3.2. Non solo madrine. Rappresentazioni, professioniste e spettatrici nei film festival italiani

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Negli ultimi quindici anni un rilevante numero di studiosi ha rivolto la propria attenzione verso i film festival, laddove in precedenza il tema era affrontato sporadicamente o si concentrava su singoli casi. Dalla fine del primo decennio del Duemila, infatti, i festival cinematografici sono stati analizzati con riferimento alla loro storia ed evoluzione, alla loro funzione entro il sistema culturale e industriale (in senso diacronico e sincronico), alle caratteristiche comuni e specifiche, alle ricadute sul territorio in cui hanno sede in termini occupazionali, economici e d’immagine, alla posizione strategica giocata rispetto alle dinamiche socio-politiche transnazionali, alla carriera di un regista e al ciclo di vita di un’opera, etc. In un corpus ampio di lavori, caratterizzato da approcci eterogenei, di cui è possibile farsi un’idea attraverso gli indici bibliografici stilati dal Film Festival Research Network fondato nel 2008,[1] poco spazio è dedicato alla specificità del contributo femminile all’interno del circuito festivaliero e al significato da conferire a questa presenza. Di solito la ricerca si concentra sul piano delle rappresentazioni, ossia sulle modalità con le quali le donne vengono raffigurate nei film che partecipano ai festival, mentre la cronaca mondana dedica particolare attenzione alla donna in quanto corpo: ‘madrina’ dell’evento, icona della moda, presenza affascinante e in grado di catalizzare i flash molto più degli uomini. Quasi mai, invece, si indaga sull’entità e sulla qualità della presenza femminile sul piano organizzativo e professionale. Tale mancanza si spiega anche alla luce dell’assenza di archivi specifici sui e dei festival e alla scarsità di dati su pubblico, profili professionali, impatto sul territorio di questi eventi, etc., come se la natura effimera e transitoria dei festival producesse, automaticamente, una scarsa attenzione conservativa e analitica.

Interrogarsi sulla presenza delle donne all’interno del sistema festivaliero è importante alla luce del peso e del ruolo che tali manifestazioni ricoprono entro l’industria cinematografica contemporanea. I festival sono, per usare le parole di Marijke de Valck, «cultural gateways that could legitimize films and filmmakers» (de Valck 2007, p. 208), ossia luoghi di accreditamento culturale, sia per i film che per chi li produce (Czach 2004; de Valck 2016; English 2005; Mezias et al. 2011). D’altronde sono palcoscenici che possono conferire prestigio e credibilità anche a chi li racconta (per esempio i critici) e li organizza. In particolare, la fiducia riposta nel direttore artistico poggia sulle indiscusse capacità che implicitamente il sistema gli/le riconosce facendolo/a accedere a tale ruolo: la qualità del programma, ma anche dei membri della giuria o delle giurie, ai quali si chiede di decretare i vincitori dei diversi premi, dipendono da questa figura, alla quale si associa la credibilità del festival stesso. Oltre ad attivare processi di (auto)legittimazione, tali manifestazioni fungono, collettivamente, da circuito di distribuzione alternativa che segnala i film, gli autori, le tendenze alle quali il pubblico e il mercato mainstream dovrebbero rivolgere lo sguardo (Elsaesser 2005). Sebbene, infatti, gli eventi si rivolgano prioritariamente ad appassionati e addetti del settore, l’ampia copertura mediatica che a loro si riserva, soprattutto se eventi prestigiosi, permette di raggiungere un pubblico più ampio e generalista, le cui ‘diete culturali’ possono essere condizionate dal festival e dai suoi esiti. Basta questo per intuire quanto tali eventi possano essere decisivi per chi vi partecipa o per chi li organizza e quanto, dunque, siano in grado di spostare equilibri e logiche di mercato, nonché culturali in senso più ampio.

