (e che ricorda, per metonimia, la macchina dai fari accesi utilizzata per re-inscenare la notte dell'omicidio del giovane Ihsane nella La Reprise). Lo stesso espediente sarà poi utilizzato in Grief and Beauty, attivando così un meccanismo di autocitazione e riverbero, rinsaldando l'impressione di un dialogo sotterraneo tra le opere di Rau. L’immagine sonora che ci accoglie – la casa vuota in penombra e il cinguettio degli uccelli – sarà l’ultima che vedremo. Parafrasando l’estetica scenica, potremmo dire che l’ambiente ci sopravviverebbe se gli lasciassimo spazio.

Gli attori entrano in scena alla spicciolata, mentre in diffusione acustica udiamo le loro voci dirci, in forma di lista, le cose che amano fare. Quello dell’elenco è un espediente drammaturgico caro al teatro postdrammatico, riutilizzato qui in forma di prologo (il quale con l'antefatto e l’uso dei titoli rappresenta l'insieme degli elementi stranianti precipui del teatro epico brechtiano)[33] e che Rau riutilizza a proprio modo. Una seconda lista sarà letta dalla madre a conclusione dell’attività di smantellamento che il nucleo familiare opera in casa, trasportando fuori, dentro degli scatoloni predisposti in proscenio, tutti gli oggetti che in essa erano contenuti, svuotandola, lasciandola libera dai propri effetti personali, dai propri oggetti di consumo. An controllerà, allora, prima dell’impiccagione, spuntando da un foglio gli elementi pian piano richiesti, che Filip, il padre, abbia sbrigato tutti i compiti necessari (compiti in tutto simili a chi lascia la propria abitazione prima di partire per una vacanza: chiudere il gas; chiudere l’acqua, etc…) per uscire definitivamente di casa, spogliarsi della vestaglia, indossare l’abito rituale disegnato dalla figlia per l’occasione, e procedere alla propria uccisione.

 

  Familie, directed by Milo Rau, 2020 Ph. Michiel Devijver

 

Andando con ordine: per prima fa il suo ingresso la madre, accende la luce in cucina, poi si dirige in bagno dove addobba la porta con foto di famiglia. Dopo il padre, indossato un grembiule, inizia a preparare la cena. Quindi Leonce, la minore, si siede sul letto leggendo un libro di grammatica inglese. Per ultima Louise si ferma in proscenio, da cui rivolge uno sguardo alla casa abitata dai suoi stessi familiari. Sentiamo le note di Who by fire di Leonard Cohen inondare la sala e il titolo apparire sullo schermo: Family. Lo spettacolo ha inizio così.

Ciò che accade da qui in poi è il succedersi di azioni di per sé banali. In un alternarsi tra scene familiari e resoconto dei risultati dell’attività investigativa sulla famiglia Demeester, lo spettacolo si dipana per un’ora e quaranta minuti. La madre farà una doccia, il padre continuerà a cucinare, la sorella a imparare le frasi in inglese aiutata da Louise che, dopo aver esposto l'antefatto, entra dentro la villetta e prende posto sul letto accanto a Leonce. La famiglia Miller-Peeters andrà a cena e non sarà una serata diversa dalle altre. Eccetto per un riferimento di Louise alla morte. Lo spunto è il racconto di un evento che coinvolge alcuni suoi coetanei e delle immagini scabrose che, da private, sono diventate pubbliche. «Dopo stanotte non ci sarà più niente di cui preoccuparsi», dirà la figlia maggiore apostrofando il padre. Il potere intrinseco di influenza dell’immagine sulla vita contemporanea (tema caro a Rau) è qui esposto come sottotesto implicito.

 

  Familie, directed by Milo Rau, 2020. Ph: Michiel Devijver

 

Lo schermo ha sempre una posizione preminente nella composizione dello spazio scenico del regista svizzero, ed anche in questo caso ha la funzione di scandire le fasi dell’opera attraverso titoli e capitoli (Family, The family dinner, The last move); di riprodurre le immagini che documentano il viaggio dei Miller/Peeters a Coulogne; di offrire la visione interna delle scene occluse agli spettatori dalle pareti della casa (potremo, ad esempio, sbirciare la prospettiva interna del bagno di cui la madre addobba la porta con foto di famiglia e assistere ad un tenero bacio tra i due genitori); di mostrare in primo piano il volto dei performer. Divide lo spazio e si propone come alternativa alla dimensione presente e viva, rendendo manifesto lo scarto tra l’hic et nunc e l’altrove rimedializzato (e dunque vivo?) della presa diretta.

Un luogo deputato alla riproduzione di materiale di archivio, al commento figurativo, ma utilizzato anche come strumento dialettico, che rende possibile un dialogo tra An all’esterno della casa ̶ significativamente già oltre la soglia con in mano le scatole pronte per l’ultimo trasloco ̶ e le figlie ancora all'interno dell’abitazione, il cui primo piano è esposto implacabilmente al pubblico sullo schermo mentre con il padre si crogiolano ancora un po’ nel passato guardando vecchi filmini di famiglia. Quest’immagine struggente stimolerà la madre a interrogarle («Qual è il vostro primo ricordo?») e da lì a condurre una propria revisione biografica (non sappiamo se veritiera, ma sicuramente credibile) dall’infanzia, nella fattoria di famiglia (e, quindi, al suo rapporto con la natura), fino all’età adulta. In breve: delle speranze e di ciò che ne è rimasto.

 

  Familie, directed by Milo Rau, 2020. Ph: Michiel Devijver

 

La costruzione scenotecnica ha un impianto da live set televisivo, invece che teatrale. L’operatore di macchina sarà sempre visibile all’occhio dello spettatore e lo vedremo muoversi sul palco insieme agli attori. Non c’è nessun intento mimetico.[34] È forse anche la natura anfibia di questo progetto, sia opera teatrale che filmica, che ha indotto Rau a questo tipo di allestimento (filmico e teatrale), che ne riassume e condensa il doppio esito produttivo. Sicuramente la gestione dello spazio rafforza la convinzione che il meccanismo di composizione sia stato immaginato secondo logiche tecniche affini alla ripresa audiovisiva. È, infatti, il dettaglio dell’inquadratura che prevale sull’immagine totale.

La lezione di Piscator reclama qui un riconoscimento. Poiché a lui si deve la relativizzazione del fatto scenico attraverso l’ausilio del mezzo cinematografico per cui «l’azione cessa di fondare in esclusiva l’unità globale dell’opera».[35] Rau sfrutta l'immagine cinematografica sia come mezzo di traslazione dell’azione scenica in altro luogo e in altro tempo, che come immagine di archivio, acquisendo dal postmoderno la tecnica di assemblaggio.[36]

Nell’intervista realizzata per questo focus, il regista riconosce almeno quattro usi diversi della telecamera: un primo, per il dettaglio, per avere un’istantanea del volto in un primo piano; un altro, che si potrebbe definire metateatrale, per ottenere un’impressione critica di ciò che viene mostrato; un terzo documentaristico, d’archivio, per mostrare la presenza di cose assenti; l’ultimo per mettere in discussione l’etica stessa dell’immagine.

