Purple, il colore ibrido della precarietà: colonialismo, iniquità sociale e antropocene nell’opera di John Akomfrah

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John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957), uno dei principali artisti britannici del nostro tempo, adotta una ‘estetica del riciclo’ per realizzare opere video basate su fonti testuali e visive eterogenee. Intrecciando filmati d’archivio a riprese originali, Purple (2017), videoinstallazione a sei schermi, si avvale delle potenzialità insite in una narrazione non lineare per far convergere ricordi autobiografici e questioni eco-filosofiche e per evocare l'interconnessione tra gli esseri umani e il mondo naturale. Purple è il secondo capitolo di una trilogia di progetti che si concentrano sulla vitalità e la precarietà della natura: il primo, Vertigo Sea (2015) presenta l'oceano come un luogo di terrore e di bellezza in cui si condensano storie legate alla colonizzazione, alla schiavitù, alle migrazioni, alle guerre e alle attuali problematiche ecologiche; l’ultimo, Four Nocturnes (2019) si interroga sulla mortalità, sulla perdita, sull'identità frammentata, sulla mitologia e sulla memoria, utilizzando come ossatura narrativa il declino delle popolazioni di elefanti in Africa. Analizzando questa trilogia, il saggio si propone di riflettere sullo spostamento del fulcro tematico che si delinea nelle più recenti opere di Akomfrah: l’essere umano perde progressivamente centralità nella narrazione per fare posto ad altre specie e agli elementi naturali – il vento, la pioggia, la neve, l'aria – che diventano attori di un dialogo post-antropocenico sul nostro presente culturale e geologico, dal quale emergono i rapporti di causalità tra le logiche imperialiste e capitaliste della modernità e l’attuale condizione di precarietà sociale e climatica.

One of Britain’s leading contemporary artists, John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957) mixes a broad spectrum of images and sources into evocative video works according to his commitment to the idea of a “recycling aesthetic”. Weaving together historical and original footage, Purple (2017), his largest installation to date, concentrates on the human impact on the environment. The video’s nonlinear structure weaves together autobiographical memories and ecological and philosophical issues, resulting in an impressive collage of ideas, images and sounds that evokes the interconnectedness of humans and the natural world. Purple is the second in the trilogy of projects that focus on the vitality and volatility of the natural world: Vertigo Sea (2015) portrays the ocean as a site of both terror and beauty in which diverse narratives interact, touching upon migration, the history of slavery and colonisation, war and conflict and current ecological concerns; Four Nocturnes (2019) questions mortality, loss, fragmented identity, mythology, and memory using Africa’s declining elephant populations as its narrative spine. Analyzing this trilogy, the essay aims to reflect on the shift in focus in Akomfrah’s works: Instead of privileging humans in the narrative, the artist assigns an equal, or even greater, importance to other species and elemental components –  the wind, the rain, the snow, the air we breathe –  that became the actors in a post-Anthropocenic dialogue on our own cultural-geological present, where modern society has become, in the course of centuries of capitalist industry, a driver of social injustice and climate change.

«Welcome to Battersea Power Station»: questo messaggio di benvenuto, reso effervescente dal dinamico sfondo di sequenze video in cui tutti sorridono, inebriati da cibo e bevande, musica, yoga e shopping, accoglie l’internauta che si appresta a fare una ricerca sulla omonima centrale elettrica londinese.

Nell’homepage del suo sito si celebra, infatti, l’apertura di una delle «London’s most exciting new shopping and leisure destinations», frutto della riconversione della centrale a carbone di Battersea, dal 1980 inserita nella National Heritage List come Grade II* Building a ragione del suo interesse architettonico e storico.[1]

Bisogna addentrarsi nella piattaforma web per scovare qualche cenno alla storia dell’edificio, che si apprende essere opera di Sir Giles Gilbert Scott, famoso architetto attivo agli inizi del secolo scorso, noto soprattutto per avere progettato le cabine telefoniche rosse, uno dei simboli dell'Inghilterra: scarni sono i riferimenti alle qualità strutturali e agli elementi in stile Art Deco, e solo una sintetica timeline riassume i principali eventi, dal 1929, con l’inizio dei lavori, al 1983, anno della cessazione dell’attività, e poi ancora fino al 2012, quando avviene l’acquisto da parte degli attuali shareholders. Questi ultimi, evidentemente, preferiscono gli slogan a una contestualizzazione, seppur sommaria, della centrale e delle sue attività nelle vicende socioeconomiche e culturali del paese:

At its peak, Battersea Power Station was supplying a fifth of London's electricity. After decades of sitting derelict, it is now open to the public as one of London's most exciting and innovative new destinations. The very building which once produced the energy that enabled people to eat, drink, shop and play in the City, now provides the venue for a new generation to do the same.[2]

Anche sul sito di WilkinsonEyre, lo studio di architetti che ne ha progettato e curato il restauro e la riconversione, la storia della centrale è limitata a sei righe, tre delle quali dedicate a ricordare, come un glorioso aneddoto, l’apparizione dell’edificio sulla copertina dell’album dei Pink Floyd Animals, uscito nel 1977. Questo cenno, con tutta probabilità inserito con l’intento di accrescere il prestigio del complesso, fornisce a chiunque abbia in mente quel disco e, soprattutto, quell’immagine, un indizio che rimanda a un’altra storia, assai più amara e cupa di quella di un’innocua e prodiga centrale elettrica che ha permesso alle generazioni passate di «mangiare, bere, comprare e giocare».

Ispirato al celebre romanzo di George Orwell Animal Farm, il decimo album dei Pink Floyd usa gli animali e il loro comportamento come metafora della brutalità insita nella società britannica degli anni Settanta, segnata dalle sperequazioni di classe, dall’alienazione e dalla rabbia dei giovani relegati nei sobborghi e, più in generale, dalle drammatiche conseguenze delle logiche del sistema capitalistico esacerbate dal declino delle industrie pesanti.

