4.6. Il trauma del domestico: video, performance e oggetto nell’opera di Silvia Giambrone

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Una delle frasi conclusive del primo manifesto di Rivolta femminile redatto nel luglio 1970 – «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte» (Lonzi 1974, p. 18) – è all’origine dell’unico autoritratto realizzato da Silvia Giambrone, esposto a Villa Medici nel 2010 con il titolo Autoritratto (Io nel settembre 2009 all’altezza di un universo senza risposte) [fig. 1]. Su una serie di nove fogli di acetato trasferibili contenenti le lettere dell’alfabeto, scelti tra quelli in uso una volta nella grafica e nel disegno industriale, Giambrone cancella le singole lettere che compongono il titolo dell’opera in modo che la scrittura proceda attraverso un processo di sottrazione. «Il lavoro di Carla Lonzi» – spiega l’artista in conversazione con Nina Power – «è stato tanto importante da ispirare l’unico autoritratto che io abbia mai fatto […]. Allora mi ero resa conto che per realizzare un autoritratto, dovevo correre il rischio di sottrarmi ai codici linguistici» (Giambrone-Power 2016, p. 45).

L’autoritratto di Giambrone, come ha chiarito Giovanna Zapperi, rimanda all’urgenza di rendere visibile ciò che è assente o è stato rimosso (Zapperi 2017, p. 247) e si ricollega a un’altra affermazione lonziana tratta da Sputiamo su Hegel – «Noi siamo il passato oscuro del mondo» (Lonzi 1974, p. 61) – usata dall’artista come titolo di un secondo lavoro di matrice linguistico-concettuale realizzato anch’esso nel 2010. La centralità del pensiero di Lonzi nel percorso di Giambrone è un aspetto su cui la critica si è soffermata in più occasioni e sul quale, come appena visto, anche l’artista si è espressa (Giambrone-Iamurri 2013; Giambrone-Power 2016). Resta invece da chiarire come l’interesse per gli scritti di Lonzi e l’aperta adesione alle istanze neofemministe stiano in relazione con un altro aspetto altrettanto importante ma meno esplorato del suo lavoro, che riguarda il rapporto con l’Arte povera: la ripresa dei testi femministi lonziani, nell’opera di Giambrone va infatti di pari passo con la rivisitazione di iconografie desunte dalle opere di artisti come Alighiero Boetti, Jannis Kounellis e Giuseppe Penone, e che talora viene espressa sotto forma di citazione. Per spiegare le ragioni del fenomeno è utile riprendere il concetto di «double allegiance» coniato in ambito letterario da Susan Rubin Suleiman nel volume Subversive Intent. Gender, Politics, and the Avant-Garde (1990), poi esteso dalla studiosa al campo delle arti visive per interpretare lo speciale rapporto che lega le opere di Cindy Sherman e Francesca Woodman a quelle dei loro predecessori surrealisti Hans Bellmer e René Magritte (Suleiman 1998, pp. 128-154). Suleiman propone un modello di lettura dialogico, riassumibile nell’espressione «yes, but», secondo il quale nelle opere di Woodman e Sherman il confronto con i precursori non implicherebbe né l’accettazione passiva della tradizione, né la distruzione del canone, ma un dialogo serrato che consentirebbe loro di saldare la sperimentazione formale e culturale dell’arte d’avanguardia con la critica alle ideologie dominanti formulata dalla teoria femminista.

La chiave di lettura della ‘duplice fedeltà’ può servire a gettare luce anche sulla pratica di Giambrone: scegliendo come terreno elettivo della sua ricerca il conflitto tra i sessi e la violenza declinata nelle sue forme pubbliche e private, l’artista si rifà alle soluzioni linguistico-formali dell’Arte povera, ma al contempo le rilegge in modo critico secondo un’ottica di genere influenzata dal pensiero della differenza sviluppato dal neofemminismo. Il riuso di pratiche e iconografie poveriste ‘detournate’ per indagare conflitti e tensioni interpersonali è infatti una costante nel lavoro di Giambrone. Anche nel già ricordato Autoritratto (Io nel settembre 2009 all’altezza di un universo senza risposte) l’interesse per gli scritti di Lonzi convive con la rivisitazione del lavoro di Boetti, preso a modello sia nella scelta del titolo (che ricorda l’autoritratto boettiano Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969), sia nell’effrazione dei codici linguistici vicina alla decostruzione operata da Boetti nella serie di lavori a biro realizzata dal 1972, inaugurata dall’opera Mettere al mondo il mondo. Qui la lettura è vincolata all’individuazione dei segni grafici disseminati nello spazio del quadro che, come nel caso del successivo autoritratto di Giambrone, acquistano senso unicamente attraverso il processo di ricomposizione mentale messo in atto dal e dalla riguardante. Ma è con la videoproiezione Translation (col., 1’4’’), datata 2009 [fig. 2], che la vicinanza di Giambrone alla sperimentazione di Boetti si fa più stretta e si esprime come citazione: l’opera rimanda infatti alle diverse azioni svolte da Boetti scrivendo simultaneamente con entrambe le mani in direzioni opposte e speculari, sino a raggiungere l’estensione massima consentita dall’apertura delle braccia, presentate nel 1970 nell’ambito delle rassegne Identification e Aktionsraum 1, poi nella video performance Ciò che sempre parla in silenzio è il corpo prodotta nel 1974 da Art/tapes/22. In Translation anche Giambrone si fa ritrarre con le spalle alla telecamera, ma con l’inquadratura più stretta, mentre traccia con entrambe le mani la frase tratta dalla shahada «non c’è altro dio all’infuori di Dio», contemporaneamente in arabo e inglese. L’artista riprende dunque la riflessione di Boetti sull’equivalenza tra ‘scrivere [con la sinistra] e disegnare’, sul tema del doppio, sulla qualità corporea della scrittura e su quella «punta di sofferenza fisica» (Boetti 2004, p. 206) che lo scrivere con la mano sinistra comporta per i destrorsi. Ma l’attenzione si sposta ora sul movimento asincrono delle mani e sullo scarto che avviene nel passaggio da una lingua all’altra. In Translation Giambrone riflette sul tradimento implicito in ogni processo di traduzione, ma soprattutto richiama lo scontro religioso e culturale tra Stati Uniti e mondo arabo, inaspritosi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, per riportarlo alla dimensione personale attraverso l’uso del corpo e della scrittura manuale.