Difatti, nell’ordine di disattendere le aspettative mimetiche e nello stesso tempo di fornire ganci all’immedesimazione («poiché senza coinvolgimento, non c’è smascheramento»),[37] l’adozione di una grammatica filmica offre incastri che permettono una lettura critica del medium. Lo schermo, infatti, allontana, distanzia la realtà e al contempo la ripropone ingrandita nel dettaglio. Offre la possibilità di un dialogo tra un piccolo me e un grande me. Tra un presente e un altrove. Come se, con la sua capacità distanziante, fosse uno dei modi possibili per rendere il privato una questione pubblica.[38]

Riferendoci al panorama italiano riconosciamo alcune aderenze che vanno nell’ordine ambizioso di una riattivazione artistica della memoria collettiva: si pensi al G8 project (2021) del Teatro Nazionale di Genova a vent’anni dai fatti clamorosi che sconvolsero l’opinione pubblica; a Panaroma dei Motus, in collaborazione con gli attori de La MaMa di New York (2018), votato alla riattivazione di una dimensione biografica capace di superare l’ipoteca individuale, o ancora a i Sotterraneo con il loro L’Angelo della storia (2022), dedicato a una costruzione scenica e concettuale in grado di riflettere sulla tenuta del tempo. Per il resto al momento ci sentiamo di confermare quanto dichiarato da Rovida:

E proprio mentre i più ottimisti iniziavano a tirare un sospiro di sollievo e l’attributo politico – sebbene con una certa libertà di senso – l’ecosistema teatrale italiano, di nuovo ben sperante, ricominciava a pascolare, ritrovando nuovo vigore in vecchie abitudini (il teatro documentario di Filippo M. Ceredi) e sentendosi di casa perfino laddove non avrebbe mai creduto (l’esistenzialismo intimista, borghese e militante di Deflorian/ Tagliarini), ecco che sulla scena nazionale si affaccia Milo Rau e spariglia le carte, mettendo in evidenza diverse “inadempienze” di questi esperimenti nostrani.[39]

 

3. Nessun dramma. È una tragedia

Come dandy distaccati osserviamo in questo momento il lento sprofondare della civiltà occidentale nel caos. In un misto che si potrebbe definire quasi “geniale” di ottusità dell’intelletto e del cuore, assistiamo a come quasi ogni cosa che amiamo viene distrutta dalle fiamme. Ogni anno scompaiono migliaia di specie animali e, per quel che riguarda l’umanità, per i nostri figli ci aspettiamo qualcosa che rasenta un genocidio pianificato… La cosa più interessante in tutto ciò è però che non sussiste il minimo dubbio sul fatto che la situazione sia questa, anche se naturalmente il mio resoconto è un po’ sommario e in tal senso decisamente apocalittico. L’epoca in cui simili studi venivano messi in questione, l’epoca dei negazionisti del cambiamento climatico è passata, come è passata quella dei negazionisti dell’Olocausto; oggi, semplicemente, continuiamo a rimuovere. Come altro spiegare che non ci strappiamo i capelli dalla disperazione sapendo di lasciare ai nostri figli un mondo letteralmente da incubo? E questa è la prima lezione nell’arte della resistenza: liberare la propria epoca dal quotidiano, osservarla fattualmente e pertanto in maniera “storica”, a partire dal futuro che ci è noto e che viene indicato da quello sguardo rivolto indietro proprio dell’angelo della storia dagli occhi spalancati per lo spavento, dipinto da Paul Klee e descritto da Walter Benjamin.[40]

 

Come ci racconta Carmen Horbsthel, collaboratrice di Rau alla drammaturgia, in un’intervista inserita nel programma di sala di Grief and Beauty riferendosi a Family, Milo Rau «used the collective suicide of a family to show Western society on the brink. Apart from the terrible ending there is nothing on stage but an ordinary evening: a study of small things, the beauty and banality of the daily life».[41]

La scelta di questo evento di cronaca procede di pari passo con la volontà di Rau di poter lavorare sul palco con un intero nucleo familiare. I Miller/Peteers sono stati eletti a rappresentare un doppio non coincidente ma sinesteticamente risonante con la famiglia di Coulogne. In questo specifico caso, anzi, sembra che la volontà di lavorare in scena con un intero nucleo famigliare preceda l’elezione dell’evento cronachistico. È Rau infatti ad affermare che, per concludere la Trilogia dei crimini moderni, fosse alla ricerca di un caso di cronaca e che la conoscenza di An Miller e della sua famiglia (una famiglia di artisti che sente affine al suo stesso nucleo familiare), e non l’inverso, lo abbia indotto a scegliere il caso Demeester. A testimonianza di ciò l’incipit di Anna Karenina («tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»), riportato nel programma di sala dello spettacolo,[42] ci induce a guardare l’opera come un corollario della tesi tolstojana. Seguendo il Principio di Anna Karenina, che nel 1997 Jared Diamond[43] espone in qualità di assioma logico-matematico applicabile alla sociologia e alla biologia, possiamo affermare che se tutte le famiglie felici – e i sistemi adattivi di successo – si assomigliano, le famiglie infelici sono tutte infelici in modo diverso. Spostandoci sul piano della convivenza tra le specie, dice lo studioso statunitense, solo gli animali che propongono schemi adattavi coniugabili con le abitudini umane sopravvivono, i non adattabili periscono, si estinguono.

L’Antropocene, insomma, è il tema. La morte il destino annunciato. Non si tratta di un dramma, piuttosto di una tragedia. Nessun conflitto, nessun attrito. Poiché questa è la differenza, afferma Rau riprendendo Steiner e La morte della tragedia: nella prima vi sono margini possibili di miglioramento, nella seconda nessuno.[44] Rimane solo l’accettazione del destino e il tempo che occorre a inscenarlo.

Accettare l’arte vuol dire accettare che tutto ciò che è umano sia troppo vasto per essere capito, ma al tempo stesso così indissolubilmente legato alle sue condizioni e alla sua natura da risultarci tragicamente trasparente e – ahimè – insopportabile.[45]

 

Su questo presupposto si basa l’elaborazione di un approccio realista, su cui Rau si esprime in modo radicale, in una dichiarazione di poetica incontrovertibile ancorché sempre in progress:

Perché in questo sta il compito fondamentale dell’arte realista: portare a consapevolezza un atto che si compie inconsapevolmente, rendendolo così discutibile sul piano morale e politico. Il realista deve fare delle proposte inaccettabili, mostrare fotografie che non vogliamo guardare o la cui bellezza ci risulta insopportabile. Questa è, per me, l’unica strada per fare dell’arte realista: intervenire realmente negli ingranaggi della Storia. Malgrado l’inevitabile ambiguità di ciascun punto di vista.[46]

 

Della storia privata che è il pretesto della narrazione scenica non riusciremo a sapere molto di più alla chiusura del sipario e lo stesso può dirsi di quella della famiglia ingaggiata per raccontarlo. È e rimane un vuoto che Rau non colma, ma che piuttosto desidera trasfigurare in metafora di un istinto autodistruttivo, proprio della classe borghese contemporanea. Della tendenza al consumo eccessivo, all’espropriazione, al travalicamento, al vivere, in poche parole, al di sopra delle possibilità oggettive di sostenibilità, (non solo ecologica, ma umana) ne abbiamo abbastanza? Qual è il compromesso non più accettabile? Qual è il limite che non permette ritorno? Ecco il tratto perturbante che la famiglia Demeester ha incarnato e che per Rau diventa esemplare. Una famiglia ha scelto di fare spazio. Questo potrebbe ripetersi. Questo potrebbe accadere a noi tutti. Questo in fondo sta già accadendo.