Nella fase di ideazione della copertina Roger Waters, compositore e bassista del gruppo, trova proprio nella Battersea Power Station, che egli percepisce come affascinante e, al tempo stesso, come «doomy and inhuman […] depressing and oppressing [with a] very crude symbolism», l’immagine migliore per condensare e trasmettere su un piano visivo quello «scream of rage» che attraversa tutto l’album; un urlo solo a tratti mitigato da barlumi di speranza che trovano, anch’essi, traduzione visiva nel maiale volante, simbolo del gruppo, che si libra sopra le alte ciminiere, le dense nubi di fumo e il desolato paesaggio industriale circostante.[3]

All’ombra di quelle ciminiere, sotto quelle nubi e in quel paesaggio desolato John Akomfrah, giunto a Londra dal Ghana nei primi anni Sessanta, ha vissuto parte della sua infanzia e della sua adolescenza, conservandone nel corpo e nella mente tracce indelebili che, solo molti anni dopo, hanno potuto esercitare la loro agency dando vita a Purple (2017), una potente e malinconica elegia in forma di videoinstallazione immersiva a sei schermi.

Durante una conversazione pubblica con Anthony Downey tenutasi il 12 ottobre 2017 presso il Barbican Centre di Londra, dove pochi giorni prima Purple aveva avuto la sua première nella prestigiosa Curve Gallery, Akomfrah ha esplicitamente correlato la genesi di Purple con gli anni trascorsi nei pressi della Battersea Power Station:

I’m a child of the fifties, so I’m a child of that moment of high hopes, one of which involved the bright hope associated with industrialisation that came with a much darker narrative that remained unspoken but nevertheless ran alongside this development. That darker narrative was a kind of regime, a deadly regime of poisoning – mass poisoning, in effect. I grew up in West London in the shadow of Battersea Power Station, at a time when it still worked producing electricity. And I remember its iconic chimneys and the smoke billowing from them, which was, in truth, beautiful. I still like the look of carbon monoxide; it’s such a fantastic shape. I love watching it. No-one ever said to me or to any of my friends, “listen, you’re being poisoned here, and this is a by-product of the life you’re living, walking down the King’s Road, as a young boy, you are being poisoned”, but no-one ever said it. So, the project is very autobiographical in that sense; it’s about trying to revisit that moment again to see how much of the unspoken – that which was not said at the time – I can now bring together into some kind of dialogue.[4]

Il dialogo prende avvio proprio nel momento in cui il dato biografico porta in scena con sé questioni che riguardano la collettività, come le conseguenze sociali ad ampio spettro di quel lento processo di intossicazione da monossido di carbonio. Durante l’evento online On culture and climate: artist talk with John Akomfrah and Olafur Eliasson, promosso dall’Hirshhorn Museum di Washington D.C. nell’ottobre 2020, Akomfrah si è soffermato a riflettere su come gli effetti dell’esposizione alle emissioni nocive fossero avvolti non solo dal velo del ‘non detto’, ma anche da quello del ‘non visto’: l’impossibilità di ‘vedere’ il monossido di carbonio avvelenare, giorno dopo giorno, milioni di persone aveva fatto passare sotto silenzio, nei dibattiti sui problemi della società britannica che animavano la West London degli anni Sessanta, il possibile nesso causale con i comportamenti ribelli, o addirittura violenti, di molti giovani esposti a quella sostanza:

So, as I said, I grew up in parts of West London where there was routinely conversations about British society: where it was going … and at the centre of this was a conversation about its young, the young people of Britain in the 60s – were they rebellious? were they different? were they violent? – the sort of climate that Stanley Kubrick’s Clockwork Orange, for instance, came out of.
But, in all of those discussions about causality, it never came up those millions of these people who were seen as pathological and violent may well be being subjected to carbon monoxide poisoning on a daily basis, and that carbon monoxide poisoning does in fact have something to do with whether people behaving reasonably or not. Never came up, at all!
So the key thing for me was to try and make a project where many of the unseen guests who were at the table of my life at the beginning of it can be unmasked; I just wanted to make a project in which all the elephant in the room – if you will – that I was growing with, were there, where apparent – whether it is rapid industrialization, carbon monoxide poisoning, rising sea levels, et cetera. So, this is the sort of key animus – if you will – for Purple.[5]

Con questi «ospiti invisibili», del resto, Akomfrah fa i conti fin dal 1982, quando con David Lawson, Trevor Mathison, Claire Joseph, Reece Auguiste, Lina Gopaul, Avril Johnson e Edward George fonda il Black Audio Film Collective (BAFC). A costituire il tessuto connettivo tra i membri del BAFC è, in prima istanza, la convinzione che la criticità del momento storico – con l’insediamento di Margaret Thatcher a Downing Street nel 1979, che si ‘innesta’ tra i violenti scontri del carnevale di Notting Hill del 1976 e le drammatiche rivolte di New Cross e di Brixton del 1981 – rendesse urgente la messa a punto di una nuova estetica con cui costruire contro-narrazioni del passato coloniale e attivare riflessioni inedite su come esso agisse nel presente in base a rapporti di causalità o di prossimità.[6] Dalla selezione e dal montaggio di diverse tipologie di materiali (footage d’archivio connesso all’immigrazione, fotografie tratte da album di famiglia e filmati amatoriali, pagine di giornali dai titoli sensazionalistici, spezzoni di servizi trasmessi dai telegiornali, cartoline, mappe e immagini tratte da libri scolastici del periodo coloniale e, con l’andare del tempo, anche riprese appositamente effettuate) è derivata quella che è stata definita dagli stessi membri del collettivo una recycling aesthetic, i cui frutti più maturi si ritrovano in Handsworth Songs, seminale film del 1986, diretto da Akomfrah.

