L'origine du monde e Lichen di Alice Munro

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The story Lichen by Alice Munro revolves around the description of a photograph. The revelation of the photographed subject is prepared with great suspense: a women’s torso with open legs and genitals in view, which recalls the famous painting, L’origine du Monde, made by Gustave Courbet in 1866 for the Turkish ambassador Khalil Bey and lately owned by Jacques Lacan. The photograph is the fetish object which David, a mature man reluctant to accept ageing, shows to his ex wife Stella, in search for provocation and perhaps a liberation from his obsession with young lovers that he keeps on changing. Stella does not see in the picture the body fragment of a provocative young woman but the fur of a poor animal without its head, or more poignantly a bush of lichen. The photograph left in Stella’s house fades because of the sunlight coming through the window and when she later finds it again a full metamorphosis seems to have occurred: it has become a grey spot, with no recognizable outlines, a bush of lichen. Her words have come true. The photograph works as the trigger of the plot and reflects the desire dynamics between women and men, but it conveys also the faith in writing as a way of seeing through, of seeing more. Perfectly disguised in the plot of the novel, L’origine du Monde is the core of the narrative interplay Munro builds up between desire, words, imagination, reality and the essence of a work of art.

Tengo le fotografie non per quello che mostrano ma per quello che vi è nascosto

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Nel racconto Lichen, incluso nella raccolta The Progress of Love,[1] Alice Munro mette in scena un repertorio di personaggi e di dinamiche relazionali piuttosto tipico della sua produzione narrativa: una coppia di ex coniugi, Stella e David, lei vitale anche se non più attraente d’aspetto, lui impegnato a ricacciare lo scorrere degli anni con fidanzate effimere e sempre più giovani; un vecchio padre ricoverato in una casa di cura; Catherine, una delle vittime dell’insaziabile quanto disperato istinto predatorio di David; sullo sfondo, chiamata in causa attraverso una fotografia, che ne ritrae solo il pube, e una telefonata alla quale non risponde, Dina, la studentessa con cui David vorrebbe sostituire la non più giovanissima Catherine.[2]

L’ambientazione rurale, lungo le rive di un lago, completa il quadro di questa middle station of life canadese con la quale Alice Munro ci ha da tempo familiarizzato, attraverso una produzione di racconti che costituisce un vasto insieme di variazioni sui temi del rapporto femminile/maschile, dell’autodeterminazione verso l’ethos comunitario, delle apparenze rispetto alle verità individuali, delle mistificazioni-rivelazioni della memoria.[3] I personaggi e le situazioni raccontate da Munro nel loro essere ordinarie, nel loro essere scelte non perché eccezionali ma comuni, in che cosa ripongono la capacità di attrazione e di coinvolgimento per il lettore, al di là di una generica immedesimazione in vite caratterizzate, come quelle di molte donne del ceto medio occidentale da almeno due secoli a questa parte da un matrimonio o da un mancato matrimonio, da una parabola di emancipazione, da un tradimento, da un segreto legato a un’eredità, a un torto fatto o subito? Con quali mezzi, di trama e di stile, la scrittrice riesce a sviluppare empatia e interesse?

Si potrebbe dire che Munro rende interessanti le storie individuali tagliandone temporalmente i segmenti in modo che non siano mai lineari e attraversa la coscienza dei personaggi in modo che la raffigurazione interiore delle vite non aderisca mai del tutto alla loro manifestazione apparente.

In ogni suo racconto opera uno scarto fra quanto i lettori, e i personaggi stessi, sanno e quanto realmente accade, è accaduto o accadrà.[4] In questi punti di scollamento s’inserisce di norma la possibilità di una rivelazione che per le eroine femminili si traduce in un accrescimento di consapevolezza del proprio destino o dei fatti della vita.

Ed è in questi stessi punti di incrinatura che il lettore avverte quel potenziamento della propria esperienza personale e conoscitiva che costituisce gran parte del fascino delle storie di Munro. I mediatori di tali scoperte sono frasi, pronunciate o scritte, lettere, immagini che riaffiorano o vengono ripensate per cogliere un senso che è sempre ulteriore, spesso mai definitivo, piuttosto, in grado di mantenere molte sfumature di segreto rispetto all’intreccio narrativo e all’interiorità dei personaggi.

