4.9. «Guardiamo il quotidiano che diamo per scontato e facciamolo esistere». L’opera video di Marina Ballo Charmet

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È il 1998 quando Marina Ballo Charmet, psicoterapeuta di professione e fotografa sin dagli anni Ottanta, presenta la sua prima videoinstallazione dal titolo Conversazione (installazione con 4/10 video su 4/10 monitor, 1' ciascuno in loop) [fig. 1]. Il luogo espositivo è lo Studio Marconi di Milano, spazio di ricerca sempre attento alle sperimentazioni anche in ambito multimediale: in una stanza sono disposti ad ellisse dieci monitor, i quali trasmettono close-up di corpi di altrettante persone, prevalentemente volti, colli, tempie. La traccia audio, invece, riproduce il suono del loro respiro: ci si aspetterebbe uno scambio, un dialogo tra i diversi soggetti, come vorrebbe il titolo – o, al massimo, una riflessione sull’impossibilità di esso, sull’incomunicabilità – invece, semplicemente, essi sostano, pazienti e sospesi.

Lo spettatore è immerso nella presentificazione di ciò che non è nulla di speciale, che non è nemmeno pensato, un processo automatico, ma che è tale, «esattamente così e niente di più» (Barthes 1980, p. 108). Si fa ‘presenza’, in altre parole, ciò che è percepito ma non visto, il «fuori campo» (Ballo Charmet 2013, pp. 81-96; 2019; Lissoni 2007, p. 110 e 113): «è come se la frangia, la piega, il vivere esperienze senza essere presenti attentamente, assumesse importanza, fosse necessario. “La cosa” esiste: ha una sua presenza e un suo senso. Il marginale, il latente, si rivelano sorprendenti» (Ballo Charmet 2017, p. 57).

Tale materiale latente, che non solo esiste ma è fondativo della nostra esperienza, come interagisce con la nostra percezione? E il nostro corpo, che della percezione è mezzo, quale ruolo gioca? In questo senso alcuni lavori video degli anni successivi elaborano ulteriormente quanto già affrontato in Conversazione, non offrendo risposte ma problematizzando la questione e sovvertendo i codici del linguaggio.

L’anno successivo all’esposizione da Marconi, nel 1999, l’artista gira Passi leggeri (Passi leggeri n. 1, 4'56'' e Passi leggeri n. 2, video, 4'56'') [fig. 2]. Sviluppato a metà degli anni Novanta in parallelo all’opera fotografica Rumore di fondo (1996-1999), dove sono immortalate case e muri della città, questo video – il cui titolo è desunto da un dramma di Samuel Beckett (1976) – è dedicato a un’altra azione data per scontata: camminare, in particolare nell’intimità della propria abitazione. Nella sua casa/studio l’artista lega la videocamera all’altezza della vita, prima frontalmente e poi sulla schiena, ottenendo quindi prospettive diverse e, in generale, un punto di vista ribassato. Se la camera inquadra quindi gli ambienti domestici senza alcun tipo di regia, offrendo immagini esteticamente non costruite, l’audio è quello dei rumori casalinghi ma soprattutto dei ‘passi leggeri’ dell’autrice, che spesso decide di esporre i due filmati – vista frontale/vista posteriore – su due schermi affiancati. Rispetto a Conversazione, emerge qui con più chiarezza «qualcosa di preconscio, lontano dal conosciuto e controllato dalla mente» (Ballo Charmet 2017, p. 64).

Il fuori campo è ora quello del quotidiano familiare, e tale slittamento è permesso dalla rinuncia all’autorialità in favore dell’autonomia della macchina, soddisfacendo ciò che Walter Benjamin ha chiamato, nella sua Piccola storia della fotografia, «inconscio ottico»:

Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, quell’hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell’essere in un certo modo di quell’attimo lontano si annida ancora oggi il futuro […] soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo (Benjamin 1966, pp. 62-63).

Il caso irrompe, diventa protagonista, mentre lo spettatore si fa trasportare, affascinato dall’automatismo della tecnologia che permette una visione non mediata della vita intima altrui. Un superamento dell’antropocentrismo garantito anche dall’inquadratura bassa, come fosse lo «sguardo dal basso» del bambino (Chevrier 2018, s.p.), adottato in diversi suoi lavori come le serie fotografiche Con la coda dell’occhio (1993-1994) e Rumore di fondo (1996).

Tale sguardo ribassato e l’approccio solo in apparenza freddo e analitico a ciò che in realtà ha un profondo legame con la sfera dell’affezione ritornano in Stazione eretta (2000, 1') [fig. 3], dove l’inquadratura segue i piedini di un bambino impegnati nei primi passi incerti. Il soggetto riporta ad alcuni video in tre quarti dedicati alla separazione tra madre e figlio nel momento dell’inserimento all’asilo nido, realizzati nei primi anni Ottanta, ancora prima del suo esordio in fotografia. Si tratta di materiale raccolto per il Centro Innovazione Educativa del Comune di Milano, destinato alla formazione degli educatori; se la finalità allora era documentaria – Ballo Charmet è specializzata in psicoanalisi infantile – ora prevale l’aspetto concettuale, sviluppando in altra chiave un interesse centrale nella sua ricerca: «l’identificazione con lo sguardo del bambino è un tema che mi sono portata dentro a lungo, è uno sguardo che contiene il caso, che è ancora privo di codice, di regole, di conformismo» (Ballo Charmet 2013, p. 84). Se in Stazione eretta tornano l’inquadratura rasoterra, il pavimento, la traiettoria di Passi leggeri, si perdono però l’automatismo e la consuetudine, a favore di un terreno ancora privo di riferimenti consci e non sovraccaricato da predeterminazioni.

