1.10. «I piatti di Picasso non vanno in lavastoviglie»: arte e attenzione nella parola delle attrici italiane*

di

     

«Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola “solitudine” vorrebbe designare». Così scrive Maurice Blanchot in Lo spazio letterario, specificando tuttavia che la solitudine «essenziale», nella quale si addentra nel suo saggio, non è quella esistenziale né quella tipica dell’artista che «gli sarebbe necessaria, si dice, ad esercitare la sua arte [...]. Quando Rilke scrive [...]: “la mia solitudine finalmente si chiude e io sto nel lavoro come il nocciolo nel frutto”, la solitudine di cui parla non è essenzialmente solitudine: è raccoglimento» (Rilke 1967, p. 9).

È invece proprio di solitudine intesa come raccoglimento e come sospensione dal mondo che tenterò di occuparmi in questa breve analisi. Esplorando lo spazio letterario «divagrafico» (Rizzarelli 2017; Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019; Rizzarelli 2021), cercherò di tracciare i punti di congiunzione tra la dimensione dell’arte e quella riservata alla capacità di attivare una relazione con la realtà di tipo performativo, in cui la concentrazione e l’attenzione acquistano un ruolo di primo piano.

Scriveva Cristina Campo nel saggio Attenzione e poesia: «l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero» (Campo 2019 [1961, 1987], p. 167).

Nella parola autobiografica delle attrici l’arte si pone spesso come istanza di libertà, di autonomia, di uscita dallo stereotipo divistico, di accesso a quella creatività accordata tradizionalmente al mondo maschile e a cui molte, seppure con esperienze e linguaggio differenti, dimostrano di aver desiderio di partecipare come soggetti attivi (in alcuni casi, divenendo esse stesse autrici di opere, come nel caso di Elsa De’ Giorgi, recentemente analizzato da Corinne Pontillo, 2020). Allo stesso tempo, è nel rapporto con la dimensione dell’arte in cui le attrici esprimono l’abilità di un radicarsi nell’attenzione, la stessa necessaria all’atto performativo.

Alcuni passi provenienti dagli scritti di Lucia Bosè, Monica Vitti, Catherine Spaak, Paola Pitagora, mi aiuteranno a tracciare i contorni di uno spazio dell’arte come spazio di relazione vitale con la realtà, dove è proprio l’attenzione, espansa in accezioni che vanno dall’abilità di concentrazione e di resistenza, fino alla messa a rischio di sé, a segnarne i confini.

 

1. «Il cinema si fa con gli occhi»: Lucia Bosè e l’arte come luogo di resistenza

«Non vi sareste stupiti se, venendo a casa mia, aveste trovato per anni campeggiare in cucina il cartello: “I piatti di Picasso non vanno in lavastoviglie”!». Scrive così Lucia Bosè in un ricordo del pittore che affida alle pagine della sua autobiografia, uscita in lingua spagnola ma di cui un breve estratto è pubblicato in italiano nel catalogo della mostra Picasso &Dominguín, un’amicizia ad arte raccontata da Lucia Bosè (2006, p. 106) [fig. 1]. Nel disegnare un ritratto del padre del cubismo, emigrato in Francia per opposizione al regime franchista e divenuto nel dopoguerra il simbolo della rivoluzione dell’arte moderna, Bosè si affida alla cornice dell’amicizia che a lungo tempo ha legato il pittore al famoso torero Luis Miguel Dominguín, dal 1955 marito dell’attrice.

Tuttavia, la postura che Bosè sceglie nella narrazione è quella di colei che niente può, se non accogliere e abbracciare la grandezza dell’artista, la cui «genialità incontentabile» lo porta a trascurare le relazioni: «noi semplici mortali desidereremmo che fossero anche buoni padri, buoni mariti, amanti straordinari. E qui sta l’errore» (2006, p. 110). Se certamente questa posizione riflette esattamente la trappola patriarcale del genio – «il mito della creatività ci sbarra la strada. [...] il mito dell’arte continuerà a schiacciare l’umanità che l’ha prodotto nel suo bisogno di idealizzare e propiziarsi il persecutore» (Lonzi 1978, p. 949) – è pur vero che l’attrice tradisce, proprio nell’insistenza sull’abilità di cogliere la grandezza del «maestro», il desiderio di superare gli stereotipi divistici (Amossy 1986) per affondare nella dimensione di una soggettività libera e potente. Se non può dirsi genio, dunque, Bosè può certamente dipingersi come capace di cogliere, del fare artistico, i tratti essenziali, di mettersi in contatto con le forme dell’arte in modo quasi iniziatico e di assumerne gli aspetti più ineffabili e profondi. Il racconto di uno scherzo orchestratole dall’artista che le offre uova centenarie di rondine presentandole come uova di quaglia, è in questo emblematico. L’attrice ingerisce un cibo potenzialmente velenoso ma il suo corpo è in grado di trasformarlo e renderlo così pura energia.

