1.8. ‘Etnologia’ degli affetti. La biografia familiare di Lina Sastri e le memorie sentimentali di Paola Pitagora*

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1. Donne e scrittura

È ormai noto che, lungo la storia della letteratura, la scrittura delle donne è stata sistematicamente marginalizzata. Escluse dal canone, o accolte con riserva grazie a una singola e ‘fortunata’ opera, le scrittrici sono state per secoli screditate o messe a tacere. Le tecniche, spesso subdole, impiegate a favore della loro esclusione sono ampiamente descritte nell’ormai classico saggio di Joanna Russ, How to Suppress Women’s Writing (Russ 1983), pubblicato solo recentemente in Italia. I metodi di isolamento sono numerosi: dalla «negazione dell’agency» (non può averlo scritto una donna, deve esserci stato l’intervento di un uomo) alla sua «contaminazione» (l’ha scritto una donna ma è sconveniente, non avrebbe dovuto); dall’utilizzo di «due pesi e due misure» (l’ha scritto una donna ma la materia è poco rilevante o interessante) alla «falsa categorizzazione» (l’ha scritto una donna ma non ha alcun valore artistico) (Russ 1983).

Eppure, nonostante tutto, le donne hanno sempre scritto. E, nella contemporaneità, a farlo sono sempre più numerose, come se l’esortazione a scrivere lanciata da Hélène Cixous quarant’anni fa (Cixous 1975a) fosse stata pienamente accolta. Se il pensiero filosofico necessita di numerosi sforzi per riuscire a smarcarsi dal linguaggio fallocentrico da cui per secoli è stato alimentato (Cixous 1975b), per la letteratura la strada si profila come meno ardua: «il discorso poetico o narrante ha strumenti più duttili e raffinati per evocare attraverso la lingua straniera i sensi possibili della lingua mancante» (Cavarero 1987, p. 55).

Tuttavia, è soprattutto nel vasto campo delle scritture del sé che la presenza femminile si è affermata (e continua a farlo) in modo sempre più vistoso, impossibile da ignorare. L’autobiografia, genere letterario da sempre sottostimato (Tassi 2007, p. 12) e relegato ai margini della letteratura (Lejeune 1975, p. 403), ha (forse proprio grazie a tale svalutazione da parte della critica ufficiale) a tutti gli effetti rappresentato per moltissime donne uno spazio di libertà in cui raccontarsi.

Contrariamente a ciò che ipotizzava Virginia Woolf in A Room of One’s Own, dunque, l’impulso delle donne verso l’autobiografia non accenna a esaurirsi (Woolf 1929, p. 170). Di conseguenza, gli studi specifici sull’argomento, seguendo una tendenza che si sviluppa a partire dagli anni Ottanta del Novecento, continuano ad aumentare, tanto che il settore delle ricerche e delle teorizzazioni femministe in ambito autobiografico risulta «così ampio da costituire ormai un campo autonomo e ben configurato» (Anglani 1996, p. XVI). Basti pensare, tra gli altri, al fondamentale lavoro di Domna Stanton del 1984, in cui la studiosa, interrogandosi sulle specificità delle scritture autobiografiche femminili (ma allo stesso tempo evitando di cadere nei tranelli dell’essenzialismo di genere) ha coniato il termine autogynography (Stanton 1984).

Prima di tale riscoperta da parte della critica femminista, le autobiografie delle donne venivano considerate di scarso interesse scientifico, da un lato poiché più legate (per ovvie ragioni) al quotidiano e all’esperienza personale, dall’altro in quanto «troppo frammentarie e discontinue per corrispondere a quell’immagine “unitaria” e inviolabile che viene trasmessa solitamente dalle memorie maschili» (Mattesini 1993, p. 31). In realtà sono proprio la frammentarietà della scrittura e la centralità del vissuto a rendere le scritture autobiografiche femminili particolarmente stimolanti da analizzare e, soprattutto, meritevoli di essere degnamente e ulteriormente indagate. E ciò perché, nello scrivere di sé portando alla superficie la loro esperienza fino ad allora inespressa, le donne hanno certamente rivoluzionato il contenuto e gli scopi dell’autobiografia attraverso la creazione di storie alternative (Smith e Watson 1998, pp. 5-6).

 

2. Le scritture delle attrici

È anche in questa prospettiva, nel tentativo cioè di portare alla luce racconti dissonanti rispetto alla storia ufficiale (in questo caso rispetto alla storia del cinema), che si stanno sviluppando i recenti studi sulle scritture delle attrici (Rizzarelli 2017; Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019; Rizzarelli 2021).