Quando a fare da mediatore è un’immagine lo spazio semantico si amplia notevolmente, lo si vede molto bene ne La vergine mendicante (The Beggar Maid, uscito nella raccolta Who do you think you are?) che prende il titolo da un noto dipinto di Edward Burne Jones esplicitamente menzionato e descritto nel racconto, dove funge da snodo simbolico e da rispecchiamento del rapporto di coppia fra l’io narrante femminile, Rose, e il fidanzato Patrick, ma viene ribaltato nel finale dall’esito disastroso della relazione e perfino dall’impossibilità di mantenerne, a posteriori, un buon ricordo.[5]

Ancora più interessante è il caso di Lichene dove l’immagine che fa da motore allo srotolarsi di una trama essenzialmente priva di eventi è una fotografia, il cui soggetto e la cui descrizione costituiscono una vivissima ekphrasis del celeberrimo dipinto di Gustave Courbet, L’origine du monde.[6]

Fin dall’incipit del racconto, che inizia con la descrizione di un villino sul lago, troviamo un esempio della tecnica di frammentazione temporale applicata alla soggettività dello sguardo:

Il padre di Stella l’aveva costruita come casa per l’estate sul promontorio argilloso che domina il lago Huron. In famiglia la chiamavano sempre “il villino estivo”. Vedendola per la prima volta, David si meravigliò che non possedesse né il fascino nodoso del legno di pino, né la grazia raccolta che la definizione evocava. Ragazzo di città, proveniente, come dicevano i genitori di Stella da “un ambiente diverso”, che poteva saperne David, di villini estivi? L’edificio era ed è una costruzione alta e sobria, in legno dipinto di grigio: copia esatta delle vecchie cascine della zona, sebbene forse un po’ meno solida.

Il lettore è messo a confronto con un’immagine mentale ed emotiva, quella di David, che oltre ad essere scalata nel tempo, rispetto al momento del racconto situato molto dopo, è anche subito smentita, sia nella sua oggettiva materialità sia nell’opinione dei genitori di Stella. Anziché mirare a un effetto di realtà le descrizioni di Munro insinuano il dubbio e lo scomporsi in pluralità percettive del mondo, ed è proprio in questi spazi che si giocano le dinamiche di relazione e scoperta che interessano all’autrice.[7]

La fotografia ispirata al dipinto di Courbet compare quattro volte nel corso della storia, le prime due senza che si sappia cosa raffigura, quindi con un effetto di suspense e di attesa, una terza volta quando viene accuratamente descritta, e un’ultima quando ha subito un’alterazione del colore tale da risultare illeggibile, e tuttavia non meno carica di significato. Si tratta quindi di un oggetto fondamentale nella narrazione per lo svolgersi della trama e per la sua funzione di catalizzatore di senso.

La sua prima apparizione è nel corso di una conversazione che David e Stella hanno con alcuni conoscenti all’uscita del negozio di liquori in cui si sono fermati per acquistare la bottiglia di whisky che David regala ogni anno al padre di Stella, in occasione del compleanno. Alla bonaria esibizione di cordialità degli amici di Stella, Ron e Mary, fieri dei loro interessi da attivi pensionati, David risponde estraendo dalla tasca della giacca una fotografia che mostra a Ron, dichiarando con sprezzante sorriso che questo è uno dei suoi interessi. Poco dopo l’attenzione viene di nuovo riportata sulla fotografia poiché in auto David chiede a Stella se desidera vedere ciò che ha mostrato a Ron, augurandosi che questi l’abbia apprezzato. Stella declina, ma non viene risparmiata dalla visione della fotografia che David riesce a imporle mentre chiacchierano in cucina, durante i preparativi per la cena.

«Ecco la mia nuova ragazza» dice. La reazione di Stella è pronta e il personaggio, prima ancora che ci venga data una descrizione che qualifichi il soggetto della fotografia, opera una traslazione di ciò che vede: «Sembra un lichene. Solo che è un po’ troppo scuro. Mi ricorda del muschio su un sasso».

Ma cos’è che vede Stella incalzata da David, deciso a provocarla a tutti i costi?

C’è un seno appiattito in lontananza, verso la linea dell’orizzonte. E le gambe aperte in primo piano. Sono proprio spalancate – lisce, dorate statuarie come colonne. Nel mezzo la macchia scura che Stella ha chiamato muschio, o lichene. In realtà assomiglia più al pelo di un animale cui siano stati mozzati testa, coda, e arti. La scura pelliccia morbida di uno sventurato roditore.