Realizzato durante i riots che tra la fine di settembre e l’inizio d’ottobre del 1985 avevano scosso i quartieri di Handsworth a Birmingham e di Broadwater Farm a Londra, il film condensa la disillusione e le frustrazioni della cosiddetta Windrush Generation, quella dei primi cittadini britannici ‘importati’ a migliaia dalle colonie per contribuire alla ricostruzione postbellica della madrepatria, le cui aspettative di accoglienza e integrazione si erano drammaticamente infrante contro il razzismo dilagante fomentato, nel corso degli anni, dal delinearsi di una condizione post-industriale che avrebbe reso ‘superflua’– in termini marxisti – la loro presenza come forza lavoro. Gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, infatti, sono quelli in cui le delusioni e frustrazioni di fronte al crollo dell’utopia dell’‘appartenenza’ alla nazione vengono assimilate dai figli di quella generazione, esacerbate da una condizione di precarietà che vede i cittadini di colore relegati nei quartieri periferici, considerati un surplus in termini economici e quotidianamente esposti non solo ai soprusi della polizia, all’indifferenza delle istituzioni e al disprezzo da parte della classe bianca dominante, ma anche al degrado dell’ambiente costruito e del paesaggio naturale che li circonda e agli agenti inquinanti emessi dalle fabbriche e degli impianti produttivi con cui vivono a stretto contatto.[7]

Il malessere di questi giovani e la violenza con cui alcuni di loro hanno risposto alle diverse manifestazioni di discriminazione razziale non possono, dunque, essere scissi dai molteplici retaggi coloniali che hanno ‘avvelenato’ la loro esistenza.

Si delinea, così, un sintomatico trait d’union tra Handsworth Songs e Purple, anch’esso nato «sull’onda di una serie di frustrazioni e di delusioni» che molto hanno a che fare con alcune disfunzioni del presente radicate nel passato coloniale della Gran Bretagna (e più in generale dell’Occidente) e nella connessa spregiudicata politica di espansione territoriale, economica e industriale:

Purple, I suppose, has grown out of a series of frustrations and dissatisfactions. One of the things that’s been preoccupying me more and more was doing something about histories of chemicals, or weather systems, or species. This is not the 18th century anymore! It’s not unlimited landscapes and unlimited space to explore ad infinitum, wasting away, trashing away, as we go along! Game over! And that sense of game over, of finitude and the encroaching closure is the animating impulse behind works like this.[8]

Il «game over» non è, però, una condizione del presente, ma un fenomeno sulla cui consequenzialità storica Akomfrah intesse la complessa dinamica narrativa di Purple: sui sei schermi che compongono l’installazione fluiscono immagini che ritraggono persone, industrie e scenari naturali riconducibili a momenti diversi della storia recente, a partire dal secondo dopoguerra fino ai nostri giorni. Nondimeno, la scelta di inserire immagini degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta non è funzionale a delimitare cronologicamente la narrazione, bensì a immettervi motivi visivi capaci di rendere sensorialmente percepibile la continuità con cui negli ultimi due secoli (a partire dall’avvio della seconda fase dell’industrializzazione, e in modo sempre più massiccio durante la terza, raggiungendo il picco proprio negli anni della ricostruzione postbellica) un ‘nemico invisibile’ ha minato le nostre esistenze:

Certain visual motifs really surprised me. For instance, in everything I looked at from the past, especially footage shot in Europe or the US in the 1950s and 1960s, there is this film over everything you see. Slowly it dawned on me that it’s all smog, all carbon monoxide in the atmosphere. Basically, when you watch archival material from the 1940s to the 1960s – shot in places such as Manchester or the Ruhr regions of Germany – what you are watching most of the time are images of people living with this permanent stench of carbon monoxide poisoning, smoke everywhere. There is this green monster in the background of these documentaries. That was the background to our lives – it was the stage on which British lives unfolded.[9]

Nella già citata conversazione dell’ottobre 2017 tra Akomfrah e Downey si delinea la sostanziale analogia tra quel «mostro verde» e l’antropocene – «the Anthropocene is a backdrop to our present-day existence»[10] – categoria centrale nel dibattito intersettoriale attualmente in atto sulle emergenze ambientali e climatiche, alla quale, tuttavia, l’artista ha in più occasioni precisato di rivolgersi non tanto come contenitore di temi politici ed economici, quanto come attivatore di specifiche considerazioni etiche, estetiche e formali su come un’opera d’arte possa mettersi in rapporto con tale sfondo, ineludibile e drammaticamente reale.

Innestando su tali considerazioni molteplici spunti tratti dal pensiero di filosofi e teorici come Bruno Latour, Jane Bennett e Tim Morton, Akomfrah concepisce le proprie opere come contesti in cui sottrarre alle modalità narrative proprie del discorso economico capitalista le imprescindibili riflessioni sulle relazioni tra il centro e la periferia, tra il mondo industrializzato e quello sottosviluppato, tra il portato benefico e quello distruttivo del progresso e delle tecnologie e, soprattutto, tra l’essere umano e tutte le altre forme di vita presenti sul pianeta, al fine di rendere manifesta la necessità non solo di superare il paradigma antropocentrico proprio della cultura occidentale ma, più nel profondo, di accettare la limitatezza della specie umana.[11]

Per riuscire in questo intento l’artista potenzia lo strumento linguistico e formale di cui si serve fin dall’inizio della sua carriera, ossia quello del montaggio: nuove riprese appositamente effettuate in dieci paesi – tra cui l’Alaska, la Groenlandia e le Isole Marchesi – vengono intrecciate con materiale d'archivio, spezzoni di trasmissioni televisive, documentari e fotografie. Proiettati in sincrono sui sei megaschermi che compongono l’installazione, i frutti di questo lavoro di assemblaggio e cucitura, che l’artista ama definire da ‘bricoleur’, avvolgono gli spettatori in un flusso di immagini, parole, suoni e rumori che rende immediatamente esperibile l’interconnessione temporale e spaziale tra eventi solo apparentemente privi di nessi. Sovvertendo i dettami della narrazione lineare, Akomfrah crea un sistema discorsivo aperto, all’interno del quale ogni singolo spettatore può mettersi in ascolto di un diverso racconto e, soprattutto, provare a posizionarsi in modo ‘obliquo’ rispetto a problemi che vengono prevalentemente dibattuti secondo schemi riconducibili al perdurare della distinzione tra cultura e natura sancita dall’Illuminismo e alle connesse gerarchie delineate non solo tra le specie, ma anche all’interno della stessa specie umana. Come osserva Kass Banning, alla quale si deve la perfetta definizione di Purple come una «one hour requiem-like symphony of thought»,