È curioso che Nicolas Bourriaud nel suo scritto di presentazione alla mostra del 2022 presso Palazzo Bollani, Planet B. From the sublime to inclusion,[47] citi Tolstoj. Usa le parole di Guerra e Pace per ricordare come l’autore russo descriva metaforicamente il solo sguardo possibile che un essere umano possa gettare sul presente: una nebbia in cui non si possono che riconoscere in filigrana le silhouette di forme non meglio identificabili. Il presente è l’Antropocene, che Bourriaud preferisce chiamare polemicamente Capitalocene. Senonché gli artisti, a detta del curatore, possono discernere le forme, perché la forma è il loro campo d’azione. E suggerisce il sublime come allegoria del non utile e del superfluo, in contrasto con l’economicamente produttivo, l’utile. Nel sublime inoltre riconosce, ricordando la definizione di Burke, la possibilità di guardare all’orrore con l’estasi del vedersi lontano dal pericolo, in perfetta linea con la folle assenza di realismo della società civile di fronte al catastrofico collasso ambientale.

In ragione dell’assunzione di responsabilità, che è il motivo animatore della creazione artistica di Rau, la rappresentazione scenica dell’impiccagione è mostruosamente verosimile. Così del resto si legge nelle note di regia: «In short: talking about suicide on stage without showing what it really is, would be irresponsible... Because that is exactly what theatre does: it replaces ideas, half of the information and its prejudices with experience. Whether these are pleasant, is of course, another question».[48]

È all'estetica dell’orrore e alla sua scandalosa declinazione[49] che bisogna guardare per capire fino in fondo le opere di Rau; alla «lacerazione come esperienza»,[50] allo «sguardo […] traumatizzato»,[51] più che pornografico,[52] che vede ciò che avrebbe preferito continuare a non vedere. D’altro canto Edipo dice: «E anzi, se avessi potuto, attraverso gli orecchi chiudere la fonte dell’udito, senza esitazione avrei sigillato questo mio corpo di sciagura, così che a un tempo fosse cieco e sordo».[53] Rau, come sostiene Maddalena Giovannelli, indaga in definitiva «i modi e le possibilità per rappresentare la tragedia nel contemporaneo. Mettere la morte al centro della scena senza rimuoverla, ripeterla ancora e ancora e così inverarla, condividerla con gli spettatori, decostruirla, ingabbiarla nella limpidezza della forma». sono le strade percorse dal regista».[54]

In dialogo con Rodolfo di Giammarco il regista affermava già nel 2020 che, alla luce dell’evidenza del collasso del sistema capitalistico, bisognasse riattivare il «tragico modo di pensare»:[55] «Prima di tutto dobbiamo capire che la nostra situazione non è drammatica, ma tragica. In altre parole il sistema in cui viviamo non può più essere riparato».[56] Perciò la tragedia è la forma che il teatro (e il pensiero) a noi contemporaneo dovrebbe assumere, perché «è l'arte della responsabilità umana, è l’accettazione che si deve agire, senza sapere bene la direzione. Tragedia significa che nulla è “riparabile”».[57]

Come può allora il grande, la Storia, interessare il piccolo? Qual è il collegamento che giustifica il fluire tra pubblico e privato? Tra il processo ai Ceauçescu, il genocidio dei Tutsi, il Nuovo Vangelo, Antigone e la morte di ‘una’ famiglia occidentale?

But I realised that they belong together: the big and the small stories, private life and large-scale politics. After all, these refugees and farm workers are only slaves because we consume the way we do, the Amazon only burns that we can live the way we live. And it doesn’t even make us happy.[58]

 

Si tratta in entrambi i casi di creare un’allegoria del sublime di cui le fonti sono le storie dei singoli, sempre intese come esemplari.[59] Difatti il solo scopo di narrare storie private per Rau è elevarle allo loro storicità, alla loro esemplarità: «Per me non avrebbe senso usare il teatro per queste storie private, se non fosse necessario come luogo di un’allegoria molto semplice: la trasformazione del destino in racconto».[60] L’allegoria in questo si mostra come tropo d'elezione proprio in rapporto al montaggio, al framing,[61] e quindi alla cornice.[62]

Il regista porta, quindi, in scena la morte della società occidentale esponendolo nel suo nucleo privato e più spaventevole: la famiglia, nido e patria («There is something you find in a family that you don’t find anywhere else: a kind of homeland, perhaps even meaning»).[63] Ma nella attenzione al dettaglio, alla ricostruzione minuziosa del reale nella sua quasi banalità, non si attiene alla specificità di risultati ricercati attraverso il re-enactment, anche se, come giustamente intuisce Gianmarco Bizzarri riferendosi all’Oreste in Mosul, l’impiego di questa tecnica

appare del resto perfettamente pertinente, dal momento che esso costituisce in prima istanza un meccanismo tragico: la ricostruzione di eventi trascorsi è infatti necessariamente intrisa di una percezione fatale, poiché porta con sé la coscienza che ciò che non è stato evitato una volta non può più essere modificato.[64]

Piuttosto, si avvicina agli effetti di contrasto ontologico che l’arte iperrealista[65] (penso ad esempio all’artista belga Berlinde de Bruyckere o alle opere della coppia Glaser/Kuntz) innesca con le sue pretese di verosimiglianza delle forme innescando attriti nella percezione del reale stesso.

Per questo la famiglia Miller/Peeters non è chiamata a rappresentare il suicidio della famiglia Demeester, ma, allegoricamente, il proprio. An Miller e Filip Peeters impersonano sé stessi, così d’altronde le loro figlie Leonce e Louise. Sono una vera famiglia. Una famiglia che accetta di assumersi il destino di un’altra, differente ma afferente allo stesso insieme: siamo al di là dell’effetto di reale, siamo alla responsabilizzazione del reale.