Questa descrizione ricorda inequivocabilmente il dipinto di Courbet eseguito nel 1866, L’origine du monde, un dipinto destinato a essere ammirato, per un secolo intero, nell’ambito di un collezionismo sofisticato intellettuale ed esclusivo, dalla raccolta del diplomatico turco Khalil-Bey, suo primo proprietario, fino a quella del celebre psicanalista Jacques Lacan suo ultimo. L’estremo realismo con cui sono raffigurati i genitali di una fanciulla sdraiata, di cui si vedono solo le cosce e la prima parte dell’addome, e la sovrastruttura simbolica data dal titolo furono ritenuti motivi sufficienti a considerare il dipinto come destinato a una fruizione privatissima, quasi nascosta.[8]

L’immagine, tradotta in fotografia, entra viceversa nel racconto di Munro come oggetto proibito imposto con sfacciataggine all’attenzione. Con l’intento di scandalizzare Stella, che pazientemente ne sopporta le confidenze, David esibisce un trofeo – la fotografia – che dovrebbe testimoniare la sua passione per una giovanissima studentessa trasgressiva con la quale intende soppiantare la fragile Catherine.[9]

Ma Stella trasferisce con un paragone visivo l’immagine dal campo erotico a quello funebre-animale (un roditore mutilato) a quello vegetale, (sembra un lichene); smorza la qualità estetica che pure riconosce – nelle gambe lisce, dorate e statuarie come colonne – e ne individua la natura di preda catturata, di residuo inanimato. In poche parole: ne coglie il valore di feticcio.[10]

L’immagine così riletta da Stella comunica la pena della condizione femminile, come oggetto passivo di desiderio, in cui lei stessa, Catherine e Dina sono accumunate, infatti nello scambio di battute che segue l’esibizione della fotografia risulta evidente il gioco dei ruoli e delle dinamiche antiche fra marito e moglie: David che millanta nuove conquiste amorose e Stella che ostenta freddezza, anche se prova fastidio nel rivedere in questa girandola vacua il fallimento del proprio rapporto con David («A Stella sfugge un sospiro più rumoroso ed esasperato di quanto fosse nelle sue intenzioni»).

Tuttavia l’immagine di una sessualità esibita, provocatoria e feticista, contenuta nella fotografia non è esclusivamente piegata a fare da specchio a una condizione femminile di minorità. Nel corso della cena David si assenta con una scusa per andare a fare una telefonata a Dina. Il telefono al quale la chiama suona a vuoto, David riprova con il numero di quello che sospetta essere il suo amante coetaneo, ma anche questo non risponde. Si fa allora prendere dall’angoscia e dal dubbio di essere a sua volta poco più che un diversivo per una ragazza troppo giovane per essere realmente interessata a lui. Nel frattempo Catherine, rimasta sola con Stella, le confessa che David, ossessionato dalla giovinezza, ha iniziato a tingersi i capelli.

L’umiliazione che, fino a questo punto del racconto, era quasi tutta al femminile diventa fardello comune, anche di David. Tutti, uomini e donne, invecchiano, s’ingannano con amori destinati a evaporare, con struggimenti che consumano. Cosa rimane in questo processo distruttivo? La fotografia, intenzionalmente lasciata da David in casa di Stella. Stella la ritrova una settimana più tardi mentre riordina il soggiorno, dietro le tende in un angolo della finestra. Ovviamente stando al sole è sbiadita, i colori hanno virato: l’immagine, qui alla sua finale apparizione, si è sfuocata del tutto.

Le parole di Stella sono diventate realtà. Il contorno del seno è svanito. Impossibile riconoscere in quelle un paio di gambe. Il nero è diventato grigio, la tinta arida e tenue di un vegetale misteriosamente nutrito dalle rocce. «Colpa di David. L’ha lasciata lì al sole». La fotografia è il lascito di David, l’eredità scomoda di un uomo e di una relazione da cui Stella avrebbe voluto liberarsi. Nel corso della loro vita coniugale, rievocata nel racconto, era stata Stella infatti a dire: «Siamo stati tanto tempo insieme, non si potrebbe tagliare corto ora?».

