1. Storie di traduzioni, ricordate e dimenticate, e di lettori, ricordati e dimenticati
Shelley, certo, moglie e marito, la lunga, sotterranea, traccia di Milton, e anche un po’ Byron: pure, Prometeo nella cultura inglese non vive solo nei grandi nomi, ma anche in un tessuto connettivo di traduttori e commentatori. Figure minori, ‘periferiche’, poco influenti nell’immagine della cultura generale, come appare da un qualche disdegno di Raymond Trousson, l’autore della più massiccia e documentata storia del tema prometeico nella letteratura europea: nel Settecento, sostiene l’autore, le traduzioni non apportarono un sostanziale aumento dell’interesse per Eschilo e in particolare per il Prometeo:[1]
Trousson non considera evidentemente significative le traduzioni, neppure quella latina di Stanley, alla quale si riferisce solo menzionando Edgar Quinet, che nel suo Prométhée riconduce appunto a Stanley la ‘cristianizzazione’ di Prometeo.[2]
In realtà, nella costruzione della ricezione di un testo le traduzioni hanno sempre una grande importanza: ancora un secolo fa, Pasquali osservava che era la conoscenza del greco a costituire la vera eccellenza culturale negli strati culturalmente più alti della popolazione inglese:[3] la traduzione era dunque necessaria per raggiungere un pubblico meno elitario. Ma la tragedia greca, e particolarmente quella eschilea, attirava poco per ragioni di sensibilità estetica e anche ‘morale’. Come ha notato Robert Garland, fondandosi su giudizi di Coleridge e di David Hume, la tragedia greca, diversamente, ad esempio, dall’Omero di Pope, colpiva negativamente l’uomo colto del Settecento: «In part the reason for the failure of Greek tragedy to attract the attention of any translator of distinction before the middle of the nineteenth century was the fact that it offended the aesthetic and moral sensibilities of the age».[4]