Per quanto riguarda l’incrocio tra Film Studies e Women’s Studies, il decennio degli anni Cinquanta offre un interessante campo di osservazione della nascita – o rinascita – del personaggio femminile moderno, specialmente nelle cinematografie europee. Questa rinascita coinvolge una trasformazione sociale che ha portato la teoria filmica femminista a esplorare, nell’importanza del binomio società-cinema (Sieglohr 2000) anche il possibile rapporto attrici-spettatrici (Garofalo 1956; Grignaffini 2002; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Non a caso questo decennio diventa anche l’ambiente di nascita di nuove forme divistiche che, stimolate dalla trasformazione dei nuovi panorami mediatici, pongono l’accento sull’importanza delle attrici nella costruzione delle identità culturali, in un momento in cui anche nelle sale lo sguardo è femminile.

Lo status iconico di Anna Magnani come diva italiana del dopoguerra è un esempio di come la storia di una nazione potrebbe essere scritta attraverso i corpi (e i gesti) delle sue attrici (Grignaffini 2002). Diversi film della seconda metà degli anni Quaranta suggeriscono la loro capacità di rappresentare le mutazioni culturali e sociali di un contesto turbolento come quello della transizione democratica italiana. Il periodo tra il 1946 e il 1950 comprende la sezione più prolifica della carriera dell’attrice, con un totale di dodici interpretazioni che racchiudono le basi del suo manifesto figurativo: la donna che, desiderando più di quanto le sia concesso, finisce per ‘traboccare’ dal mondo filmico che la contiene, spesso attraverso i suoi gesti. In un probabile rapporto con il contesto sociale con cui dialogano, tutte le figure incarnano una traiettoria di cambiamento. Sia per desiderio di promozione sociale, mobilità o trasformazione personale, personaggi come Angelina Bianchi (L’onorevole Angelina, L. Zampa, 1947), Gioconda Perfetti (Abbasso la ricchezza!, G. Righelli, 1946), Linda Bertoni (Molti sogni per le strade, M. Camerini, 1948) o Assunta Spina (Assunta Spina, M. Mattoli, 1948) espongono idee alternative di una femminilità archetipica nell’esaltazione del desiderio individuale come dimensione principale. In questo periodo Magnani indossa i gesti di madri che militano in politica (L’onorevole Angelina), prostitute con devozione religiosa (Lo sconosciuto di San Marino, V. Cottafavi, 1948; Vulcano, W. Dieterle, 1950), vedove con ambizioni di imprenditorialità sociale (Abbasso la ricchezza!), femmes fatales che sono anche donne autonome (Il bandito, A. Lattuada, 1946; Assunta Spina) o attrici che militano nella resistenza politica (Avanti a lui tremava tutta Roma, C. Gallone, 1946). La transizione che questi personaggi subiscono ha anche degli aspetti narrativi ed estetici. Significativamente, molti dei personaggi di questi anni tracciano traiettorie di emancipazione spesso troncate dall’imposizione di un simbolico ritorno all’ordine che viene segnato dalla punizione che tocca alla donna ambiziosa, insoddisfatta o libera. Tuttavia, i gesti dell’attrice travalicano l’ideologia prevalente dei film con un messaggio di ribellione, a volte tragico ma sempre complice e catartico verso le spettatrici. Parola, volto e gesto diventano così lo specchio di un desiderio di emancipazione in un momento in cui il cinema nazionale trova le donne «come pubblico e come argomento» (Morreale 2011, p. 82) [fig. 1].

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1. Il giallo in bianco e nero

Il rapporto tra letteratura e televisione italiana è antico e prolifico. La RAI rigidamente in bianco e nero, monocanale e pedagogica, è ansiosa di cooptare prodotti provenienti da altri e più nobili ambiti mediali (il teatro, il cinema, l’editoria) in una necessaria operazione di legittimazione nei confronti di una classe dirigente abbastanza scettica sul nuovo medium.