Tagliar corto non è possibile perché David, nella cornice di una ex-coppia emancipata che non ha interrotto i propri rapporti, ha fatto di Stella, in questo compiacente, una confidente delle proprie traversie amorose prolungando un legame sempre pronto a riemergere nei ricordi comuni, nell’irrisolutezza delle reciproche ferite.

Ma il feticcio di David, un oggetto talmente carico di fantasmi che David chiede a Stella di custodirlo per lui, poiché dichiara di sentire l’irrefrenabile desiderio di mostrarlo a Catherine e rompere così nell’immediato una relazione già languente, ha subito una metamorfosi che ne ha rivelato appieno la natura.

Bruciati dal sole i colori e i contorni, è emersa l’immagine vera, quella che Stella aveva visto oltre il visibile: di Dina a David non importava un granché, di lei non sarebbero rimasti che una macchia senza sagoma, un ricordo sbiadito e intercambiabile con quello di altre che l’avevano preceduta o che l’avrebbero seguita.

Stella intuisce tutto questo al primo colpo, vede oltre quello che David le mostra, prevede l’esito di una storia che s’incarna nella metamorfosi materiale del suo feticcio fotografico.[11]

La fotografia sbiadita nel momento in cui non restituisce più le fattezze della ragazza, ma solo un mucchietto di pelo, ed è quindi al massimo grado finzione, deformazione e trasfigurazione del reale, coincide con la verità più profonda. Esattamente quello che Munro mette in atto con la propria scrittura piena di dettagli realistici che nulla hanno di meramente descrittivo ma tendono sempre a cogliere la piega in cui la realtà si trasforma in qualcosa d’altro.

Il soggetto della fotografia è diventato un lichene, le parole di Stella si sono avverate.

E che cos’è un lichene se non una sopravvivenza vegetale che caparbiamente afferma la propria vita sulle rocce inospitali di cui si nutre? Una pianta simbiotica che presuppone un equilibrio stabile con l’ambiente. Non più un animale mutilato ed esposto crudamente al nostro sguardo, bensì una pianta pervicace in grado di sopravvivere nelle condizioni meno favorevoli. Nell’ipertesto visivo e verbale che Munro costruisce, il lichene, che in inglese si pronuncia in maniera omofona al verbo “to liken” (congiungere, portare insieme per processo di rassomiglianza), quadro e fotografia, David e Stella, maschile e femminile si ritrovano assimilati a un processo di rigenerazione.

Come il soggetto del dipinto L’origine du monde voleva essere una riflessione sul luogo oscuro da cui nasce la vita, così il lichene in cui si trasforma, per combustione prima dell’immaginario poi della materia vera e propria, è l’equivalente di un processo di generazione e rigenerazione che avviene per il tramite della parola.

Alice Munro, evitando in questo caso il paragone su cui era basato viceversa il racconto La vergine mendicante, ha operato in Lichene una doppia trasposizione: dal dipinto alla fotografia, dalla fotografia alla sua descrizione verbale, fino alla dissoluzione della sua materialità e alla sua trasformazione metamorfica e metaforica. Ed è tanto più significativo che nella finzione narrativa il dipinto sia stato tradotto in un’immagine fotografica: è alla fotografia che genericamente si attribuisce un valore testimoniale e documentaristico ma nel racconto, viceversa, si rivela ambigua e inaffidabile.

Infatti non è il soggetto evidente della fotografia, il ritratto impudico del bacino di una giovane donna, ciò che Stella vede e verbalmente descrive, piuttosto un suo traslato. L’esito di un atto distruttivo, frutto dell’ennesima proiezione della paura di morte e invecchiamento di David che, non a caso, abbandona la fotografia in casa di Stella, per liberarsi del proprio demone.

In questa parabola s’inscrive il disegno delle vite sentimentali di Stella e David, ma anche una metafora della scrittura stessa di Alice Munro.

Le parole di Stella sono diventate realtà. Questo pensiero le tornerà spesso in mente: una sospensione inattesa, un mancamento improvviso del cuore, una breve fitta ribelle nel fluire dei giorni che lei ininterrottamente manda avanti.

La fitta ribelle che colpisce Stella è l’incrinatura dove la narrazione di Munro si fa rivelatrice di ciò che soggiace e oppone resistenza al fluire consequenziale degli eventi e dei giorni.