[Purple] is not necessarily about the Anthropocene, but a meditation on it, while wondrously endowing it with astronomical, non-anthropometric agency. It’s the specific affective affordances of multi-screen spatial montage and its attendant immersive soundscapes, coupled with Akomfrah’s signature sensibility and techniques, which account for Purple’s unfathomable punch, quickening the gut and heart instantaneously.[12]

Grazie al potere destabilizzante del montaggio e ai rapporti di giustapposizione o di contiguità che si creano tra le immagini proiettate sui sei schermi, i problemi legati al riscaldamento globale, alla diminuzione delle risorse idriche, all’innalzamento dei mari, assumono una dimensione che trascende i loro drammatici effetti sul ‘primo mondo’ e la connessa minaccia alla sopravvivenza della ‘specie sovrana’ per diventare davvero ‘planetaria’. Ripercorrendo con Anthony Downey la fase di ideazione del progetto, Akomfrah chiarisce perfettamente questa dinamica:

 

I was very keen to clear the deck, as it were, to say to myself and to this project: listen, let us just agree prior to doing this that we will not have an agent who says ‘it’s about me’, a central sovereign subject. Nor is it really about the weather, nor about climate change as such; rather it is about inviting in all the actors and then mediating between them through the elemental, vital components that you see in the film – the wind, the rain, the snow, the air we breathe – and those very things that animate the stage of being. To do that, you have to clear the stage and then invite each actor back onto it. What could you say in a post-Anthropocenic dialogue to all of these actors – that is a question I wanted to pose. And in doing so, the idea was to then speak to them each individually by inviting them to come on to the cleared stage, to take up a screen. At some point, you are not in control of this process. I am not even the conductor of this at a certain point. I am just one of the players in this drama of becoming. But what I am able to do is to try to tease out each layer of the film by forcing it to just engage with the other, you know, and slowly something called Purple emerges.[13]

Purple, infatti, non è soltanto il titolo di questa installazione prismatica con la quale lo spettatore è invitato a mettersi in dialogo, operando continuamente scelte rispetto a cosa e a come guardare e ascoltare, ma ne è essenza e metafora: il viola è un colore ibrido, le cui innumerevoli sfumature si ottengono creando equilibri tra il rosso e il blu, a loro volta associati alla terra e all’aria, al fuoco e all’acqua, al caldo e al freddo, al sangue e al respiro, al corpo e allo spirito, alla lotta e all’armonia e, nell’inconscio collettivo occidentale, alla regalità, ma anche al passaggio dalla vita terrena a un’altra dimensione e, conseguentemente, al lutto.

A questo proposito può essere per certi versi rivelatorio aprire un piccolo spazio di indagine sulla simbologia dei colori nella cultura ghanese, inoltrandosi lungo una strada già percorsa dallo stesso Akomfrah:

In nineteenth century colour theory, red comes forward and blue recedes. I have always understood them to be in some ways polar opposites, giving us different definitions of space. My interest in colour in Ghana specifically started while making preparations for Testament, a film about memory. What surprised me was to find a universe in which colour meant other things […], a universe in which red and blue speak in the same language with the same intensity, but from different vantage points […]. Traditonally, colours have been used in very specific way to describe the two extremes of human life – birth and death. If you go searching for rituals that are associated with these two extremes, you come up against colour.[14]

Nelle cerimonie funebri in Ghana, ad esempio, i colori predominanti sono il nero e il blu (Tuntum) e il rosso (Kokoo/Kobene), mentre nei riti legati alla nascita e alla rigenerazione domina il bianco (Fufu). I loro nomi, però, indicano non solo questi colori in sé, ma anche le loro ‘famiglie’: sono fufu i gialli pallidi, i grigi chiari e i rosa tenui; ai tuntum appartengono i grigi scuri, i verdi, i marroni, ma anche l’indaco, il lilla e il viola chiaro; ai kokoo gli arancioni, i gialli accesi, i rosa scuri, il porpora, il viola più carico. All’origine di questi raggruppamenti ci sono le sensazioni visive e le emozioni provocate dai diversi colori: pulizia, purezza, spiritualità, serenità sono associati ai fufu; calore, incandescenza, brillantezza, vitalità, energia ai kokoo; freddo, oscurità, pesantezza, malinconia ai tuntum. In Ghana, dunque, i colori costituiscono un linguaggio profondamente identitario, la cui dimensione simbolica trova ancora oggi espressione nella vita quotidiana, nelle tradizioni e nella produzione artistica. Nell’arte tessile, ad esempio, e in particolare nelle combinazioni di colori attraverso i quali i tessuti kente veicolano i loro messaggi, il colore porpora/viola – che costituisce una sorta di ponte tra i kokoo e i tuntum confermando così la sua natura ibrida – è associato alla femminilità e significativamente, per estensione e similarità con il marrone, alla Madre Terra.[15]

Tali simbologie e valenze convergono e risuonano nella conversazione che si dipana tra i sei schermi di Purple, al cospetto di uno spettatore/interlocutore che, immerso in un ambiente dalle pareti e dal pavimento integralmente rivestiti di tessuto viola, esperisce anche fisicamente la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di multiplo, di instabile, di ambiguo. Ne assorbe le discrasie e i contrasti, ne ricerca i possibili equilibri: così facendo viene a trovarsi anch’egli, proprio come il colore che lo avvolge, in una posizione liminare dalla quale, affidandosi agli «ospiti invisibili» convocati da Akomfrah, diventa più facile prendere coscienza di quanto urgente sia mettere in relazione i retaggi dell’era industriale con l’attuale condizione di precarietà dell’esistenza della quale l’umanità è per la maggior parte artefice, e in minor parte vittima.