Rau compone una scultura sociale, cioè «uno spazio pubblico per gli artisti con cui lavoro, nel quale loro siano costretti ad assumersi la piena responsabilità di ciò che fanno. Uno spazio tragico».[66] Tuttavia ci sembra, in questo caso, che la combinazione degli elementi non raggiunga l’obiettivo «di passare dai fatti, dalle narrazioni, ad una sorta di situazione che parli di per sé».[67] Cosicché l’atto di consapevolezza che il suo teatro ha la pretesa e la reale possibilità (confermata da spettacoli di forme ed esiti diversissimi) di innescare, sia depotenziato. Quand’anche l’attenzione al dettaglio e alla riproposizione scenica dei gesti quotidiani sia in tutto verosimile, non appare - paradossalmente - teatralmente reale. Manca la scintilla della finzione che trasforma una sequenza di azioni in un paradosso di realtà.

A nostro avviso, seppur ci sia la ricerca del tragico, il tragico non avviene. Non perché il dramma sia escluso da questa vicenda. Piuttosto perché è assente dal presente, dal passato e dal futuro dei protagonisti, che percorrono lo schema drammaturgico fino all’atto finale senza che a noi arrivi la perturbante manifestazione dell’enigma. Manca, in altri termini, quello che Lehmann ritiene essenziale alla tragedia e che definisce come «una coerenza intrinseca inaccessibile… interdetta agli umani: il punto di vista degli dei».[68]

 

 

4. La morte come non l'avete mai vista

Il secondo capitolo della trilogia della vita privata, Grief and Beauty,[69] condivide con il primo la stessa impostazione scenica (un proscenio pressoché vuoto; più in là, al centro, una casa; uno schermo in alto che sovrasta la scenografia) e la stessa asciutta attenzione all’individuo e alle piccole cose. In dialogo ideale con Everywoman, Grief and Beauty affronta la sfida di rappresentare l’irrappresentabile: la morte nella sua dimensione di corpo svuotato, di sparizione. Tuttavia nell’opera ispirata al dramma allegorico Jedermann di Hoffmansthal, Milo Rau e Ursina Lardi (attrice e coautrice) hanno impostato una narrazione per microricordi che conducessero lo spettatore dentro il mondo memoriale e immaginifico di Helga Bedau, una donna che, prossima alla morte per una diagnosi di cancro, decide di partecipare con il suo «simulacro» ̶ presenza virtuale fantasmatica e protagonista della storia ̶ all’opera. Del resto «Questo è il teatro! Una persona morta che parla, un fantasma» afferma Rau per bocca dell’attore Johan Leysen ne La reprise.

Nella narrazione di Everywoman il nostro addentrarci come partecipanti al rito di commemorazione aveva il valore di una ricognizione poetica, di una riappropriazione della dimensione divina del quotidiano, trasfigurato dal medium teatrale in esperienza universale.[70]

 

 

 

Diversamente in Grief and Beauty il teatro diventa il luogo dell’esposizione del reale, o meglio, di ciò che della realtà preferiremmo non vedere: la morte nella sua cruda materialità. Riferendosi a questo progetto, e alla sua opera in generale, Rau parla esplicitamente di rimozione, come il disvelamento di un processo di obnubilazione perpetrato dalla società di massa capitalista ai danni dell’ecosistema e della struttura economica coloniale che ancora pervade l’abitudine collettiva del pensiero occidentale.

During the initial research, we noticed something strange: It seems as if the repression of one’s own death, of one’s own creatureness – which we already examined in Everywoman created last year in Salzburg – is an individual reflection of a much larger repression: of global dying, of the epochal disappearance of life, of the so-called “Sixth Mass Extinction” in the Anthropocene. It is almost as if not only a disappearance but an amnesia is taking place: Those who are young today do not even know what we have lost, having never known the birds, insects, landscapes that have disappeared. Grief & Beauty thus tries, I think, to establish a connection between different forms of disappearance and grieving: the disappearance of animal species, of life environments, of languages, of individual memory and existence. All this in concrete stories that we experienced and told each other during the research and rehearsals.[71]

Un rimosso che ha del grottesco, rispetto all’evidenza dell’estinzione incombente. In questo Rau opera scegliendo di strutturare i suoi lavori cercando una nuova dimensione tragica, come già in Family. Lo fa incastrando la drammaturgia in un sistema che nasce dal postdrammatico ma che lo supera per approdare ad un’arte realista e tragica.

 

 

Senza inoltrarci nella dimensione del tragico nietzschiano, ci interessa almeno evidenziare come la qualità apollinea che il filosofo riconosceva al dialogo e alla struttura dell’«intreccio processuale mirabilmente aggrovigliato, che il giudice scioglie lentamente, nodo su nodo, provocando la propria rovina»,[72] qui è negata. Non c’è apollineo perché non c’è la gioia della risoluzione dell’enigma. E non c’è mito, cosicché anche la qualità dionisiaca viene negata. Cosa ne rimane? A detta di Rau il tragico, ovvero qualcosa di inevitabile da osservare, in cui il dolore non oppone alcuna arma di redenzione.

Al contrario di Edipo, che rinuncia alla vista e dunque alla conoscenza, l’artista bernese impone di guardare, prendere atto e inorridire ancora e ancora. Inorridire non del castigo – perché sui crimini che Rau mostra non c’è un tribunale che sorvegli – ma di noi stessi. Perché come Edipo siamo rincorsi incessantemente dal passato che non lascia scampo al futuro. E, come l’eroe sofocleo, stiamo ricevendo segnali chiari di una resa dei conti fatale che il passato chiede di pagare con il futuro, che noi stessi abbiamo programmato: «questa era la regola della tragedia classica, il destino di Edipo: anche se hai chiuso con il passato, il passato non ha chiuso con te».[73] Tuttavia, se l’accecamento di Edipo fornisce con la sua estrema brutalità un viatico alla colpa contro la natura, la società tratteggiata da Rau non ha scampo. Può solo, come fa, essere mostrata per ciò che è: soggetto morente. In questo non è superiore alle specie animali e vegetali, tutte universalmente legate allo stesso destino di cui l’armonia, come una danza in cui versi animali, parole e musica diventano parte di un assolo, regala la sola redenzione possibile.

 

  Grief and beauty, directed by Milo Rau, 2022. Ph.: Michiel Devijver

 

Ed è, infatti, nella riappropriazione di un contatto nostalgico con la natura che Family e Grief and Beauty parlano lo stesso linguaggio. Il canto degli uccelli riconnette idealmente due interpreti (An in Family, Anne in Grief and Beauty) allo stato naturale inteso come status armonico, da cui ci si allontana con il tempo, con il lavoro, con la vita. In Family An ricorderà il suo passato in famiglia, la vita in fattoria e quindi il rapporto quotidiano con la natura. In Grief and Beauty Anne, veterinaria in pensione, riconosce dal cinguettio (registrato) diffuso in sala, le varie specie di uccelli; al contempo gli alberi riprodotti sullo schermo sfondano il perimetro della sala teatrale e della casa in cui Johanna ha vissuto gli ultimi anni di malattia.