Lichene può essere letto come un manifesto di poetica, poiché rispecchia la trasformazione laboriosa e dissimulata con cui Munro tratta i propri materiali narrativi, solo apparentemente resi al naturale, come il fluire disinvolto e casuale delle conversazioni e dei pensieri dei suoi personaggi. Il riferimento al quadro di Courbet è perfettamente annegato e assorbito all’interno del testo, tanto che potrebbe sfuggire al lettore che non abbia nozione del dipinto, e non per questo il racconto perderebbe in efficacia espressiva o consequenzialità. La dissimulazione è una cifra profonda della scrittura di Munro, all’interno di quella medietas di vite e di orizzonti che con coerenza racconta, ma è anche un gesto autobiografico: in più di un’occasione Munro ha raccontato la difficoltà di dare spazio a una vocazione, quella letteraria, vista come stravagante e perfino disdicevole, specie per una donna, all’interno della comunità in cui viveva.

La dissimulazione dei riferimenti, specie di quelli colti, e degli artifici rende la sua scrittura prossima agli effetti del più classico naturalismo, ma è in racconti come Lichene che intravediamo la grande manipolazione necessaria al raggiungimento di tale effetto e la fiducia, metaforicamente espressa nella combustione-metamorfosi della fotografia, che solo dopo avere bruciato molto la scrittura possa generare qualcosa di essenziale e destinato a sopravvivere.

È possibile circostanziare il modo in cui Munro venne a conoscenza del dipinto che in Lichene occupa un posto tanto centrale, anzi, che si direbbe al cuore della sua stessa composizione?

Il racconto fu scritto da Munro in un periodo precedente al 1985, prima data di pubblicazione. Non sappiamo se la scrittrice fosse a conoscenza dell’ubicazione de L’Origine du Monde, che rimase vaga nella bibliografia fino al 1986, quando Elisabeth Roudinesco nel secondo tomo de L’Histoire de la Psychanalise en France rese noto che il dipinto era stato posseduto da Jacques Lacan e custodito nella biblioteca-atelier della casa di campagna di Guitrancourt, dove lo psicanalista si ritirava per ricevere ospiti insieme alla seconda moglie, Sylvie Bataille. Il dipinto veniva occasionalmente mostrato, e con un certo cerimoniale da parte di Lacan, a visitatori speciali, artisti e studiosi. Non è possibile escludere del tutto che Munro conoscesse tale ubicazione e i rituali di cui il dipinto era fatto oggetto, ma è più probabile che lo conoscesse attraverso quelle pubblicazioni come il numero 59 dell’«Art Press» del maggio 1982, dedicato all’osceno, o attraverso testi come Le Sexe de la femme di Gérard Zwang (Paris, 1976) o altri manuali di storia dell’erotismo in cui figurava il dipinto, riprodotto sempre con la fotografia, non dell’originale di Courbet, bensì di una fedele copia.

D’altra parte, il quadro originale fu esposto al pubblico americano solo in occasione della mostra, Courbet reconsidered, organizzata da Linda Nochlin al Brooklyn Museum of Art nel 1988, mentre in Francia si vide per la prima volta nell’esposizione dedicata dal museo d’Ornans, nel 1991, ad André Masson.

Sappiamo che il dipinto, entrato a far parte della collezione del Museé d’Orsay nel 1995, dopo la morte di Sylvie Bataille (dicembre 1993) che lo aveva ereditato a sua volta in seguito alla morte di Lacan nel 1981, era stato provvisto di un panello dipinto che ne copriva la vista. Tale pannello era stato espressamente commissionato al pittore surrealista André Masson, cognato di Sylvie Bataille, al fine di procurare una cortina domestica al dipinto di Courbet, che Lacan riteneva opportuno mostrare solo di persona a scelti visitatori, secondo un procedimento di svelamento per iniziati che aveva accompagnato il dipinto fin dalla sua nascita e dall’ingresso nella collezione del primo proprietario, il diplomatico turco Khalil-Bey che lo aveva tenuto, a sua volta, celato dietro un altro quadro.[12]

Il pannello commissionato a Masson consisteva di un paesaggio dipinto con un morbido tratto bianco su uno sfondo color ruggine; a chi conoscesse il retrostante supporto non sarebbe sfuggita l’analogia: Masson aveva dipinto una specie di negativo dell’originale, un paesaggio sagomato sul corpo nudo femminile in cui i seni erano diventati colline, mentre i ciuffi di pelo dell’organo sessuale in vista erano stati trasformati in un cespuglio.[13] La cortina dipinta da Masson era in realtà una rilettura e una trasposizione grafica di per sé allusiva, una variazione sul tema non meno originale e arguta del dipinto di Courbet.