 

Io non capivo dove volesse arrivare fino a quando, ridendo, non mi rivelò che quelle non erano uova di quaglia, ma di rondine, che aveva ricevuto in regalo dalla Cina e che avevano almeno cento anni! “Lucia, se non muori vuole dire che ti hanno dato l’energia del tempo accumulato”, mi disse. E io, devo essere sincera, sento ancora quell’energia! (2006, pp. 110-111).

 

Nella scelta di raccontare l’episodio, dove il gesto dell’attrice appare come il frutto di una capacità di concentrazione e di centratura su se stessa, affiora la volontà di autorappresentarsi attraverso una dote che accomuna gli attori e le attrici agli artisti e alle artiste: l’arte si manifesta nei corpi che resistono. Così Bosè, ancora nel descrivere Picasso:

 

Non sbatteva mai le palpebre e il suo sguardo era il più penetrante in cui mi fossi imbattuta. Era una caratteristica che mi colpiva molto perché nel cinema la prima cosa che ti insegnano è a non sbattere le palpebre. [...] Ma non è facile riuscirci. Devi sempre tenere gli occhi aperti perché il cinema si fa con gli occhi. Devi sempre avere gli occhi aperti per conferire profondità allo sguardo (2006, p. 114) [fig. 2].

 

2. La solitudine, l’arte e la visione performativa: Monica Vitti, Catherine Spaak

L’episodio delle uova di rondine non sembra lontano da quello raccontato da Monica Vitti a proposito di una boccetta regalatale da Giorgio Morandi che l’attrice investe di un potere quasi taumaturgico. D’altra parte, come per Lucia Bosè, è soprattutto la relazione incarnata con l’artista che sembra offrirsi come terreno di contatto con il mistero dell’arte. Sebbene Vitti non possa vantare la stessa prossimità con il pittore di Bologna, le sue ripetute visite allo studio le hanno permesso di cogliere, in un’osservazione attiva, il processo creativo, dove è ancora la solitudine, come dimensione del raccoglimento, a occupare uno spazio centrale: «Giorgio Morandi era calmo e sereno, i suoi occhi trasparenti, dolci, si posavano sulle persone e sulle cose con attenzione, con rispetto. Parlava a voce bassa, forse perché stava molte ore in silenzio, a guardare e a capire i misteri degli oggetti» (1994a, p. 160).

Se queste righe richiamano la definizione di ‘attenzione’ secondo Simone Weil, per la quale «il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere pronto ad accogliere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi» ([1966] 2008, p. 538), è proprio nell’atto della visione, in cui lo sguardo ingaggia con la realtà un dialogo che trova nell’accoglienza la chiave di una partecipazione attiva, che sembra delinearsi, nelle parole di Vitti come di altre attrici italiane, quella relazione in cui l’arte si offre come strumento alchemico di trasformazione del mondo. Nel descrivere la Cappella degli Scrovegni [fig. 3] in uno degli articoli di una rubrica sull’arte, L’occhio innocente, che tiene per pochi numeri sulla rivista Cahiers d’Art (Simi 2021), Vitti parla di «terzo occhio», che è l’organo invisibile di una visione contemplativa radicata nell’attenzione: «il terzo occhio, quello dell’arte, non si deve distrarre mai, ma essere così pazzo e innamorato da trasformare un tavolino in un cavallo, una sedia in una giraffa, una tenda in una nuvola» (1994b, p. 173).

Il «terzo occhio» di Vitti sembra trovare risonanza con le parole di Cristina Campo, secondo cui «chiedere a un uomo di non distrarsi mai [...] è chiedergli di attuare la sua massima forma» (2019, p. 170).

L’aspetto performativo della visione si scioglie, in alcuni casi, in una dimensione narrativa, dove è tuttavia ancora una volta l’abilità di sapersi separare da un contesto e raccogliersi in se stesse a dettare il ritmo. Catherine Spaak, nella sua autobiografia, Da me (1993),così descrive il ricordo di un dipinto di Delvaux nel salotto della sua casa d’infanzia:

 

Quando l’atmosfera in casa, a tavola coi miei diventava pesante, decidevo di non ascoltare più le parole, né di sentire più lo scatto duro dell’accendino di mia madre che fumava a metà pranzo e neppure il rumore imbarazzante della dentiera di mia nonna. Volevo con tutta me stessa allontanarmi dalla famiglia. Allora andavo nel quadro: era il mio gioco. Consisteva nell’entrare nel bagno di Delvaux. Andare in mezzo a quelle donne, diventare una di loro, diventare, io ancora una bambina, la donna del quadro (1993, p. 18).