 John Akomfrah, Purple, 2017, Courtesy Smoking Dogs Films and Lisson Gallery

In una conversazione dell’ottobre del 2020 con Greg Hilty, curatore presso la Lisson Gallery di Londra, Akomfrah riconduce il suo primo incontro con alcuni di quegli «ospiti invisibili» al viaggio che, nel 2009, lo aveva portato per la prima volta in Alaska per realizzare, su incarico della BBC, un documentario sulle tragiche conseguenze sociali e ambientali del disastro della Exxon Valdez.

A vent’anni di distanza dalla notte del 24 marzo 1989, quando la gigantesca superpetroliera della Exxon Shipping Company aveva impattato contro la scogliera di Bligh Reef, nel Prince William Sound dell'Alaska meridionale, riversando undici milioni di galloni di greggio nelle acque incontaminate dello stretto e su oltre duemila chilometri di costa, Akomfrah si è recato sul posto per raccogliere le testimonianze dei membri dell'equipaggio della nave, dei dirigenti della compagna di navigazione, degli agenti della guardia costiera, di alcuni politici, delle comunità locali e dei pescatori. Sono i tasselli di cui si è avvalso per comporre un racconto plurale di quello che è stato uno dei più grandi disastri ecologici causati dall'uomo nel corso del XX secolo: oltre ad avere avuto un impatto drammatico sulla vita degli abitanti della zona, rendendo impossibile la pesca delle aringhe e impoverendo durevolmente l'industria del salmone, la marea nera, di cui ancora oggi sono presenti le tracce, ha ucciso balene, migliaia di lontre marine e milioni di pesci e uccelli, ha distrutto la vegetazione e compromesso la flora marina.

Il documentario in cui questo materiale è confluito, intitolato Oil Spill - The Exxon Valdez Oil Disaster, segna l’inizio non solo di un interesse per il paesaggio destinato ad assumere una crescente centralità nella pratica di Akomfrah, ma anche del delinearsi di uno spostamento dell’attenzione dal «dramma umano» a un più ampio contesto di crisi, di cui l’umanità non è che uno degli elementi coinvolti: l’Alaska induce l’artista a pensare che «there are things that this place wants to say and it might not necessarily want to be just a playground for a human drama. It might have ancient wisdoms to offer».[16]

Significativamente, molte delle riprese effettuate durante la realizzazione del documentario confluiscono in The Nine Muses, lungometraggio del 2011 definito da Akomfrah «my contemporary epic about migration»,[17] in cui l’austera e splendida natura artica agisce come un ‘attante’ – nell’accezione di Latour – ossia come un insieme di forze immateriali che mediano tra il soggetto (la migrazione) e i soggetti (i migranti) del film.

Così facendo Akomfrah si inserisce nel recente dibattito che mette in discussione il ‘simulacro dell’artico’ radicato nella cultura occidentale: sinonimo di vastità, biancore, tranquillità, ma anche di solitudine, inospitalità, pericolo – tanto da diventare uno dei luoghi per eccellenza dell’esperienza del sublime romantico e dell’affermazione della ‘mascolinità bianca’, in primis attraverso la mitologia dell’esploratore/colonizzatore – le terre artiche rivendicano ormai da alcuni decenni una attenzione specifica alle loro reali condizioni ambientali e geoeconomiche, sempre più in contrasto con gli interessi economici delle potenze neoimperialiste.[18]

Un passo in tale direzione Akomfrah lo muove proprio ibridando l’immaginario della wilderness artica con elementi antropici: traghetti, strade, camion, magazzini e case fungono da costante riferimento alla presenza umana che, però, è assente, eccezion fatta per la ripetuta apparizione di una figura solitaria che dà le spalle alla telecamera, «representing perhaps the personal nature of travelling to another country, but also a more classical figure of the epic hero whose very mode of being is the journey».[19]

 John Akomfrah, The Nine Muses, 2012, Courtesy Smoking Dogs Films and Lisson Gallery

Proprio in questo aspetto, tuttavia, ancora echeggia il retaggio del ‘simulacro dell’Artico’: in The Nine Muses l’Alaska è una sineddoche visiva delle terre artiche, funzionale a rendere lo spettatore partecipe a livello sensoriale dell’esperienza di dislocamento insita nella migrazione «from a place of certainty – your country, your town, your continent – into this other thing, which is not really either here nor there».[20] Tuttavia, come ha notato Helga Hlaðgerður Lúthersdóttir, «this “other thing” is the UK, not Alaska, and to thus blatantly ignore the fact that Alaska is a place with an entirely different migration history of its own is highly problematic».[21]

Nello stesso tempo, però, questa problematicità può essere inquadrata, e risolta, alla luce di quello «shift in focus» suggerito all’artista proprio dall’esperienza in Alaska: dopo avere trascorso decenni a ragionare su questioni legate ai pregiudizi e alle discriminazioni razziali, Akomfrah ha sentito il bisogno di affrontare altre «artificial distinctions», come quelle tra esseri umani e ambiente naturale e tra umani e animali, a partire dal presupposto che «not that long ago if you were an enslaved African, or a serf in rural Russia, you were definitely not human for most of the people in power».[22]

È questo il pensiero che accompagna Akomfrah nella realizzazione, nel 2015, di Vertigo Sea, videoinstallazione a tre canali in cui il mare è protagonista come spazio di bellezza e di terrore, di vita e di morte:

An elegy to lives lost at sea, the film assaults the senses with rapturous shots of roiling oceans across three floor-to-ceiling screens. Historical footage of sailors harpooning whales is spliced with news clips of Vietnamese refugees onboard a sinking boat and staged shots of manacled Black men crammed into a ship’s hold. Akomfrah’s team traveled to Norway, the Faroe Islands and the Isle of Skye in Scotland to film striking tableaux with a cast of costumed actors, and also drew on footage from the BBC Natural History Unit.[23]