La storia collezionistica del quadro sembrerebbe dunque essere ‘mimata’ e allusa all’interno di Lichene. Darebbe soddisfazione ai filologi sapere che Munro fosse a conoscenza di tutti questi dettagli della vita del quadro: la sua appartenenza al celebre studioso del rapporto fra psicanalisi e linguaggio, il pannello di Masson – che trasfigurava il corpo della donna in vegetazione – così come, nel racconto di Munro, avviene alla fotografia; ma in realtà non ce n’è bisogno. Le opere d’arte provocano fra di loro cortocircuiti dell’immaginazione e risignificazioni, anche in assenza di quelle informazioni così necessarie, invece, al lavoro storico. Di certo L’origine du Monde, uno dei dipinti meno noti del pittore fino a una quindicina di anni fa, è stato capace di innervare la creatività di numerosi artisti visivi, da André Masson a Marcel Duchamp che aveva incontrato Lacan nel 1958 e che rielaborò il dipinto nel suo Étant données, e numerose, soprattutto dagli anni ’90 in poi, sono anche le rielaborazioni letterarie.[14] Tra queste ultime, Lichene è il racconto che meglio ha sfruttato il tema del desiderio e le sue possibilità metamorfiche. Ed è significativo che sia stato scritto quando ancora il quadro non era diventato, come è oggi, l’icona mediatica che contende la celebrità dei musei parigini alla Gioconda, ossia quando ancora l’immagine non era stata consumata e conservava invece intatto il proprio mistero, l’idea di accesso al proibito e la possibilità di rivelazione, la fantasticheria erotica e il culto feticistico iscritti nella sua forma e nella sua storia.


1 A. Munro, The Progress of Love, Toronto, McClelland and Stewart, 1985 e 1986; l’edizione italiana qui citata è Il percorso dell’amore, trad. it. di S. Basso, S. Pareschi, Torino, Einaudi, 2005.

2 Sulla scrittrice: C.A. Howell, Alice Munro, Manchester-New York, Manchester University Press, 1998. Sulle figure femminili presenti nei racconti cfr. M. Redekop, Mothers and other clowns. The stories of Alice Munro, London, Routledge University Press, 1992. Sulla trasposizione di contenuti autobiografici e sulla distinzione tra fiction e autobiografia in Munro cfr. M.A. Mariani, Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Roma, Carocci, 2011, pp. 95-128.

3 Per la definizione di middle station of life, centrale allo sviluppo del romanzo moderno, faccio riferimento a quanto scrive G. Mazzoni, Teoria del Romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 233-237.

4 «La memoria diventa così un problema di tecnica narrativa: la costruzione del testo deve dare voce alla memoria, da un lato, e dall’altro imitare, esprimere, quanto accade ai ricordi durante lo svolgimento della vita reale. [...] Il senso del tempo – come oblio, come recupero incerto, ma anche come reinvenzione permanente – non guarda mai a un punto finale di armonia; piuttosto arriva dalle fratture a vista tra i singoli testi, che compongono una struttura fortemente scandita (in singoli racconti, in parti, in capitoli dai titoli autonomi, o in paragrafi tematici: linee spezzate, in ogni caso, che smantellano i confini tra racconto e romanzo), e puntano a un effetto di discontinuità, perché il tempo dei ricordi non fa stare tutto insieme, ma è sconnesso e sconnette sempre; la tensione non si scioglie mai. “Ci fanno sudare, le nostre bugie”» (A. Munro, Chi ti credi di essere?, trad. it. S. Basso, Torino Einaudi, 2012, p. 53). Il lavoro sulla temporalità compiuto da Munro e da altre scrittrici canadesi, sull’esempio di Margaret Laurence, è ben illustrato da D. Brogi, Alice Munro e le altre, «Il Manifesto», 3 gennaio 2013, leggibile anche nel sito del blog culturale Le parole e le cose al seguente indirizzo: http://www.leparoleelecose.it/?p=8220.

