È il 1998 quando Marina Ballo Charmet, psicoterapeuta di professione e fotografa sin dagli anni Ottanta, presenta la sua prima videoinstallazione dal titolo Conversazione (installazione con 4/10 video su 4/10 monitor, 1' ciascuno in loop) [fig. 1]. Il luogo espositivo è lo Studio Marconi di Milano, spazio di ricerca sempre attento alle sperimentazioni anche in ambito multimediale: in una stanza sono disposti ad ellisse dieci monitor, i quali trasmettono close-up di corpi di altrettante persone, prevalentemente volti, colli, tempie. La traccia audio, invece, riproduce il suono del loro respiro: ci si aspetterebbe uno scambio, un dialogo tra i diversi soggetti, come vorrebbe il titolo – o, al massimo, una riflessione sull’impossibilità di esso, sull’incomunicabilità – invece, semplicemente, essi sostano, pazienti e sospesi.

Lo spettatore è immerso nella presentificazione di ciò che non è nulla di speciale, che non è nemmeno pensato, un processo automatico, ma che è tale, «esattamente così e niente di più» (Barthes 1980, p. 108). Si fa ‘presenza’, in altre parole, ciò che è percepito ma non visto, il «fuori campo» (Ballo Charmet 2013, pp. 81-96; 2019; Lissoni 2007, p. 110 e 113): «è come se la frangia, la piega, il vivere esperienze senza essere presenti attentamente, assumesse importanza, fosse necessario. “La cosa” esiste: ha una sua presenza e un suo senso. Il marginale, il latente, si rivelano sorprendenti» (Ballo Charmet 2017, p. 57).

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