Un ulteriore elemento indicativo dell’interesse del regista per una dimensione altra che riassembli l’umano con il non umano/animale in Grief and Beauty è il riferimento ai lupi, al loro modo di comunicare. Il pretesto è uno dei racconti di Anne, la quale, dopo la pensione, quando ha avuto la sensazione che la sua vita si fosse fermata, confessa di aver passato molto tempo su internet di notte; la scoperta di una webcam sempre accesa all’interno di un parco naturale popolato da branchi di lupi ha rappresentato per lei un viatico alla solitudine. Gli ululati (parafrasando le sue battute) che al nostro orecchio appaiono simili a lamenti sono forme di comunicazione sotterranee e inaccessibili; suonano, involontariamente, quel sentimento di dolore e struggente bellezza che il patto con la vita, nei suoi alti e bassi, ci chiede di accettare. Per questo anche lei, seguendo le voci degli animali, inizia in scena ad ululare e pian piano le si uniranno gli altri attori e anche, in questo mutuo rispondersi, il violoncello.

Come già precedentemente detto, Rau sceglie di mantenere lo stesso impianto scenografico di Family per cui il centro del palco è occupato dalla riproduzione di una casa divisa in tre ambienti: un bagno, una camera da letto (in cui spiccano flebo e medicine), una cucina. Eppure, diversamente da Familie, non c’è tetto e nessuna quarta parete fisica che ci separi dallo spazio dedicato esplicitamente alla finzione. Laddove, invece, in Everywoman si mostrava un palcoscenico pressoché vuoto ma abitato da pochi elementi simbolici (un pianoforte, un mangianastri, due massi, scatole piene di foto pronte per un trasloco) e, immancabile, uno schermo in alto, a sovrastare la scena.

 

  Everywoman, directed by Milo Rau, 2021. Ph: Armin Smailovic

 

Il proscenico pressocché nudo, eccezione fatta per le sedute laterali degli attori a destra e la postazione della violoncellista sulla sinistra, è, anche in questo caso, lo spazio deputato alla meta-teatralità; tuttavia, a differenza di Family, gli attori entrano in un rapporto diretto con il pubblico. Rivolgendosi ad essi senza intermediazione della telecamera, intessono una relazione di concreta vicinanza che si basa sulla qualità insindacabile dell’esserci nel presente, producendo l’effetto di una pretesa sincerità del dire.

Se la scenografia denuncia la ferma volontà di avere nella casa – nuovamente – il fuoco dell’attenzione, è lo schermo sovrastante che ci attira, espressione di un altrove che si preannuncia fertile di sorprese. È da lì che gli occhi sorridenti di una donna in là con gli anni ci guardano quando entriamo in sala. È lei ad accoglierci. Il resto del cast è seduto in proscenio. Da lì si muove una delle attrici, la più giovane, Princess Isatu Hassan Bangura, per prendere parola e presentarci la donna che vediamo riprodotta in video. Anche in questo caso Rau va dritto al tema fin dalle prime battute. Dolore e Bellezza comincia con la storia di questa donna, Johanna, che, malata da tempo, decide di morire il giorno successivo al suo ottantacinquesimo compleanno. Ha deciso di mostrare a tutti i suoi ultimi istanti per parlare a viso aperto e senza infingimenti della morte, «il più solitario dei cammini», dirà Princess, rivolgendosi al pubblico.[74]

Quello che procede da questo momento fino alla fine è una composizione che utilizza tutti gli elementi del teatro postdrammatico, ma con esiti opposti. I titoli, il monologo, l’intervista, la poliglossia, il documento d’archivio, l’intermedialità sono parte di una composizione sinestetica che interseca le storie dei quattro personaggi/persone per raccontarci con il loro esempio che in maniera inequivocabile le vite di tutti si somigliano. Non c’è una rottura del linguaggio che mostri l’incomunicabilità o l’assenza di significato. Al contrario, usando l'affermazione come metodo artistico (che riconosce al soggettivo il progetto umano collettivo)[75] espone il suo messaggio in modo semplice: facciamo parte della stessa storia, che ha, malgrado qualsiasi sforzo, lo stesso finale.[76]

 

  Grief and beauty, directed by Milo Rau, 2022. Ph: Michiel Devijver

I quattro interpreti (Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans) si fanno portavoce di storie di morte e rinascita, in cui, immaginiamo, si mescolino verità e finzione. Tanto che le vicende familiari si intersecano con le esperienze teatrali. Ed in questo modo che l’arte per eccellenza del paradosso di mimesi e riproduzione, diventa spazio reale e metaforico di compartecipazione.

Esemplare è il caso di Gustaaf Smans, che passa da una recitazione da persona a dramatis personae. Cosicché il suo rivolgersi al pubblico in maniera diretta diventa operazione di finzione dichiarata, ma non meno credibile, in almeno due momenti dello spettacolo. Una prima volta quando, raccontando un episodio degli inizi della sua carriera come attore cinematografico, passa dal comunicare direttamente dal proscenio alla platea la sua esperienza, ad un racconto privato tra lui, recitante un uomo in fin di vita, e Arne De Tremerie, che da collega si fa badante. Sorreggendolo per un braccio, Arne lo conduce con attenzione e dolcezza all’interno del mondo fittizio, eppure minuziosamente realistico, della casa. La seconda volta lo scarto tra recitazione diretta al pubblico e una teatralmente interposta sarà mostrato dall’interno dell’ambiente domestico. Seduto su uno scranno, nudo, dopo essere stato lavato da Arne, Gustaaf si rivolge alla telecamera e racconta del suo passato in teatro. Di quando una volta interpretò Primo Amore di Beckett. Nel recitare davanti alla telecamera il suo immedesimarsi nel racconto si fa così intenso, che il movimento citato dal ricordo della scena diventa vero cadere dallo scranno. Manifestando in questo modo apertamente la caratteristica principale del paradosso di poter travalicare, con semplici ma efficaci espedienti di tecnica attorale, la soglia tra differenti livelli di realtà. Il processo di commistione tra le due dimensioni, metateatrale e teatrale, viene amplificato dalle musiche che, inserite in modo extradiegetico, vengono poi riprodotte dagli apparecchi radiofonici all’interno della casa. Un espediente che in Everywoman era stato declinato tra la diffusione della voce e della musica in stereofonia e la riproduzione, fittizia, del suono come se provenisse da un mangianastri anni ’70.

È l’arte teatrale che permette il miracolo della morte e della sua riproducibilità. E Rau lo mette in scena così: Arne De Tremerie, incitato dai colleghi, mostrerà la fine del Piccolo Principe per come la interpretava quando, giovanissimo, fu ingaggiato per il suo primo ruolo; questa prima rappresentazione metateatrale della morte, mostrata all’inizio dello spettacolo in proscenio, sarà seguita da un’altra, di tipo prettamente teatrale, compiuta da Gustaaf Smans per (finta) eutanasia all’interno della riproduzione scenografica della stanza da letto; questa messa in scena precederà la realtà di Johanna, del suo spegnersi, mostrata in video[77] mentre il palco cade nell’oscurità.