5 Cfr. H. Ventura, Dall’immagine al testo: il divenire racconto ne la Vergine mendicante di Alice Munro, in La rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, a cura di F. Cattani, D. Meneghelli, Roma Meltemi, 2008, pp. 139-153; ma anche Ead., Storia di un’immagine congelata, in Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, a cura di S. Albertazzi, F. Amigoni, Roma, Meltemi, 2007, pp. 251-267.

6 Cfr. H. Ventura, Le tracé de l’écart ou “L’origine du Monde” reinventée dans “Lichen” d’Alice Munro, in Texte/Image: nouveaux problèmes, a cura di L. Louvel, H. Scetti, Actes du colloque de Cerisy, Rennes, Presses de l’Université de Rennes, 2005, pp. 269-281, ora anche reperibile in: www.alaaddin.it/Munro/Lichene.html.

7 Mi riferisco con l’espressione ‘effetto di realtà’ alla definizione coniata da R. Barthes, L’effet de réel [1968], ora in Id., Oeuvres complètes, édition revue, corrigée et presentée par E. Marty, III: 1968-1971, Paris, Seuil, 2002, pp. 25-32.

8 Savatier ripercorre la complicata vicenda collezionistica del dipinto e le reazioni che via via suscitò nel gusto e nell’opinione di chi ebbe occasione di vederlo: cfr. T. Savatier, Courbet e «L’origine del mondo» [2006], Milano, Medusa, 2008. Del quadro, in relazione al realismo letterario, ha parlato anche Siti: cfr. W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Roma, Nottetempo, 2013, pp. 22-25.

9 La fotografia è anche un mediatore di desiderio nella maniera in cui lo intende Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca [1961], Milano Bompiani, 2002. David non agisce per amore o spinto dall’urgenza del desiderio sessuale, piuttosto nella consapevolezza disperata della vanità che avvolge la vita e che lo costringe ad andare oltre, di storia in storia.

10 Massimo Fusillo, con una vasta casistica di esempi tratti dalla letteratura, dalle arti visive e dal cinema, ha fornito un’accezione più ampia della nozione di feticcio, non più solo negativa, come sostituto inautentico, ma anche come sintomo e dispositivo di una insopprimibile e multiforme necessità di animare l’inanimato, di creare mondi alternativi. In questa accezione, connessa da Fusillo ai processi creativi, rientra pienamente la fotografia descritta da Munro. Cfr. M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna, Il Mulino, 2012.

11 La vera ragione per cui David vuole separarsi dalla fotografia non è dunque la paura dichiarata a Stella di volerla mostrare a Catherine, quanto la consapevolezza che anche su Dina, la giovane studentessa il cui sesso è ritratto nella foto, David ha proiettato il suo insaziabile desiderio di novità, la paura di invecchiare, l’urgenza di ingannare questa consapevolezza con l’imperativo ad andare oltre: «Sa bene che Dina in fondo non è così incontenibile, spudorata e maledetta come lui ama dipingerla, e come lei stessa a volte finge di essere. Nel giro di una decina di anni, la vita folle di oggi non l’avrà né distrutta né trasformata in una puttana di lusso. Sarà una donna come tante, circondata da una nidiata di figli, alla lavanderia dei gettoni. […] David sa bene che prima o poi, se Dina permetterà alla propria maschera di incrinarsi, lui sarà costretto ad andare oltre. E comunque lo dovrà fare lo stesso: dovrà andare oltre» (A. Munro, Lichene, cit., pp. 51-52).

12 Cfr. T. Savatier, Courbet e «L’origine del mondo», cit., pp. 40-45 e pp. 212-213. L’autore suggerisce che il dipinto di Courbet, e il dispositivo dello sguardo celato, sia alluso nella celebre conferenza La Funzione del velo, tenuta da Lacan il 30 gennaio 1957 (pp. 230-233).

13 Il dipinto di Courbet e il pannello di Masson furono mostrati insieme ad una storica esposizione curata da Jacques Fernier al Musée d’Ornans (8 giugno-9 ottobre 1991), intitolata Les yeux les plus secrets. André Masson chez Gustave Courbet.

14 Cfr. T. Savatier, Courbet e «L’origine del mondo», cit., p. 268, con una rassegna dei romanzi e dei testi ispirati al dipinto, tra cui i più noti sono Les adorations perpetuelles, di J. Henric (Paris, Seuil, 1994) e Le roman de l’origine di T. Bernard (Paris, Gallimard, 1996).