La ricerca – adottando un approccio quantitativo e qualitativo – può indagare il contributo che le donne hanno dato e danno al circuito festivaliero lavorando su quattro livelli, ossia:

  • la presenza di spazi di espressione specifici per le donne: festival dedicati, sezioni entro festival generalisti, incontri e dibattiti di approfondimento;

  • l’esistenza e la quantificazione di una presenza professionale al femminile in ruoli apicali, segnatamente nel ruolo di direttrici artistiche, in Italia e nei più importanti festival del mondo;

  • l’impatto – in termini economici e culturali – delle manifestazioni festivaliere sulla carriera delle registe e sul ciclo di vita dei film da loro diretti;

  • l’entità e la fisionomia del pubblico femminile dei festival e le forme di relazione e di (auto)narrazione che – soprattutto nell’epoca dei social media – esse intessono con e dell’evento.

 

In questa sede provo a mettere in serie un insieme di spunti e di dati che, lungi dall’essere esaustivi, vogliono tracciare possibili metodi e linee di approfondimento per la ricerca futura.

Comincio dal primo punto, ossia gli studi sui Women Film Festival e/o su sezioni ed eventi dedicati al cinema al femminile entro festival più generalisti: pur presenti (Carocci 2016; Heath 2018; Maule 2016), sono soprattutto studi di caso e manca spesso una visione d’insieme. Il lavoro più aggiornato e completo è attualmente On Women’s Film Festivals: Histories, Circuits, Feminisms, Futures (2020), tesi di dottorato di Katharina Kamleitner (Università di Glasgow). Sebbene lo studio ripercorra la storia e gli sviluppi dei WFF dagli anni Settanta, quando nascono, ai nostri giorni, lascia consapevolmente aperte piste non ancora approfondite: come si è detto, l’impatto che i WFF hanno sulla carriera delle registe, sulla ricezione dei loro film e sulla loro circolazione, nonché il ruolo giocato da distributori e sales agent nell’attivare tali dinamiche. Quello che tuttavia emerge con chiarezza è il ruolo marginale che il circuito dei WFF occupa nel sistema festivaliero complessivo: i festival a tema femminile sono percepiti alla stregua di eventi tematici, spesso confusi o intrecciati con le manifestazioni LGBTQ+. Non solo, sin dal loro apparire non manca chi li interpreta come luoghi-ghetto (Loist 2012; Rich 1998; White 2006), che anziché permettere alle donne di emergere, le priva di relazioni con il sistema che conta. In sintesi, le stesse registe preferirebbero partecipare ai grandi appuntamenti per non essere associate al femminismo (anche se non tutti i WFF nascono da questa riflessione) o alla etichetta ‘woman filmmaker’, ambendo semmai a essere selezionate e valutate per i meriti artistici della propria opera (Van Hemert 2011). Se queste sono le difficoltà della ricerca riscontrate per i WFF è intuibile quanto ancora più disperse e parziali siano le ricognizioni sulle sezioni o gli appuntamenti dedicati al cinema delle donne entro festival generalisti. Tali occasioni spesso rispondono a sollecitazioni provenienti dai policy maker o dall’opinione pubblica, e talvolta si limitano a portare la riflessione sulle forme di rappresentazione veicolate e non sull’accesso delle donne al mercato e alle professioni dell’audiovisivo.

Appunto la questione circa la presenza di donne in ruoli apicali entro la dirigenza dei festival, secondo livello di indagine della mia proposta, non ha prodotto al momento studi approfonditi. Da una piccola ricerca sulle edizioni 2021 di 27 tra i principali festival del mondo emerge che solo il 18% ha un direttore artistico donna, il 63% uomini e il 15% ha una direzione mista [fig. 1].

Non molto diverso il risultato che prende in considerazione 96 festival italiani che hanno ricevuto il beneficio fiscale dal MiC per l’organizzazione dell’edizione 2021 [fig. 2]. Il 21% vede una donna in qualità di direttore artistico, ma è al 64% la presenza maschile e solo l’11% prevede una direzione mista.