Attraverso il consueto montaggio di eterogenei materiali visivi, sonori e testuali, Akomfrah condensa in quello spazio storie ‘oblique’ – Oblique tales on the aquatic sublime, si legge in una delle didascalie che intercalano le nove sezioni del film – in cui tragiche vicende umane legate al colonialismo, alle tratte transatlantiche, alla cattività, alle migrazioni, ai voli della morte, ai ‘viaggi del speranza’ dei profughi, trovano corrispondenze in quelle di altri esseri viventi, come le balene, gli orsi, i cervi, cacciati e uccisi. The way of killing men and beasts is the same, si legge in un altro intertitolo, mentre sugli schermi le immagini di balene che muoiono nelle acque tinte di rosso dal loro stesso sangue si incontrano con quelle dei corpi, arenati sulle coste, dei profughi che in mare hanno perso la vita. Con queste immagini entrano in dialogo quelle dei paesaggi mozzafiato dell’Artico che trovano, a loro volta, un contrappunto in altre che documentano la brutale industrializzazione e militarizzazione della natura, le trivellazioni e i test nucleari in mare aperto, l’inquinamento delle acque e dell’aria, le tangibili conseguenze del riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, la sofferenza degli ecosistemi.[24]

 John Akomfrah, Vertigo Sea, 2015, Courtesy Smoking Dogs Films and Lisson Gallery

In questo intreccio socioecologico, in cui forte risuona l’eco del seminale saggio di Paul Gilroy The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness (1993),[25] le «storie oblique» fanno vorticosamente convergere nel mare i crimini, passati e presenti, dell’imperialismo moderno e del capitalismo occidentale: la violenza coloniale e postcoloniale, l’annientamento delle comunità indigene, le estinzioni delle specie, lo sfruttamento dissennato delle risorse ambientali. Come osserva Demos,

One effect of entering the geological space-time of Vertigo Sea is that we lose our bearings – referentially, philosophically, perceptually – and find ourselves tipping into a nauseous loss of balance that is the very definition of vertigo. The disequilibrium occurs when we can no longer separate our own secure viewing space from the dizzying sight of the real that surrounds us (are we not a part of these geologies, are they not consuming us, reconfiguring our very environment?); nor do we have the distance to dissociate beauty from terror.[26]

L'effetto di spiazzamento, di perdita di equilibrio è acuito, per lo spettatore di Vertigo Sea, dal fatto di trovarsi a vivere la vertigine insieme alla figura solitaria di un uomo di colore in abiti occidentali settecenteschi che Akomfrah rende protagonista dei tableaux che intercalano le immagini d’archivio. Ad essa egli affida il compito di arricchire la drammaturgia dell’opera con la storia di Olaudah Equiano, a sua volta vorticosa e ambivalente: nato intorno al 1745 nel sud est dell’attuale Nigeria, figlio minore di un capo villaggio degli Igbo, era stato rapito e ridotto in schiavitù; aveva quindi conosciuto la disperazione del Middle Passage nella rotta verso le Barbados dove, una volta sbarcato, non aveva trovato nessun acquirente. Trasportato in Virginia, era stato comprato da Michael Henry Pascal, un tenente della Royal Navy, sotto il cui comando aveva raggiunto l’Inghilterra e partecipato a spedizioni navali in giro per il mondo. Acquisito un notevole livello di istruzione, nel 1766 aveva acquistato la propria libertà e, dopo avere lavorato nel settore del commercio con le Indie Occidentali, nel 1773 aveva preso parte alla spedizione britannica alla ricerca di un possibile passaggio a nord ovest, ossia di una rotta che, attraversando l’Artico, permettesse di raggiungere l’Oceano Pacifico. Tornato in Inghilterra si impegnò attivamente nella lotta abolizionista e nel 1789 pubblicò la sua autobiografia. Morì nel 1797. Dieci anni dopo la sua scomparsa, in Inghilterra, la tratta degli schiavi fu finalmente abolita.[27]

 John Akomfrah, Vertigo Sea, 2015, Courtesy Smoking Dogs Films and Lisson Gallery

Ancora Demos osserva come in Vertigo Sea Equiano diventi emblema della deterritorializzazione, una figura «out of time and place, confronting the vicissitudes of experiences and memories that the sea represents».[28]

Come la vicenda biografica di Equiano rivela, queste memorie condensano storie di violenza razziale e ambientale, perpetrate sulla base della pretesa supremazia di alcuni esseri umani su altri, sulla natura e sulle altre specie. Infatti,

the world that Equiano gazes upon – ultimately including our contemporary one – has colonized not only his own homeland (Portuguese explorers were among the first Europeans to conduct trade with the peoples of modern-day Nigeria, including trading bodies, at the port they called Lagos) but also, nature itself. This complex reality is what Vertigo Sea depicts and dramatizes. With natural and cultural zones now inextricable, and extractive industrialization increasingly determining the course of the Earth’s biophysical cycles – what some call the Anthropocene; others, the Capitalocene – the incongruous categories of the sublime formerly located in the nonhuman realm now cross over into the cultural one too, each vertiginously corrupting the other.[29]

Vertigo Sea ha debuttato nel 2015 a Venezia, nell’ambito della mostra All the World's Futures, curata da Okwui Enwezor per la 56esima edizione della Biennale internazionale d’arte; quattro anni dopo, nel 2019, Akomfrah torna alla Biennale e partecipa alla mostra inaugurale del primo padiglione nazionale del Ghana – Ghana Freedom, curata da Nana Oforiatta Ayim[30] – con la videoinstallazione a tre schermi Four Nocturnes.

Ultimo capitolo della trilogia che unisce Vertigo Sea e Purple, l’opera radicalizza quello “shift in focus” legato alle esperienze in Alaska e pone al centro di una narrazione intrisa di meditazioni sullo scorrere del tempo, sulla perdita, sull’identità frammentata e sulla finitezza il declino delle popolazioni di elefanti e la precarietà del patrimonio culturale e ambientale nel continente africano.

 John Akomfrah Four Nocturnes, 2019, Courtesy Smoking Dogs Films and Lisson Gallery

L’elemento umano, però, non è affatto assente: Akomfrah ribadisce così il nucleo teorico della trilogia, secondo il quale, a prescindere dal posizionamento dei singoli individui (artefici o vittime), la nostra specie condivide con le presenze non umane il destino segnato da secoli di violenza coloniale, migrazioni, consunzione delle risorse, depauperamento dell’ambiente naturale. In questo caso sono le alternanze di luce e di ombre a rendere esperibile la condizione di precarietà estrema ormai raggiunta: al sole a tratti accecante si alternano cieli bui e tempeste di polvere che avvolgono tutto in una notte sulla cui fine non si ha più certezza.