L’immagine devastante dell’ultimo respiro di un essere umano ha un effetto detonante rispetto alla composizione artistica. La frantuma. Tanto che la morte in scena, rimedializzata, imprigionata come documento di archivio, è la pietra di paragone che fa esplodere il meccanismo teatrale. Il confronto tra l’intensità del concreto e la messa in scena è impietoso. Il tratto perturbante di questo estremo effetto di reale distrugge ogni possibilità di concessione poetica e di teatralità e ciò che appare prima e dopo non può che essere imparagonabile.

L’apparizione della morte nella verità materiale, seppur circoscritta nella cornice video, può definirsi fenomeno estetico? Non attenendosi al tempo della rappresentazione vive del tempo reale. È oltre, dunque, la soglia di ciò che può essere riprodotto, seppur contenuto in una forma mediatica riproducibile all’interno di un medium contenitore. Per questo non attiene al teatro in quanto non è finzione, non è rappresentazione. Ma è in esso contenuto come documento di archivio che espone lo scarto tra realtà e rappresentazione. Come ricorda Pinotti, da una tradizione platonistica in cui l’immagine era stata concepita

come ontologicamente e gnoseologicamente dipendente dal modello reale di cui era rappresentazione, con l’avvento fotografico avviene un fatale ribaltamento dei rapporti: chiediamo alla fotografia (e poi al video) di certificare che un avvenimento si sia effettivamente verificato, che una persona o un evento siano veramente esistiti. Nulla propriamente è se non è messo in immagine.[78]

Alla luce dell’estetica del terrore di Bohrer, che riconduce all’intensità e all’enigma le due qualità salienti del fenomeno estetico, e allo choc di Benjamin, è possibile relazionare il passaggio dalla vita alla morte di Johanna che si svolge davanti ai nostri occhi alla sensazione di perdita, di vuoto che segue il soprassalto? Siamo, insomma, i fruitori di un’esperienza che può essere inserita nel perimetro dell’estetica della responsabilità?

Di certo ciò che vediamo è il reale, il cui scarto con la rappresentazione si dipana implacabilmente davanti a noi. L’epifania che segue l’evento (traumatico) di riconoscimento della differenza, mostra come, superata la soglia dell’esperienza possibile, si apra il vuoto incommensurabile dell’altrove, dell’inconoscibile a cui nessuna forma di rappresentazione può porre rimedio.

 

  Grief and beauty, directed by Milo Rau, 2022. Ph: Michiel Devijver

 

Sollevate le mura che contenevano la casa, acceso sul fondo un faro che proietta luce rifratta da una tenue nebbia (come quella immaginifica alla fine di un tunnel), Arne, dopo un ultimo riferimento al Piccolo principe, suggerisce al pubblico di pensare all’origine e alle fine come un buco nero, che sia l’ultimo archivio in cui tutto è contenuto ̶ riprendendo idealmente l’immagine suggerita in Everywoman di una grande tela in cui tutto sia dipinto, ogni dettaglio, che suggellava il terzo e ultimo atto dell’opera.

Ma il vero finale è già accaduto. Non possiamo che accettarlo.

Io credo che le parole non ci sono, tanto non c’è niente da dire. Bisogna smetterla di insegnar parole. Bisogna chiuder le scuole e ingrandire i cimiteri. Ad ogni modo, un anno o cento è la stessa cosa: prima o poi si muore tutti. Ed è questo che fa cantare gli uccelli. Gli uccelli cantano e ridono per questo.[79]

1 M. Rau, R. Bossart, ʻSono un postmoderno senza atteggiamento postmodernoʼ in Id., Realismo globale, Imola, Cue Press, 2019, p. 15.

2 M. Rau, R. Bossart, ʻNon c’è un come se nei miei progettiʼ, in Id., Realismo globale, p. 47.

3 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 2000, p. 52.

4 Ivi, p. 51.

5 Ibidem.

6 M. Rau, ʻCos’è l'umanesimo cinico?ʼ, in Id., Realismo globale, p. 45.

7 «Per me è fondamentale pensare al concetto di evento in senso kierkegaardiano, quindi come ripetizione: da un lato come ricordo di un evento dimenticato (in quanto traumatico, represso, oppure, all'esatto opposto, banalizzato e del tutto ritualizzato dalla politica memoriale); dall'altro come presagio luminoso di una futura realtà che non si è ancora compiuta, dunque come “memoria preventiva” di qualcosa che deve ancora essere fatto, che deve ancora avverarsi.» M. Rau, R. Bossart, ʻCom’è stato quando il primo proletario è apparso sulla scena?ʼ, in Id., Realismo globale, p. 53.

8 Sull’allegoria del sublime si rimanda al paragrafo 3 del presente saggio.

9 M. Rau, ʻThe Last Days of the Ceaçescus. Eziolamento e narrazione collettivaʼ, in Id. Realismo globale, p. 79.

10 M. Rau, R. Bossart, ʻNon c’è un come se nei miei progettiʼ, p. 47.

11 M. Rau, R. Bossart, ʻSono un postmoderno senza atteggiamento postmodernoʼ, p. 17.

12 M. Rau, ʻCos’è il realismo globaleʼ, in Id., Realismo globale, p. 31.

13 M. Rau, R. Bossart, Sono un postmoderno senza atteggiamento postmoderno, p. 17.

14 Ivi, p. 15.

15 Ibidem.

16 «L'affermazione è un metodo artistico che Alain Badiou ha giustamente descritto come “aristocratismo proletario”. Si oppone alla professione di modestia, ma anche al culto dell'autenticità. Il metodo affermazione riconosce nel soggettivo il progetto umano collettivo, ma senza rinunciare ad alcuna qualità del soggettivo» (M. Rau, R. Bossart, ‘Non c'è un come se nei miei progetti’, p. 46).

17 B. Latour, ‘L’agency ai tempi dell’Antropocene [2014]’, Magazine, July 2017, <www.kabulmagazine.com/bruno-latour-lagency-ai-tempi-dellantropocene/> [accessed 19 June 2022].

18 Ibidem.

19 Per un approfondimento si richiama Castellari, il quale evidenzia l’assonanza del primo punto del Manifesto di Gent («Non si tratta più soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo. L'obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa.») con Marx e le sue Tesi su Fuerebach: cfr. M. Castellari ‘Il manifesto di Gand’, in Letteratura e letterature, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 13, 2019, pp. 137-140. Si veda inoltre M. De Marinis, ‘Sul Manifesto di Gent. Tre note tendenzioseʼ, Stratagemmi, 40, 2/2019, pp. 43-52. Per il secondo punto del Manifesto («Il teatro non è un prodotto, è un processo di produzione. La ricerca, i casting, le prove e le relative discussioni devono essere resi accessibili al pubblico») ci interessa almeno evidenziare la vicinanza con i ‘drammi didattici’ o ‘d’uso’ di Brecht in cui, come afferma Massimo Castri: «viene abolito il compito utilitario di giungere ad un prodotto finito, da presentare e vendere... mentre prende sopravvento decisamente il processo, la fase di elaborazione, della discussione, del confronto intersoggettivo, della invenzione e della elaborazione comunitaria» (M. Castri, Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud, Torino, Einaudi, 1979, p. 164). Inoltre ci sembra opportuno rilevare l’assonanza d’intenti con l’estetica relazionale nella definizione data da Nicolas Bourriaud come forma d’arte impegnata più a condurre un processo di scambio che alla creazione di un prodotto estetico: cfr. N. Borriaud, Relational aesthetics, Les Presses du Réel, Dijon, 1998.