Quello tra le attrici e la scrittura (specialmente quella autobiografica) è un legame che inizia a consolidarsi dall’Ottocento e che giunge fino alla contemporaneità, dando vita dunque a una produzione testuale straordinariamente ricca e variegata (Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019). Se si guarda alla eterogeneità di tali testi, pur tenendo in considerazione il loro carattere autopromozionale (Amossy 1986), ci si accorge di come alcuni tendano a discostarsi da quelle strategie di presentazione del sé tipiche dello star system.

È il caso, ad esempio, di due scritti che, come si vedrà, rientrano in un tipo di autobiografia che può essere definita ‘relazionale’: sono cioè dei racconti di vita (o di una parte di essa) che, piuttosto che focalizzarsi sull’individualità delle autrici, si basano interamente sulla relazione con altri soggetti. Non stupisce il fatto che questo tipo di scrittura autobiografica sia maggiormente rintracciabile nella produzione femminile: persino restringendo il campo alle sole autobiografie di attrici ci si rende conto di quante abbiano scelto, per raccontarsi, di ripercorrere le loro relazioni familiari o sentimentali.

Nello specifico, in questa sede verranno approfonditi i casi di Lina Sastri e Paola Pitagora [figg. 1-2], autrici, rispettivamente, di una biografia familiare e di un memoir sentimentale. La scelta dei due testi si spiega facilmente grazie a una suggestione: ci è sembrato infatti che le due attrici attraverso la loro scrittura abbiano compiuto un’operazione letteraria simile a quella che la scrittrice Annie Ernaux descrive con queste parole:

 

Non un racconto, che produrrebbe una realtà invece di ricercarla, e neppure accontentarmi di rievocare e trascrivere le immagini della memoria. Piuttosto, trattare quelle stesse immagini come documenti che mi si chiariranno solo dopo averli sottoposti a diversi approcci di analisi. Essere, insomma, l’etnologa di me stessa (Annie Ernaux 1997, p. 33).
 

A nostro parere, le autobiografie delle due attrici, seppure in maniera diversa, si prestano in modo particolare ad essere lette seguendo questa felice intuizione della scrittrice francese.

 

2.1. Lina Sastri e le parole di Ninetta

La casa di Ninetta, pubblicato nel 2018 (e ora anche monologo teatrale), è un agile testo di circa sessanta pagine che Lina Sastri dedica alla madre, scomparsa da poco tempo [fig. 3]. La morte di Anna, detta Ninetta, dopo una lunga e sfiancante malattia, provoca in Sastri la «necessità di raccontare» (Sastri 2018). L’esito di tale urgenza di scrittura è una peculiarissima biografia in cui la commemorazione si combina a stralci autobiografici e in cui è certamente il rapporto madre-figlia a essere centrale.

L’aspetto relazionale, che emerge fin dalle prime righe e accompagna la lettura sino all’ultima pagina, è sottolineato a livello stilistico dal fatto che l’attrice abbia scelto di rivolgersi direttamente alla madre utilizzando la seconda persona singolare. In questo modo tutto il testo assume le sembianze di un dialogo che è destinato a rimanere incompiuto.

Nel raccontare la vita della madre, Sastri si sofferma sulle numerose sofferenze che la donna è stata costretta a sopportare, non solo negli ultimi anni. Obbligata a sposare il padre dell’attrice dopo aver subito uno stupro da cui è nato il suo primogenito, Ninetta ha affrontato per anni non solo continue umiliazioni da parte del marito, ma anche ripetute assenze culminate con l’abbandono a favore di una nuova famiglia. È la storia quindi di una donna coraggiosa che ha cresciuto due figli da sola e che nella solitudine ha passato l’ultimo periodo della sua vita. Il senso di colpa dell’autrice è martellante: non è riuscita a stare accanto proprio a colei che era fatta per «i suoni della vita e della gioia», «per parlare… ridere… amare» (Sastri 2018, p 14).

E, nel testo, è proprio la rilevanza della parola, nello specifico quella materna, ad avvicinare idealmente la scrittura di Sastri a quel tentativo di diventare «etnologa di se stessa» di cui si è fatto cenno. L’attrice infatti porta avanti uno scavo linguistico che emerge fin dalle prime battute dell’incipit («“Me ne vogl’i’ all’America […] mò me ne vaco America!”») e che si manifesta nel riportare sulla pagina frasi pronunciate dalla madre nel corso degli anni, stralci di dialoghi, tutti rigorosamente in dialetto.

Sastri si affida quindi al recupero della parola per ricucire insieme i fili della memoria e per tenere in vita, nonostante tutto, la relazione. Ma non sempre le parole possono bastare e quelle della madre di Sastri spesso sembrano perdere consistenza a causa della malattia. L’alzheimer intacca profondamente il suo discorso e la costringe ad affidarsi unicamente alla voce:

 

e parlavi cantando allora, non più parole, che la ragione non ti aiutava più a ordinare, ma note, lunghe e dolci, armonie del cuore, brevi parole senza senso che finivano in melodia […] ora che vivevi nel passato e nel presente doloroso, ora che le parole stupide e vuote, che vuote e tante volte false sono, finalmente avevano lasciato il posto al suono, che non mente mai (Sastri 2018, p.17).