Nello stesso anno realizza anche un altro interessante video dal punto di vista dei temi qui trattati, Lettura (2000, videoinstallazione a due canali, 2') [fig. 4]. Si ode ancora una volta il respiro, registrato nei suoi movimenti minimi, mentre su due monitor vediamo un occhio e le parole che sta leggendo, tratte da Il piacere del testo di Roland Barthes. L’azione mentale trasporta il soggetto altrove, il suo respiro involontario è solo «qualcosa di marginale», ma qui presentato come «zona significativa, che può avere senso. Sta sul margine, ma sul margine del percepire» (Ballo Charmet 2017, p. 66).

Il corpo come territorio del percepito ci porta all’ultimo video che intendiamo analizzare in questa sede, Dimmi (2000, videoinstallazione a due canali, 3'56'') [fig. 5]. Gli schermi trasmettono le immagini di due bocche, appartenenti a un uomo e a una donna: il primo intima alla seconda di «dire», ma lei apre le labbra rimanendo bloccata nel tentativo di rispondere, senza riuscire a proferire alcun suono. La spaccatura comunicativa tra i due è evidente, ma l’analisi di Ballo Charmet scende più in profondità, in un’equivalenza tra corpo e linguaggio dove «afasia e parola si oppongono a partire da uno sforzo o da un’azione più corporale» (Ballo Charmet 2017, p. 66). Ha notato Gustavo Pietropolli Charmet a proposito di Primo campo, serie fotografica realizzata negli stessi anni (2000-2002) che, in ultima istanza, «possiamo avere solo gli scarti dell’altro» (Ballo Charmet 2017, p. 73), riferendosi alle grandi stampe a colori che riportano dettagli di volti in modo molto ravvicinato, suggerendo una vicinanza intima. Nonostante tale prossimità, in questa serie – così come in Dimmi – a emergere pare essere, al contrario, l’impossibilità di incontrarsi davvero, rafforzata ancora una volta dalla visione parziale del volto. L’afasia della donna fa emergere aspetti inconsci e preverbali, che lo spettatore può solo provare a ipotizzare.

La ricerca di Marina Ballo Charmet, come emerso da questa breve analisi, mette al centro ciò che solitamente è fuori dal pieno controllo visivo, ma anche dai dettami della cultura dominante. In questo senso i due riferimenti principali sono da una parte Anton Ehrenzweig, che ha parlato di «visione periferica» (1953), dall’altra Salomon Resnik, che ha insistito sulla conoscenza «distratta» (1993): ai bordi della visione e, insieme, ai bordi della percezione. Se da un lato è oggetto d’attenzione ciò che si colloca nei «dintorni dello sguardo» (Chevrier 2007), dall’altro è messo in risalto il primordiale, e i due aspetti si incontrano e si fondono. L’infanzia è allora interessante non nella sua innocenza, ma nella sua «possibilità di recuperare aspetti che qualcuno potrebbe considerare primitivi, più vicino a qualcosa di arcaico, di inconscio. L’arte, i processi simbolici in genere, lavorano su questi aspetti, ma lo devono fare con una certa lucidità, devono saper maneggiare questi risvolti» (Ballo Charmet 2013, p. 89).

Il suo lavoro pone di fronte a «cose senza importanza essenziale, ma ricche di senso che si addice perfettamente all’arte» (Grazioli 2018, p. 174). Elio Grazioli ha ricondotto la sua ricerca alla concezione duchampiana di inframince, infrasottile, che «indica innanzitutto ciò che è all’estremo della percezione, del discernibile, della differenza, ma senza essere né l’invisibile, né l’inscernibile, né il trascendente, ma invece una presenza al limite» (Ivi, p. 7).

Avvicendarsi in tali territori estremi è un’operazione mentale che non può fare a meno del suo imprescindibile vettore, il corpo: ad essere portato al centro della narrazione, insieme al periferico, è infatti esso stesso, anche se in frammenti, permettendo di colmare quei salti percettivi altrimenti invarcabili. «Guardiamo il quotidiano che diamo per scontato e facciamolo esistere» ammonisce l’artista (Ballo Charmet 2017, p. 60). Oltre le sovrastrutture, liberati dai codici, con una prospettiva dal basso: ponendo, semplicemente, lo sguardo più in là.

 

Bibliografia

AA. VV., Marina Ballo Charmet, Fotografie e video 1993/2007, Milano, Electa/Jarach Gallery, 2007.

M. Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, a cura di S. Chiodi, Macerata, Quodlibet, 2017.

M. Ballo Charmet, Sguardo terrestre, a cura di S. Chiodi, Macerata-Roma, Quodlibet-MACRO, 2013.

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], Torino, Einaudi, 1980.

W. Benjamin, ‘Piccola storia della fotografia’, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966.

S. Beckett, Passi [1976], Torino, Einaudi, 1980.

J.-F. Chevrier (a cura di), Au bord de la vue. Linee biografiche, Ravenna, Danilo Montanari Editore, 2018.

J.-F. Chevrier (a cura di), Primo campo, Cherbourg-Octeville, Le Point du jour Éditeur, 2004.

S. Chiodi (a cura di), Marina Ballo Charmet. Fuori campo, Madrid, Istituto Italiano di Cultura, 2019.

A. Ehrenzweig, The Psychoanalysis of Artistic Vision and Hearing. An Introduction to a Theory of Unconscious Perception, London, Routledge & Kegan Paul, 1953.

E. Grazioli, Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti, Milano, Postmedia books, 2018.

S. Resnik, Sul fantastico. I. Tra l’immaginario e l’onirico, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.