20 C. Rovida, ‘Intorno a Milo Rau’, Stratagemmi, 40, 2/2019, p. 18.

21 Si usa qui il termine «attanti» in riferimento a Greimas nell’accezione che ne dà Latour, nel senso di ciò che definisce la «cornice», ciò che è «framed». Nell’ambito della sua teoria delle scienze sociali, e al fine del nostro discorso, si trovano interessanti corrispondenze, infatti, con ciò che Latour definisce per dispositivo, includendo un sistema di attori-rete nella relazione inter-oggettiva tra umano e non umano, e il concetto di «débrayage» come d’incidente che permette, nel presente, una riconduzione al passato in quanto «If time depends on associations, associations do not depend on time» (B. Latour, We have never been modern, Cambridge, Harvard University Press, 1993, p. 141).

22 Nell’accezione di sistema ibrido in B. Latour, Nous n’avons jamais ete modernes: Essais d’anthropologie symmetrique, Parigi, La Découverte, 1991.

23 F. Serrazanetti, ‘Tra individualità e storia collettiva’, Stratagemmi, 4 dicembre 2017 < https://www.stratagemmi.it/tra-individualita-e-storia-collettiva-intervista-a-milo-rau/ > [accessed 21 settembre 2022].

24 Nei tre capitoli che compongono la trilogia, le vicende biografiche di attori professionisti ed «esperti del quotidiano» si mescolano in un racconto sovra-biografico che ha come scenario il continente europeo. Con esperto del quotidiano Rau identifica quegli attori che non per formazione accademica, ma per biografia sono competenti ad assumere un ruolo affidato nelle sue rappresentazioni. Sull’argomento si veda M. Rau, Realismo globale.

25 M. Rau, Realismo globale, p. 47.

26 Le 120 giornate di Sodoma traggono spunto da De Sade e Pasolini. La particolarità di questo spettacolo è la componente attorale. Gli interpreti sono tutti affetti dalla sindrome di down e sono chiamati a inscenare le torture descritte nell'opera letteraria e filmica. Il meccanismo di esposizione della violenza in questo caso è rivolto a mettere il pubblico nella spiacevole condizione di non poter volgere lo sguardo altrove rispetto alla violenza intensa come mancanza di diritti delle persone affette da disabilità.

27 Five eyes pieces riprende nel titolo un accostamento ai Cinque pezzi facili di Strawinsky e ai Seven easy pieces di Marina Abramovich. In particolare lo spettacolo si muove su due crinali, da un lato la rappresentazione come meccanismo paradossale della ripetizione e dell'istantaneità, dall'altro la denuncia della violenza dell'immagine e della sua replicabilità. In un meccanismo metateatrale i protagonisti della vicenda (giovanissimi attori appartenenti al centro artistico CAMPO di Gent) sono chiamati a partecipare ai provini e poi a mettere in scena parti della vicenda del pedofilo e omicida Marc Dutroux. Su quell’affaire che la rete dei suoi crimini ha evidenziato, in una sconvolgente compromissione con le istituzioni, si basa anche il meccanismo dello spettacolo che mette in crisi il sistema di attivazione fenomenologico tra spettatori e attori nel momento in cui, da adulti, assistiamo alla messa in scena di un casting in cui il regista chiede ad un’attrice bambina di spogliarsi davanti alla telecamera (e quindi a noi). In questo modo Rau ci rende responsabili di un inquietante atto voyeuristico. In The Repetition (La Reprise) l’evento storico pretestuale è l’uccisione di un giovane omosessuale, Ihsane Jarfi, a Liegi da parte di un gruppo di coetanei. In scena una riproduzione verosimile del contesto in cui si è perpetrato l'omicidio. Lateralmente una scrivania a cui sono seduti i conduttori dei provini per la produzione stessa dello spettacolo. Una telecamera riprenderà la violenza e la esporrà, in tutto la sua drammaticità iperrealistica, sullo schermo che sovrasta la scena. Al pubblico si offre la morte di un uomo come il frutto di un'indagine. Family, come si vedrà in dettaglio, ha come elemento attivatore documentale il misterioso suicidio di un’intera famiglia di Coulogne, a pochi chilometri da Calais.

28 Una nuova trilogia su I Miti è appena stata conclusa con l'ultimo capitolo: Antigone in Amazzonia. Le due opere precedenti che ad essa tematicamente si collegano sono entrambe del 2019: Oreste in Mosul e The New Gospel (Il Nuovo Vangelo).

29 Visto in presenza presso La Colline, Théâtre National, Paris, il 28 gennaio 2023, l'analisi dell’opera si avvale anche del materiale video di archivio messo gentilmente a disposizione da NtGent Theatre. Non è stato possibile, invece, reperire il prodotto cinematografico composto in sostituzione dell’opportunità di una fruizione live dell’opera, dovuta alle necessarie restrizioni imposte agli eventi dal vivo durante il periodo pandemico da Sars Covid 19. Tuttavia, per fornire almeno qualche dettaglio in merito indichiamo: A. Engelen, ‘Recensione: Family’, Cineuropa, 13 settembre 2021 <https://cineuropa.org/it/newsdetail/410350/ > [accessed 14 july 2023].

30 M. Rau, Realismo globale, p. 21.

31 M. Rau, ‘Program Familie’, NtGent, < https://issuu.com/ntgent/docs/programmaboekje_familie_issuu_en/s/10128098 > [accessed 11 June 2022].

32 Ibidem.

33 «L'opera scenica può essere estraniata nel suo complesso mediante il prologo, l'antefatto o la proiezione di titoli» (P. Szondi, Teoria del dramma moderno, p. 99).

34 «... il meccanismo filmico, elemento costante dei lavori del regista, viene da lui utilizzato, secondo un procedimento dialettico, per accrescere, negare e riaffermare il senso di verità dell’atto artistico» (G. Bizzarri, ‘Tra utopia e reportage: Milo Rau e Pier Pasolini, Stratagemmi, p. 179).

35 P. Szondi, Teoria del dramma moderno, p. 95.

36 M. Rau, Realismo globale, p. 20.

37 M. Rau, R. Bossart, ʻIl reale del simulacroʼ, in Id., Realismo globale, p. 26.

38 M. Giovannelli, ´Il personale è politico`, Sguardi sul contemporaneo. Il politico è osceno, I Quaderni del FIT, 2017, p. 24 < https://www.stratagemmi.it/i-quaderni-del-fit/ > [accessed 16 June 2023].