 

La concentrazione è dunque spazio di distacco e sospensione dal mondo circostante, territorio di una creatività che passa dalla performance, sebbene in questo caso solo immaginata. L’arte è il luogo dove la trasformazione può farsi accadimento.

 

3. «Gli sportivi, gli amanti e coloro che sanno pregare»: Paola Pitagora e l’arte che si fa vita

L’arte come atto performativo emerge con particolare vivacità nel memoir di Paola Pitagora, Fiato d’artista (2001), dove l’attrice ci trascina nell’avventura di un decennio e di una città in ebollizione, la Roma degli anni Sessanta (Marchetti 2019). Gli anni racchiudono l’inizio della sua carriera di attrice e l’ascesa e la caduta della sua relazione sentimentale con uno dei pittori, Renato Mambor, che diventeranno protagonisti della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo. Il testo di Pitagora è costruito sapientemente al crocevia tra documento e memoria personale, dove ai carteggi dei due amanti – dalle prime passioni, «il tempo senza di te è soltanto attesa» (p. 25), al faticoso dissolversi finale – si aggiungono interviste, testi critici e curatoriali dell’epoca e una continua narrazione in prima persona con sguardo retrospettivo che offre a quel decennio e a quell’esperienza lo spessore di trent’anni di distanza. Nello sguardo politico di Pitagora, non mancano le memorie di un incipiente femminismo e non di poco conto è, in questo senso, la testimonianza di Mambor a proposito di Cloti Ricciardi e del suo posizionamento femminista già a metà degli anni Sessanta: «c’è voluto molto tempo per capire che in quel momento Cloti soffriva della nostra aggressione, del fatto che non volevamo considerarla come artista in quanto donna: “artisti maschilisti”, questa definizione, l’abbiamo sentita per la prima volta da lei» (p. 85).

Immersa com’era nella vita stessa della Neoavanguardia romana [fig. 4], la parola dell’attrice sull’arte appare diversa da quella di un’appassionata. Più che parlare di arte, Pitagora parla con l’arte: materia, gesto, spazio della visione prendono corpo nei suoi racconti in un paesaggio di immagini evocate per visualizzare sensazioni ancor più che pensieri. A metterle in fila, queste immagini danno luogo a una serialità performativa. Dalla mancanza dell’amante che la trasforma in «un esclamativo senza il punto» (p. 25), alla sensazione di impotenza che la fa sentire «un’assurda Penelope» che si confonde «in un numero incredibile di spole, fili e colori» (p. 88), fino alla stanchezza e alla solitudine dei primi set: «le domeniche a Belgrado sono [...] come palloni sgonfi, che aspettano il mio fiato per prendere forma. Ma è proprio il fiato, che mi manca» (p. 41). E ancora, l’ingerire fiori per trattenere il corpo dell’amante, in un’assimilazione incarnata della metafora amorosa:

 

Camminavo per il prato e ho visto un fiore bianco, profumato: ho pensato subito a te e l’ho colto. Poi mi sono distratta, e quando ho fatto per sentirlo, il fiore non era più nella mia mano. Ho pensato di averti perduto. Sono tornata indietro e ne ho colto un altro, ma questo non dovevo perderlo, così l’ho mangiato. Era come serbarti dentro di me per sempre (p. 25).

 

D’altra parte Pitagora ha ben chiaro, pur senza mai renderlo esplicito, che il gesto (e il pensiero) attoriale hanno forti linee di continuità con quelli dell’artista. Ce lo ricorda non solo nel sottolineare l’importanza della sua relazione con Mambor all’inizio della sua formazione – «avrei potuto diventare attrice se non avessi incontrato quel buffo pittore?» (p. 56) – ma anche nel delineare ancora una volta quella capacità di esercitare l’attenzione, un esserci nel «qui e ora» che ricorda il ‘metodo Abramovic’, quella «esplorazione dell’essere presente nel tempo e nello spazio», come si legge nella presentazione della piattaforma dell’artista,[1] e che nelle parole dell’attrice romana diventa:

 

L’attore per essere efficace deve muovere ogni energia, controllare ogni fibra, ma allora che cos’è un cattivo attore? Forse uno che esercita solo il mestiere senza dare alla propria voce, ai propri gesti un sostegno di fiato, e non si tratta di una questione puramente tecnica. Forse un buon attore è uno che ha il senso della storia e della precarietà dell’attimo e lo esprime magari inconsciamente. «Qui e ora»: lo sanno gli sportivi, lo sanno gli amanti e coloro che sanno pregare (p.93).