Diciamo subito che anche questi dati non sono che la punta dell’iceberg. Con riferimento ai direttori artistici – sulla cui crucialità si è detto – dovremmo chiederci quale formazione abbiano, a che età arrivino a ricoprire questo ruolo, per quanti anni, con che inquadramento contrattuale, etc. E in più, non dimentichiamo le altre figure professionali decisive: quante e chi sono le direttrici organizzative, le selezionatrici delle opere in programma, le critiche, le addette stampa, le responsabili dell’ufficio ospitalità, le addette alla movimentazione copie, etc.?

Se poi ci spostiamo sul versante dell’impatto che i festival possono avere sulla carriera delle registe e sul ciclo di vita dei loro film – terzo livello di indagine – si spalanca un’altra porta per la ricerca. Riporto qualche dato e spunto di riflessione, che considerano volutamente solo le sezioni competitive più decisive per il mercato dei tre principali festival europei (sappiamo infatti che la partecipazione femminile è più alta nelle sezioni parallele, ma raramente la partita si gioca in quelle sedi). Sul totale delle sue edizioni, solo il 10,52% dei vincitori della Berlinale è donna, e si tratta della percentuale più alta perché scende al 7,69% nel caso della Mostra di Venezia e al 2,7% per Cannes [fig. 3].

Non più incoraggianti i dati considerando la percentuale di opere a regia femminile nella sezione principale dei 3 festival negli ultimi 10 anni: essa non supera mai il 46,15% (nel 2018 alla Mostra di Venezia) e le vincitrici per miglior film sono numericamente molto inferiori rispetto ai colleghi uomini, sebbene in crescita negli ultimi anni (con l’anno d’oro del 2021) [fig. 4]. I dati sarebbero ancora più scoraggianti se si andasse più indietro, partendo dalla prima edizione, o se si ragionasse a livello globale: basti dire che la Palma d’oro del 2021, il discusso (soprattutto per il tema affrontato e per lo stile adottato) Titane di Julia Ducournau è il primo riconoscimento a un film a regia femminile dal 1993, quando a vincere il festival francese fu Lezioni di piano di Jane Campion [fig. 5].

Quanto poi tali vittorie siano decisive ce lo dice, recentemente, il caso di Nomadland di Chloé Zhao: vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2020, raccoglie poi altri 233 premi in tutto il mondo, non ultimo il premio Oscar al miglior film e alla miglior regia nel 2021 [fig. 6].

Quali le ricadute sul mercato? Poche, se con questo termine intendiamo Paesi di distribuzione, numero di schermi e incassi. Per stare alla contemporaneità stretta, il successo commerciale del momento, Black Widow, uscito in sala il 9 luglio 2021, ha incassato in appena due mesi quasi 373 milioni di euro in tutto il mondo, mentre Nomadland, uscito il 19 febbraio 2021, 27 milioni e 300mila dollari. Anche se siamo in un momento storico particolare, se entrambi i film si sono dovuti confrontare con la pandemia da Covid-19 e hanno contemporaneamente una distribuzione sulla stessa piattaforma, Disney+, è evidente che parliamo di scale economiche molto diverse. Eppure, che il regista di Black Widow sia una donna forse al pubblico generico non interessa o è un’informazione che lo spettatore non possiede, mentre la vittoria di un premio prestigioso da parte di un film a regia femminile fa di per sé notizia. Di nuovo, dobbiamo allora chiederci quali film entrino nei discorsi sociali, attivino processi di consapevolezza, aprano il dibattito sulla condizione femminile entro l’industria cinematografica.

Infine, per quanto concerne l’ultimo livello, l’entità e la fisionomia del pubblico femminile dei festival e le forme di relazione e di narrazione che esse intessono con e dell’evento, si tratta di un ambito privo di studi specifici, che necessita di strumenti della ricerca sociale e che potrebbe disegnare il volto della cinefilia al femminile. Quello che per ora emerge, in sintesi, sembra essere un quadro complessivamente poco lusinghiero per le donne, ma assai promettente per la ricerca.

 

Bibliografia

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