39 C. Rovida, ‘Intorno a Milo Rau’, pp. 16-17.

40 M. Rau, L'arte della resistenza, Roma, Castelvecchi, 2020, pp.13-14.

41 M. Rau & Ntgent, Press File Grief & Beauty, Augustinpdr.de, Berlin, 2021, p. 3.

42 Ibidem.

43 J. Diamond, Armi, acciaio, malattie, Torino, Einaudi, 2014.

44 Cfr. M. Rau, L'arte della resistenza, p. 27.

45 M. Rau, Realismo globale, p. 99.

46 Ivi, p. 35.

47 N. Bourriaud, Planet B - Climate change and the new sublime. Radicants, Palazzo Bolani, Paris, 2022.

48 M. Rau, ‘Program Familie’, NtGent, < https://issuu.com/ntgent/docs/programmaboekje_familie_issuu_en/s/10128098 > [accessed 11 June 2022].

49 «Privata del suo canto e insieme della sua spiegazione, la naturalezza di queste immagini obbliga lo spettatore a una interrogazione violenta, lo impegna sulla via di un giudizio che egli stesso elabora senza essere intralciato dalla presenza demiurgica del fotografo. In questo caso dunque si tratta proprio di quella catarsi critica richiesta da Brecht, e non più, come nel caso della pittura di soggetto, di purga emotiva: si trovano forse qui le due categorie dell'epico e del tragico. La fotografia introduce allo scandalo dell'orrore, non all'orrore in sé» (R. Barthes, ‘Fotografie-chocʼ, in Id., Miti d'oggi, Torino, Einaudi, 1994, p. 104).

50 M. Rau, Realismo globale, 27.

51 Ivi, p. 21.

52 G. Manzella, ‘«Familie», la questione etica secondo Milo Rau’, il Manifesto, 26 settembre 2020 < https://ilmanifesto.it/familie-la-questione-etica-secondo-milo-rau > [accessed 7 March 2023].

53 Sofocle, Edipo Re, Venezia, Marsilio, 2008, p. 307.

54 M. giovannelli, ʻMilo Rau nel laboratorio della tragedia classicaʼ, Stratagemmi, 40, 2/2019, p. 156.

55 R. Di Gianmarco, ‘Milo Rau: dopo il coronavirus Cechov e Shakespeare non ci basteranno più’, la Repubblica, 18 aprile 2020 < https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2020/04/18/news/milo_rau-254367802/ > [accessed 17 Octber 2022].

56 Ibidem.

57 Ibidem.

58 M. Rau, ‘Program Familie’, NtGent, < https://issuu.com/ntgent/docs/programmaboekje_familie_issuu_en/s/10128098 > [accessed 11 June 2022].

59 M. Rau, Realismo globale, p. 47.

60 Ivi, p. 46.

61 Sul concetto di «framing» in Rau si rimanda a M. Rau, R. Bossart, ʻCom'è stato quando il primo proletario è apparso sulla scena?ʼ, in Id., Realismo globale.

62 Per l'allegoria in rapporto alla cornice e all’esperienza dello choc si indicano: R. Barthes, Miti d'oggi; W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1999; M. P. Ellero, Introduzione alla retorica, Milano, Sansoni, 1997; E. Fisher-Lichte, Estetica del performativo, Roma, Carrocci, 2016; A. Pinotti, (a cura di), Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, Torino, Einaudi, 2018, Ebook.

63 M. Rau, ‘Program Familie’, NtGent, < https://issuu.com/ntgent/docs/programmaboekje_familie_issuu_en/s/10128098 > [accessed 11 June 2022].

64 G. Bizzarri, ʻLe Erinni di Mosul: reportage di una tragediaʼ, Stratagemmi, 40, 2/2019, p. 181.

65 «La scelta iniziale di restringere il raggio d’azione alla sola trasmissione radio-fonica è giustificata dal voler rievocare un piccolo frammento della grande Storia e metterlo così in evidenza – esporlo in maniera iperrealista – da mostrarne i dettagli e le sfumature, fino a scorgerne all’interno i riflessi di tutte le forze in campo, compresi i modelli consumistici dell’epoca» (R. Sacchettini, ʻIl tamburo tribale del Ruandaʼ, Stratagemmi, 40, 2/2019, p. 113).

66 Ivi, p. 18.

67 Ivi, p. 21.

68 H.T. Lehmann, Il teatro postdrammatico, CuePress, Imola, 2017, p. 199.

69 Lo spettacolo è stato visto in presenza il 21/01/2023 presso La Colline, Théâtre National, Parigi. Per l’analisi ci si avvale anche del materiale video di archivio cortesemente fornito da NtGhent.

70 Sull'opera è in via di pubblicazione un mio scritto dal titolo ʻEverywomanʼ di Milo Rau e Ursina Lardi. L’importanza di ʻOgnunoʼ in tempi di crisi.

71 M. Rau, C. Hornbostel, ʻTrying to share something that is not shareableʼ, Press File Grief & Beauty, pp. 5-6.

72 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 2009, p. 65.

73 R. Di Gianmarco, ‘Milo Rau: dopo il coronavirus Cechov e Shakespeare non ci basteranno più’, la Repubblica, 18 aprile 2020 < https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2020/04/18/news/milo_rau-254367802/ > [accessed 17 Octber 2022].

74 M. Rau, Grief and Beauty, 2021. Citazione puntuale delle battute di Princess Isatu Hassan Bangura, interprete dello spettacolo.

75 «L'affermazione è un metodo artistico che Alain Badiou ha giustamente descritto come «aristocraticamente proletario». Si oppone alla professione di modestia, ma anche al culto dell'autenticità. Il metodo dell'affermazione riconosce nel soggettivo il progetto umano collettivo, ma senza rinunciare ad alcuna qualità del soggettivo. Per me ogni attore, ogni persona che intervisto o con cui lavoro è la prima e l'ultima, è la persona esemplare. Il metodo dell'affermazione è dunque, in una frase, fare dello specifico l'esemplare senza abbandonare il minimo dettaglio dello specifico» (M. Rau, Realismo globale, p. 46).

76 M. Rau, R. Bossart, ʻNon c’è un come se nei miei progettiʼ, p. 46.

77 «Nella prassi teatrale antica, la morte si avvicinava alla platea non solo attraverso il racconto funebre del messaggero, ma anche grazie alla macchina scenica: un carrello girevole (ekkúklema) trasportava i cadaveri che venivano così letteralmente fatti rotolare in scena. La mechané di Rau è naturalmente lo schermo che, agendo in sinergia con la parola, apre il sipario su morti avvenute altrove nel tempo e nello spazio» (M. giovannelli, ʻMilo Rau nel laboratorio della tragedia classicaʼ, p. 153).

78 A. Pinotti, Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale, Torino, Einaudi, p. 75.

79 B. M. Koltès, ʻRoberto Zuccoʼ in Id., Da Sallinger a Roberto Zucco, Milano, Ubulibri, 2005, p. 81.