 

Non è tanto un ‘lessico famigliare’, quindi, quello che Sastri restituisce attraverso la scrittura, quanto una sonorità materna, antica, fatta di parole, sillabazioni, canti.

 

2. 2. Paola Pitagora e le lettere di Renato

Come anticipato, il secondo caso preso in esame è Fiato d’artista (Pitagora 2001), scritto da Paola Pitagora e pubblicato nel 2001 da Sellerio [fig. 4]. Si tratta, anche questa volta, di un testo in cui la scrittura autobiografica ha avuto esiti particolarissimi, sostanzialmente unici, all’interno del panorama delle autobiografie delle attrici italiane.

Il taglio è senza dubbio quello di un memoir, poiché l’autrice (pur mantenendo uno sguardo soggettivo) racconta una storia collettiva (Donnarumma 2014, pp. 133-134): nello specifico, «ripercorre, a distanza di quasi quarant’anni, le tensioni avanguardistiche della Roma degli anni Sessanta» (Marchetti 2019). Sono proprio le parole di Pitagora a inquadrare il testo come delle memorie:

 

Quando parlo della pittura di quel periodo, degli artisti, mi rendo conto che il mio punto di vista è parziale e limitato: non potrei mai, né sono interessata a fare una storiografia di quegli anni […] Io riunisco frammenti della memoria, non cito nomi importanti che però non ho conosciuto e non hanno inciso nella mia vita (Pitagora 2001, p. 102).

 

La narrazione, che si apre alla fine degli anni Cinquanta e si chiude con l’avvento del Sessantotto, non è limitata alla sola dimensione corale legata alla Scuola Romana, ma è caratterizzata da ulteriori e peculiari sfumature che la rendono un perfetto esempio di coming of age, sia dal punto di vista artistico che sentimentale.

Fiato d’artista, infatti, ruota intorno alla relazione tra Paola Pitagora e il pittore Renato Mambor, durata una decina d’anni [fig. 5]. Il testo è inusuale fin dalla sua struttura: gli stralci di lettere che i due giovani amanti scrivevano su un diario forniscono lo scheletro per il racconto retrospettivo di Pitagora. È in questo senso, dunque, che l’autrice compie quell’operazione ‘etnologica’ di cui si è parlato: lavorando direttamente sulle fonti, parte dalle lettere e tesse intorno a queste una storia che sia in grado di tenerle insieme. L’attrice crea così una doppia narrazione, arricchendo lo scambio epistolare con un ulteriore livello di lettura che si rivela indispensabile per tentare di riportare sulla pagina la storia d’amore con Mambor. Già anni prima è lei stessa, in una delle lettere, a notarlo: «quando rileggo il nostro diario sento che c’è più storia tra le righe che nelle righe stesse» (Pitagora 2001, p. 45).

Dunque anche in questo caso, e in maniera ancora più palese rispetto al testo di Sastri, si manifesta il carattere relazionale della scrittura autobiografica: non solo il racconto è collettivo e generazionale, ma viene costruito partendo da un epistolario. E, riprendendo Roland Barthes, per «l’innamorato, la lettera non ha alcun valore tattico […] quello che io intraprendo con l’altro è una relazione, non una corrispondenza» (Barthes 1977, p. 127).

Scritture femminili come quelle proposte contribuiscono a scalfire l’illusione che l’autobiografia passi obbligatoriamente per l’autodeterminazione: a volte, come si è osservato, «il sé viene definito a partire dalle relazioni con gli altri» (Eakin 1998, p. 63).

La stessa immagine, quella dell’identificazione del sé tramite l’altro, è suggerita dal finale di Fiato d’artista: in un dialogo immaginario in cui Pitagora chiede a Mambor che cosa sia, ora, lui per lei, il pittore risponde «IO SONO» (Pitagora 2001, p. 169).

 

Bibliografia

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V. Woolf, Una stanza tutta per sé [1929], trad. it. di E. Costantino, Milano, BUR Rizzoli, 2013.

 

* Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca PRIN 2017: Divagrafie. Drawing a Map of Italian Actresses in writing // D.A.M.A. / Divagrafie. Per una mappatura delle attrici italiane che scrivono // D.A.M.A., che vede come Principal Investigator Lucia Cardone (Università degli Studi di Sassari) e come responsabili delle altre unità coinvolte nel progetto Anna Masecchia (Università di Napoli Federico II) e Maria Rizzarelli (Università degli Studi di Catania).