Un tema, quello del conflitto politico, che l’artista sviluppa nella performance Nobody’s Room (2015) ‒ e nella sua più recente versione virtuale e collettiva, di chiara ispirazione lonziana, Nobody’s Room. Anzi parla (2020) ‒ dove le istruzioni per sopravvivere alla guerra contenute nel libro Indicazioni stradali sparse per terra (1995) del poeta e regista teatrale bosniaco Nedžad Maksumić vengono riadattate per accordarsi all’ambiente domestico. I conflitti interpersonali e lo spazio della casa sono al centro anche delle opere Collars (2012), Testiere (2015) e Borders n. 2 (2018) [figg. 3-4], in cui si assiste allo stesso procedimento di ‘ripresa e rilettura’ che aveva animato Translation, con la differenza che stavolta è il lavoro di Kounellis a costituire il termine di confronto. Le lamiere di zinco che compongono Collars o la serie delle Testiere ricordano infatti da vicino le tipiche lastre metalliche usate da Kounellis a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, come pure il lenzuolo di Borders n. 2 è simile alla tela di lino esposta da Kounellis nel dicembre del 1968 nella personale alla Galleria Sperone di Torino. Ma se l’attenzione di quest’ultimo s’indirizzava alla ridefinizione dei confini tra pittura e scultura, alle relazioni tra oggetto e ambiente, alla processualità della materia, Giambrone esplora invece i traumi del domestico. In Collars le superfici di zinco recano l’impronta di colletti ricamati che evocano la moda vittoriana, con i suoi precetti estetici e morali. L’opera è concepita in stretta relazione con la performance Teatro anatomico, realizzata nel 2012 al MACRO Testaccio di Roma [fig. 5], durante la quale l’artista si fa cucire sulla pelle nuda un colletto ricamato, oggetto ambivalente, simbolo, da un lato, di un sapere artigianale tradizionalmente affidato alle donne, dall’altro dell’assoggettamento ai codici «di una cultura di genere entro cui rimanere intrappolate» (Sala 2016, p. 15).

Allo stesso modo in Borders n. 2 il tessuto bianco appeso al muro non rimanda, come nella precedente opera di Kounellis, alla tela e agli strumenti canonici della pittura: il lenzuolo scelto da Giambrone, diviso a metà dal filo spinato, ha piuttosto funzione metonimica e riconduce al talamo nuziale rappresentato come terreno di scontro. Anche nella serie delle Testiere l’oggetto casalingo, dalle forme desuete come i colletti ricamati, ha il compito di restituire il sistema di rapporti familiari e delle dinamiche affettive; nelle opere di Giambrone gli oggetti e i mobili, per dirla con le parole di Jean Baudrillard, hanno infatti anzitutto «la funzione di personificare le relazioni umane, di popolare lo spazio che dividono» (Baudrillard 1972, p. 20). Lo spazio domestico e le tensioni che lo abitano diventano il fulcro anche della recente performance Baby Dull (2018) [fig. 6], dove Giambrone riprende l’azione già compiuta nel 2008 nella video performance Eredità (col., 10’’) [fig. 7], ma la ricontestualizza entro l’ambiente chiuso della camera da letto. Lo stato di cecità che l’artista si infligge attraverso l’uso di protesi che inibiscono la vista è un tema affine a quello già esplorato da Penone nell’azione Rovesciare i propri occhi (1970), dove l’artista indossava due coppie di lenti specchianti che impedivano il contatto visivo con l’esterno. Le protesi scelte da Giambrone hanno però un’origine diversa: si tratta di pesanti e folte ciglia di ferro, che l’artista racconta di avere realizzato perché colpita dall’aspetto pornografico delle ciglia finte indossate dalle attrici di Gola profonda. L’opera indaga le dinamiche di seduzione erotica e le forme di controllo a cui il corpo delle donne è storicamente costretto, spesso introiettate dalle donne stesse. In Eredità la cecità autoinflitta è infatti funzionale alla messa in scena di quelle ‘tortures volontaires’ ‒ per riprendere il titolo di un’opera di Annette Messager ‒ a cui le donne si sottopongono per conformarsi a canoni estetici patriarcali. Giambrone riflette quindi sulla natura del desiderio: «Il desiderio», si chiede l’artista, «è una risorsa prodotta liberamente dalla nostra creatività, o piuttosto il prodotto di circostanze e contesti sociali e storici?» (Giambrone 2008). Guardando al video la risposta sembra arrivare ancora una volta dagli scritti di Rivolta femminile, nel punto in cui Lonzi afferma che «la rivoluzione sessuale maschile è stato l’ultimo atto con cui il patriarcato ha cercato di rendere rivoluzionaria un’oppressione» (Lonzi 1974, p. 147).

 

Bibliografia

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