In Italia il romanzo poliziesco nasce negli anni Trenta senza avere alle spalle la solida tradizione del poliziesco inglese, francese o addirittura statunitense, per cui i primi thriller italiani sono ambientati in Paesi stranieri. Tuttavia nella letteratura italiana esiste un modello di riferimento rappresentato da Il cappello del prete (1888), il romanzo di Emilio De Marchi considerato il primo thriller italiano, sulla cui scia si inseriscono alcuni autori che ambientano le opere nel nostro Paese. Tra questi Alessandro Varald, che crea il commissario Ascanio Bonichi, impegnato a dipanare le ombre di una Roma sotto il regime fascista dove le storie si svolgono tra palazzi principeschi e pensioni equivoche, o Augusto De Angelis (ucciso dai fascisti nel 1944), autore di romanzi di qualità incentrati sul personaggio del commissario De Vincenzi, poi in tv sul Programma Nazionale nel 1974 con il volto di Paolo Stoppa. A partire dal secondo dopoguerra altri autori e registi, in una feconda osmosi tra letteratura, cinema e televisione, si dedicheranno al genere poliziesco: Mario Soldati con il film La mano dello straniero (1954) o Carlo Emilio Gadda con il romanzo che lo rese noto al grande pubblico Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana (1957), da cui nel 1983 fu tratta una miniserie in quattro puntate interpretata – tra gli altri – da un gigante Flavio Bucci.

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Negli ultimi quindici anni un rilevante numero di studiosi ha rivolto la propria attenzione verso i film festival, laddove in precedenza il tema era affrontato sporadicamente o si concentrava su singoli casi. Dalla fine del primo decennio del Duemila, infatti, i festival cinematografici sono stati analizzati con riferimento alla loro storia ed evoluzione, alla loro funzione entro il sistema culturale e industriale (in senso diacronico e sincronico), alle caratteristiche comuni e specifiche, alle ricadute sul territorio in cui hanno sede in termini occupazionali, economici e d’immagine, alla posizione strategica giocata rispetto alle dinamiche socio-politiche transnazionali, alla carriera di un regista e al ciclo di vita di un’opera, etc. In un corpus ampio di lavori, caratterizzato da approcci eterogenei, di cui è possibile farsi un’idea attraverso gli indici bibliografici stilati dal Film Festival Research Network fondato nel 2008,[1] poco spazio è dedicato alla specificità del contributo femminile all’interno del circuito festivaliero e al significato da conferire a questa presenza. Di solito la ricerca si concentra sul piano delle rappresentazioni, ossia sulle modalità con le quali le donne vengono raffigurate nei film che partecipano ai festival, mentre la cronaca mondana dedica particolare attenzione alla donna in quanto corpo: ‘madrina’ dell’evento, icona della moda, presenza affascinante e in grado di catalizzare i flash molto più degli uomini. Quasi mai, invece, si indaga sull’entità e sulla qualità della presenza femminile sul piano organizzativo e professionale. Tale mancanza si spiega anche alla luce dell’assenza di archivi specifici sui e dei festival e alla scarsità di dati su pubblico, profili professionali, impatto sul territorio di questi eventi, etc., come se la natura effimera e transitoria dei festival producesse, automaticamente, una scarsa attenzione conservativa e analitica.

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«Perché non scrive della sua vita?» «Perché la conosco». «Ma gli altri no, solo giornalisticamente». «Allora dovrei farla diventare addirittura una storia. Francamente trovare idee per la mia vita mi sembrerebbe troppo, avendola anche vissuta» (Valeri 2010, p. 3) [fig. 1]. Si apre così l’autobiografia di Franca Valeri, Bugiarda no, reticente (2010), testo sul quale ho deciso di basarmi per la costruzione di un format audiovisivo dedicato alle scritture delle attrici [fig. 2]. L’idea che mi ha guidato è stata quella di creare un prototipo di video-ritratto che potesse funzionare come pilot di una vera e propria serie di video-saggi a partire dai testi autobiografici delle dive italiane indagati all’interno del PRIN DaMA – Drawing a Map of Italian Actresses in Writing. In questo testo cercherò quindi di interrogare la mia pratica audiovisiva tracciando i contorni delle mie scelte estetiche e stilistiche.

 

1. Il doppio come trama audiovisiva

La scelta è ricaduta sul testo di Valeri per un’interessante caratteristica che lo posiziona immediatamente in una cornice ibrida tra finzione e autobiografia: per parlare di sé, infatti, l’autrice sceglie l’espediente di un’intervista giornalistica. Le domande della ‘finta’ giornalista le permettono di sollecitare i ricordi sul filo del dialogo che favorisce una narrazione per frammenti e per associazioni di tipo analogico. D’altra parte, come nota Maria Rizzarelli nel suo studio Il doppio talento dellattrice che scrive. Per una mappa delle ‘Divagrafie’, «il discrimine fra dimensione autobiografica e istanza finzionale appare estremamente labile e problematico nella scrittura delle attrici» (Rizzarelli 2021).

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