Bibliografia

R. Amossy, ‘Autobiographies of Movie Stars: Presentation of Self and Its Strategies’, Poetics Today, VII, 4, 1986, pp. 673-703.

M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967 (ed. or. L’éspace littéraire, Paris, Gallimard, 1955).

L. Bosè, La bambola di Picasso, in P. J. Rico La Casa (a cura di), Picasso & Dominguìn: un’amicizia ad arte, raccontata da Lucia Bosè, catalogo della mostra omonima, Milano, Libri Scheiwiller, 2004, pp. 105-120. Il testo è la traduzione italiana dell’autobiografia scritta con Begoña Aranguren, Lucia Bosè: diva, divina, Barcellona, Ed. Planeta, 2003.

C. Campo, ‘Attenzione e poesia’, L’approdo letterario, VII, 13, 1961, pp. 58-63, ora in Ead., Gli imperdonabili [1987], Milano, Adelphi, 2017, pp. 165-170.

L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli, ‘Scritto dalle stelle. Sulla rotta delle attrici italiane che scrivono’, in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli (a cura di), ‘Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono’, Arabeschi, 14, luglio-dicembre 2019 <http://www.arabeschi.it/numbers/arabeschi-n-14/> [accessed 7 October 2021].

C. Lonzi, Taci anzi parla. Diario di una femminista, Roma, Scritti di rivolta femminile, 1978.

M. Marchetti, ‘Paola Pitagora scrittrice. Il saccheggio di una vita’, in L. Cardone, A. Masecchia, M. Rizzarelli (a cura di), ‘Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono’, Arabeschi, 14, luglio-dicembre 2019 <http://www.arabeschi.it/42-paola-pitagora-scrittrice-il-saccheggio-di-una-vita/> [accessed 7 October 2021].

C. Pontillo, intervento dal titolo Ritratti e autoritratti. Immagini di Elsa de’ Giorgi fra letteratura e arte nel workshop Divagrafie. Scrivere il corpo, tra parola e gesto performativo/2, 11 dicembre 2020, evento online, <https://www.damadivagrafie.org/divagrafie-primi-affondi/> [accessed 7 October 2021].

F. Piana, ‘Gli scandali di una “ninfetta con la frangia lunga”: Catherine Spaak nei primi anni Sessanta’, Schermi, IV, 8, 2020, pp. 63-79.

P. Pitagora, Fiato d’artista. Dieci anni a Piazza del Popolo [2001], Palermo, Sellerio, 2017.

M. Rizzarelli, ‘L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della diva-grafia’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), ‘Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano’, Arabeschi, 10, luglio-dicembre 2017 <http://www.arabeschi.it/13-/> [accessed 7October2021].

M. Rizzarelli, ‘Il doppio talento dell’attrice che scrive. Per una mappa delle divagrafieCahiers d’études italiennes, 32, 2021 <https://doi.org/10.4000/cei.9005> [accessed 7 October 2021].

G. Simi, ‘L’occhio che palpita: Monica Vitti e gli scritti sull’arte’, Cinergie, 20, dicembre 2021 (in uscita).

C. Spaak, Da me, Milano, Bompiani, 1993.

M. Vitti, ‘L’occhio innocente: dall’arte al cinema, di passione in passione’, Cahiers d’Art Italia, 3, 1994 (a), p. 160.

M. Vitti, ‘L’occhio innocente’, Cahiers d’Art Italia, 5-6, 1994 (b), p. 173.

S. Weil, Attesa di dio, Milano, Adelphi, 2008 (ed. or. Attente de Dieu, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1966).

 

*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca PRIN (bando 2017): Divagrafie. Drawing a Map of Italian Actresses in writing // D.A.M.A. / Divagrafie. Per una mappatura delle attrici italiane che scrivono // D.A.M.A., che vede come Principal Investigator Lucia Cardone (Università degli Studi di Sassari) e come responsabili delle altre unità coinvolte nel progetto Anna Masecchia (Università di Napoli Federico II) e Maria Rizzarelli (Università degli Studi di Catania).

 

Per i riferimenti a Catherine Spaak, sono debitrice al dialogo con Federica Piana, che ringrazio.


1 Cfr. <https://mai.art/abramovic-method> [accessed 7 October 2021].