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A parlare è Giuseppe Bertolucci, il regista di 'Na specie de cadavere lunghissimo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole di Parma e dalla Fondazione culturale Edison (oggi Solares Fondazione delle Arti), andato in scena per la prima volta, a Napoli, il 4 febbraio 2004. Un progetto nato dalla scoperta, fatta da Gifuni, di Il Pecora, la prima parte dell'attuale Poemetto in due deliri di Giorgio Somalvico, scritto su commissione nel 1995, per i vent’anni della morte di Pier Paolo Pasolini; testo in cui si prova a costringere in metrica il delirio dell’omicida del poeta, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT. Il poemetto, pensato dall’autore come un melologo (genere musicale in bilico tra recitazione e canto: partitura musicale per voce ‘intonata’), alterna, stando a quanto evidenziato dallo stesso attore:

È attorno a questo testo che prende forma l’idea dello spettacolo. Come racconta Gifuni: «La lettura di tutti gli scritti civili pasoliniani, che da tempo mi accompagnava, non poteva forse sposarsi, in un matrimonio incestuoso, con i versi di Giorgio Somalvico?». Ecco allora che la riflessione di Pasolini, quella che apre Lettere luterane, diventa il fulcro tanto dell’ideazione quanto, poi, della messinscena:

La prima parte dello spettacolo è una summa del pensiero politico di Pasolini, costruita su estratti ripresi, oltre che da Lettere luterane, da Scritti corsari, e da Siamo tutti in pericolo (l’ultima intervsita rilascata a Furio Colombo). L’intento di Bertolucci e Gifuni, in strettissimo rapporto di interazione e coautorialità, è quello di trasmettere il teorema pasoliniano – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentrale dei media da parte del Nuovo Fascismo – sotto forma di un unico ragionamento socratico. Lavorando su frammenti di testi saggistici un’esposizione frontale avrebbe causato un sovraccarico declamatorio, dando così l’impressione di trovarsi di fronte a una predica o a un comizio. Da qui la scelta di creare una situazione colloquiale: immergere l’attore nel pubblico e fare dello spettatore un elemento teatrale con cui, chi è in scena, deve dialogare. Per stabilire questa idea di confronto i coaturi decidono di cominciare lo spettaccolo riprendendo la Lettera aperta a Italo Calvino, e quel «tu» su cui si apre il testo è il gesto d’interpellazione che permette a Gifuni di demolire del tutto la cosiddetta quarta parete:

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Cosa significa tradurre? Fino a che punto un testo riesce a opporre resistenza alla traduzione, non solo a quella da una lingua a un’altra, ma anche a quella tra media differenti? Esistono testi intraducibili? E non andrebbe considerata tra le pratiche di traduzione – cioè di trasferimento e ricodificazione – anche la critica letteraria? Sono queste le domande che pone il volume Gadda Goes to War: An Original Drama by Fabrizio Gifuni, curato da Federica Pedriali (Edinburgh, Edinburgh University Press, 2013), che dirige l’«Edinburgh Journal of Gadda Studies» e da anni si occupa della promozione e della diffusione degli studi su Gadda anche al di là dei confini dell’accademia. Corredato di un dvd, il libro si presenta come una versione in inglese – con testo originale a fronte – di Lingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro, monologo scenico che Fabrizio Gifuni ha allestito nel 2010 con la regia di Giuseppe Bertolucci, e che costituisce, insieme allo spettacolo dedicato a Pasolini – Na specie de cadavere lunghissimo (2006) – un dittico, riproposto come tale da Minimum Fax col titolo Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione (2012).

Si tratta dunque di un oggetto ibrido, non solo perché affianca al testo il dvd della performance di Gifuni, ma perché ha l’ambizione di ragionare, sul piano teorico e critico, sul gesto di ‘traslazione’ – sia concesso qui l’uso di un calco efficace dall’inglese – che può garantire l’esistenza degli oggetti della cultura ben oltre i contesti, i codici e i supporti che li determinano all’origine. Questione fondamentale, soprattutto quando si tratti della circolazione di uno degli autori centrali del canone italiano novecentesco – senz’altro il più celebrato, il più intraducibile.

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