Ed è proprio qui che l’artista interviene: la pratica estetica di Akomfrah – in particolare il montaggio e la reclycling aesthetic che ne deriva – si afferma come una scelta formale ed etica al tempo stesso. Essa è capace di comunicare la necessità di pensare a come dare nuova vita a ciò che già esiste (in questo caso le immagini) e, addentrandosi nella sua complessità, di maturare la consapevolezza dei rapporti di causalità, prossimità o contingenza sottesi a ogni vicenda personale o collettiva. Unendo la ricerca storica all’immaginazione speculativa e fornendo un esempio concreto di azione possibile per una vita diversa, Akomfrah permette a chi entra in relazione con i suoi lavori – e con questa trilogia in particolare – di individuare le interconnessioni sottese alle cosiddette ‘crisi’ economiche, sociopolitiche e ambientali. I suoi interlocutori potranno a loro volta promuovere ricerche interdisciplinari e azioni tese a maturare (e far maturare) una coscienza civica sul tessuto connettivo che tiene insieme colonialismo, iniquità sociale e Antropocene. Come scrive Demos, un simile modello di pratica estetica che non si limita a identificare le minacce all'esistenza come la conosciamo, ma che offre inediti e ‘obliqui’ punti di vista su di essi, è in grado di accendere nelle menti la scintilla della responsabilizzazione, l’unica attitudine in grado di portarci al di là della fine del mondo.[31]

 


1 Cfr. Batter Sea Power Station, <https://batterseapowerstation.co.uk> [accessed 2 February 2023].

2 Cfr. Batter Sea Power Station, ‘About’, <https://batterseapowerstation.co.uk/about/> [accessed 2 February 2023]; qualche notizia storica in più si trova nella brochure Id., The Placebook. Battersea Power Station, < https://batterseapowerstation.co.uk/content/uploads/2022/07/the-placebook.pdf> [accessed 2 February 2023]. Si legge sulla Battersea Power Station nel volume di D. Iacobone, Storia della prima architettura moderna inglese (1926-1942), Roma, Aracne, 2015, pp. 171-172.

3 Nipote PF, ‘Roger Waters For Pink Floyd - Animals Radio Interview (1977)‘, <https://www.youtube.com/watch?v=6HgUZlAwoGA> [accessed 2 February 2023].

4 La trascrizione della conversazione è reperibile sul sito A. Downey, ‘Vital Materialism: Filming the Anthropocene’, Third text. Critical Perspectives on Contemporary Art and Culture, n.d., <http://thirdtext.org/akomfrah-downey> [accessed 2 February 2023]; il file audio è disponibile agl’indirizzi A. Downey, ‘John Akomfrah on ‘Purple’ and the Anthropocene’, Barbican, 7 May 2020, <https://www.barbican.org.uk/read-watch-listen/john-akomfrah-on-purple-and-the-anthropocene> [accessed 2 February 2023] e Lisson Gallery, ‘John Akomfrah on Purple and the Antrhropocene for The Barbarican’s Talk Programme’, 13 may 2020, <https://www.lissongallery.com/news/listen-now-john-akomfrah-barbican-talk-programme?fbclid=IwAR3Uh0V-grqu6ZG25_AzMSgIrWlNtjPpyYxtYcQ6qaJRnGPXSs_Dt0YRpXU[accessed 2 February 2023].

5 Per il talk si veda al minuto 12’28’’Cfr. J. Akomfrah, O. Eliasson, S. Goldberg, T. Selvaratnam, ‘(At Home) on Culture and Climate: Artist Talk With John Akomfrah And Olafur Eliasson’, Hirshhorn, <https://hirshhorn.si.edu/explore/at-home-on-culture-and-climate-artist-talk-with-john-akomfrah-and-olafur-eliasson> [accessed 2 February 2023]. Esiste una vasta letteratura scientifica che esamina gli effetti della duratura (cronica) esposizione degli individui al monossido di carbonio; in questa sede può essere sufficiente rimandare al sito governativo britannico, aggiornato al maggio 2022, in cui si legge «Chronic exposure to low concentrations of carbon monoxide may lead to lethargy, headaches, nausea, flu-like symptoms and neuropsychological and cardiovascular issues», Gov.UK, ‘Guidance. Carbon monoxide: toxicological overview’, 24 May 2022, <https://www.gov.uk/government/publications/carbon-monoxide-properties-incident-management-and-toxicology/carbon-monoxide-toxicological-overview#:~:text=Chronic%20exposure%20to%20low%20concentrations,and%20neuropsychological%20and%20cardiovascular%20issues> [accessed 2 February 2023] e alla sezione dedicata nel sito Headway – The Brain Injury Association, ‘Carbon Monoxide Poisoning’, <https://www.headway.org.uk/about-brain-injury/individuals/types-of-brain-injury/carbon-monoxide-poisoning/ > [accessed 2 February 2023].

6 Per una completa e dettagliata documentazione sul Black Audio Film Collective si rimanda a K. Eshun, A. Sagar (a cura di), The Ghost of Songs. The Film Art of the Black Audio Film Collective 1982-1998, Liverpool, Liverpool University Press, 2007.

7 Cfr. P. Valenti, ‘Ingannare l’archivio: l’‘estetica del riciclo’ di John Akomfrah e del Black Audio Film Collective come pratica di ‘contro-memoria’ nell’Inghilterra postcoloniale’, Altre Modernità, n. 20, (novembre 2018), pp. 136-155.

8 Si veda al minuto 0’26’ Cfr. ICA Boston, ‘John Akomfrah: Purple | Institute of Contemporary Art/Boston’, <https://www.youtube.com/watch?v=Unnuqs-RJuw> [accessed 4 February 2023].

9 J. Akomfrah, ‘The human cost of industrialisation’, The Art Newspaper, 7 October 2017, <https://www.theartnewspaper.com/2017/10/07/john-akomfrah-the-human-cost-of-industrialisation> [accessed 19 February 2023].

10 Cfr. A. DOWNEY, ‘Vital Materialism: Filming the Anthropocene’.

11 Si rimanda, in particolare, a B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, Parigi, La Découverte, 1991; B. Latour, ‘On actor-network theory: A few clarifications’. Soziale Welt, n. 47, 1996, pp. 369 -381; J. Bennett, Vibrant Matter. A Political Ecology of Things, Durham -Londra, Duke University Press, 2010; T. Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World, Minneapolis, Minnesota University Press, 2013; B. Latour, Face à Gaïa: Huit conférences sur le Nouveau Régime Climatique, Parigi, La Découverte, 2015.

12 K. Banning, ‘Tomorrow, or the End of Time’, in L. Garcia-Reyne (a cura di), John Akomfrah. Purple, Londra, The Barbican, 2017, pp. 21-22.

13 Cfr. A. DOWNEY, ‘Vital Materialism: Filming the Anthropocene’.

14 J. Akomfrah, ‘Colour Symbolism in Ghanaian Society’, in K. Eshun e A. Sagar (a cura di), The Ghost of Songs, Liverpool, Liverpool University Press, p. 170.

15 Cfr. G. P. Hagan, ‘A Note on Akan Colour Symbolism’, Research Review, s. VII, vol. 1, 1970, pp. 8-14; G.F. Kojo Arthur, Cloth as metaphor: (re)reading the Adinkra cloth symbols of the Akan of Ghana, Accra, Centre for Indigenous Knowledge Systems, 2001; Y. Blay, ‘Color Symbolism’, in M. K. Asante A. Mazama (a cura di), Encyclopedia of African Religion, I, Thousand Oaks, SAGE Publications, 2008, pp. 173-175; P. degraft-Yankson, ‘Of the Akan people: Colour and design education in Ghana’, International Journal of Education Through Art, vol. 16, n. 3, 2020, pp. 399-416.

16 Cit. in E. Fullerton, ‘An Artist Who Brings Order to Chaos’, The New York Times, 1 settembre 2021, <https://www.nytimes.com/2021/09/01/arts/design/john-akomfrah.html> [accessed 10 June 2023].

17 J. Akomfrah, Director‘s Statement, Theatrical Release at The Museum of Modern Art (MoMA), 6-12 ottobre 2011, <https://misc.icarusfilms.com/press/pdfs/muse_pk.pdf > [accessed 10 June 2023].

18 Cfr. J. Hill, White Horizon: the Arctic in the Nineteenth-century British Imagination, Albany, State University of New York Press, 2008; S. MacKenzie, A. Westerståhl Stenport (a cura di), Films on Ice: Cinemas of the Arctic, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2015.

19 N. Power, ‘Counter-media, migration, poetry: interview with John Akomfrah’, Film Quarterly, vol. 65, n. 2, 2011, p. 59.

20 Ivi, p. 62.

21 H. Hlaðgerður Lúthersdóttir, ‘Transcending the Sublime: Arctic Creolisation in the Works of Isaac Julien and John Akomfrah’, in S. MacKenzie, A. Westerståhl Stenport (a cura di), Films on Ice, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2015, pp. 325-334.

22 E. Fullerton, ‘An Artist Who Brings Order to Chaos’, Sunday Observer, 12 September 2021, < https://www.sundayobserver.lk/2021/09/12/artist-who-brings-order-chaos> [accessed 3 February 2023].

23 Ibidem.

24 T.J. Demos, ‘On Terror and Beauty: John Akomfrah’s Vertigo Sea’, in E. Gifford-Mead, R. Hogan (a cura di), John Akomfrah, Londra, Lisson Gallery, 2016, pp. 13-19; Id., ‘Feeding the Ghost: John Akomfrah’s Vertigo Sea’, in T. Ballard (a cura di), John Akomfrah. Sings of Empire, New York, New Museum, 2018; del medesimo autore sono riferimenti bibliografici fondamentali per il tema qui affrontato: T.J. Demos, Decolonizing Nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology, Berlino, Sternberg Press, 2016; ID., Against the Anthropocene. Visual Culture and Environment Today, Berlino, Sternberg Press, 2017; ID., Beyond the World's End. Arts of Living at the Crossing, Durham, Duke University Press, 2020.

25 P. Gilroy, The Black Atlantic: Modernity and double consciousness, Cambridge, Harvard University Press, 1995; si veda anche A. Vikram, ‘Underneath the Black Atlantic: Race and Capital in John Akomfrah’s Vertigo Sea’, X-TRA, v. 21, n. 3, (spring 2019), <https://www.x-traonline.org/article/underneath-the-black-atlantic-race-and-capital-in-john-akomfrahs-vertigo-sea> [accessed 14 June 2023].

26 T.J. Demos, ‘On Terror and Beauty: John Akomfrah’s Vertigo Sea’, p. 15.

27 O. Equiano, The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano or, Gustavus Vassa, the African [1789], in ID., The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano or, Gustavus Vassa, the African, Londra, CreateSpace Independent Publishing Platform, 200.

28 T.J. Demos, ‘On Terror and Beauty: John Akomfrah’s Vertigo Sea’, p. 15.

29 T.J. Demos, ‘Feeding the Ghost: John Akomfrah’s Vertigo Sea’, 2018, p. 79. A questo proposito si vedano anche N. Bourriaud, Inclusions. Esthétique du capitalocène, Parigi, PUF, 2021; M. e R. Fowkes, Art and the Climate Change, Londra, Thames & Hudson, 2020.

30 Cfr. N.D., ‘Ghana Freedom. Ghana Pavilion at the Venice Biennale’, E-flux, 24 February 2019, <https://www.e-flux.com/announcements/246977/ghana-freedom/> [accessed 14 June 2023].

31 T J. Demos, Beyond the World's End. Arts of Living at the Crossing, p. 2.