4.6. Il pensiero si fa corpo. ’Na specie de cadavere lunghissimo

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La cosa che ho molto amato e mi ha colpito di più [....] è il livello davvero notevole di spoliazione da qualsiasi identità psicologica o carattere che Fabrizio Gifuni ha raggiunto, identificandosi [...] completamente nella “forma del discorso” pasoliniano. Fabrizio è riuscito a materializzare un pensiero e a tradurlo in una presenza che si aggira tra il pubblico, senza diventare un fantasma e senza mai diventare un personaggio: non è mai Pasolini, ma sempre solo il suo pensiero o il suo discorso.

A parlare è Giuseppe Bertolucci, il regista di 'Na specie de cadavere lunghissimo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole di Parma e dalla Fondazione culturale Edison (oggi Solares Fondazione delle Arti), andato in scena per la prima volta, a Napoli, il 4 febbraio 2004. Un progetto nato dalla scoperta, fatta da Gifuni, di Il Pecora, la prima parte dell'attuale Poemetto in due deliri di Giorgio Somalvico, scritto su commissione nel 1995, per i vent’anni della morte di Pier Paolo Pasolini; testo in cui si prova a costringere in metrica il delirio dell’omicida del poeta, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT. Il poemetto, pensato dall’autore come un melologo (genere musicale in bilico tra recitazione e canto: partitura musicale per voce ‘intonata’), alterna, stando a quanto evidenziato dallo stesso attore:

una lingua ‘alta’ (quella del narratore) a una lingua ‘bassa’ (quella del borgataro assassino). [...] Tutti i vocaboli [...] mutuati con inesorabile precisione dai glossarietti allegati dallo stesso Pasolini ai suoi due romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta). E le licenze poetiche, là dove intervenivano, producevano deragliamenti linguistici così intriganti da risultare, per ciò stesso, inemendabili. [...]. Quegli endecasillabi [...] erano da soli in grado di produrre la musica più esilarante che avessi mai ascoltato. Ma c’era, al tempo stesso, un senso tragico e una vena di straordinario lirismo capaci di muovere emozioni profonde.

È attorno a questo testo che prende forma l’idea dello spettacolo. Come racconta Gifuni: «La lettura di tutti gli scritti civili pasoliniani, che da tempo mi accompagnava, non poteva forse sposarsi, in un matrimonio incestuoso, con i versi di Giorgio Somalvico?». Ecco allora che la riflessione di Pasolini, quella che apre Lettere luterane, diventa il fulcro tanto dell’ideazione quanto, poi, della messinscena:

Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. [...] Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo [...]. Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri.

La prima parte dello spettacolo è una summa del pensiero politico di Pasolini, costruita su estratti ripresi, oltre che da Lettere luterane, da Scritti corsari, e da Siamo tutti in pericolo (l’ultima intervsita rilascata a Furio Colombo). L’intento di Bertolucci e Gifuni, in strettissimo rapporto di interazione e coautorialità, è quello di trasmettere il teorema pasoliniano – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentrale dei media da parte del Nuovo Fascismo – sotto forma di un unico ragionamento socratico. Lavorando su frammenti di testi saggistici un’esposizione frontale avrebbe causato un sovraccarico declamatorio, dando così l’impressione di trovarsi di fronte a una predica o a un comizio. Da qui la scelta di creare una situazione colloquiale: immergere l’attore nel pubblico e fare dello spettatore un elemento teatrale con cui, chi è in scena, deve dialogare. Per stabilire questa idea di confronto i coaturi decidono di cominciare lo spettaccolo riprendendo la Lettera aperta a Italo Calvino, e quel «tu» su cui si apre il testo è il gesto d’interpellazione che permette a Gifuni di demolire del tutto la cosiddetta quarta parete:

tu dici che rimpiango «l’Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio. Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi. Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere «l’Italietta»? Ma allora non hai letto un solo verso delle «Ceneri di Gramsci» o di «Calderón», non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me!

Questa idea di Bertolucci e Gifuni è peraltro coerente al modus vivendi di Pasolini che ha sempre rifiutato di parlare ex cathedra, come dichiarò anche durante la trasmissione condotta da Enzo Biagi, Terza B facciamo l’appello, dove, interrogato sulla presunta democraticità del mezzo televisivo, rispose al giornalista dicendo: «No, non posso dire tutto quello che voglio [...] in genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più sincere. L’insieme della “cosa vista” sul video acquista sempre un’aria autoritaria».

Prendono pian piano forma, tra le parole di questo flusso di coscienza, i connotati dell’assassino: è come se Pasolini, tra le facce dei giovani infelici, «quasi tutti dei mostri» dall’aspetto fisico terrorizzante, primi figli di quella mutazione antropolgica che cambierà per sempre il volto degli italiani, avesse intravisto anche quella di chi lo ucciderà la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975. È come se dalla sua analisi generasse poi il suo destino.

Pasolini non hai mai osservato la realtà con siderale distacco; lui, sempre rimasto «dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo», proprio per quell’«accorata sete di chiarezza» non può denunciare il disastro in atto e autoassolversi. È cosciente delle proprie responsabilità e non esita neanche un momento ad ammetterlo: «In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili [...] del fascismo, [...] sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove». È a questo punto che Gifuni si spoglia dei panni dell’intellettuale e si avvia a passi lenti, solo, nudo, al giudizio: «Egli è destinato a restare morto nella polvere come il negletto Laio: non esiste altra possibilità. Dunque il capire è il meno. E l’agire non può consistere in altro che nell’aggredire il figlio, per poter restare appunto alla fine morto sulla polvere».

Teatro dello scontro edipico è il corpo dell’attore, scosso da un cortocircuito generato da tensioni opposte e per questo spleculari; del resto, come dice il poeta in Bestia da stile: «Noi siamo perciò una Persona sola – (la Dissociazione è la struttura delle strutture: lo Sdoppiamento del personaggio in due personaggi – è la più grande delle invenzioni letterarie)». Qui inizia una nuova parte del discorso drammaturgico: cambiano i testi di riferimento (ci sono alcuni degli Appunti per un film su San Paolo, versi di La nuova forma de «La meglio gioventù», di Poesia in forma di rosa, e un breve estratto da Ragazzi di vita) e con questi anche le modalità rappresentative: come dichiarerà lo stesso Bertolucci, lo spettacolo è «un progressivo percorso da una non teatralità iniziale a delle forme di teatralità più definite ed anche esasperate».

Così appunto sarà la terza e ultima parte di ’Na specie de cadavere lunghissimo, quella nella quale gli endecasillabi sciolti di Somalvico danno voce al delirio violento di Pino Pelosi, reinventato nel personaggio di Piero Pastoso («Detto Rana – e nun Pecora né Biscia / comm’ a tutti voantri ’n malafede / – ve pozzino cecà! – ve piasce crede...»), figlio sciagurato inconsapevole del proprio delitto («Che me fregava se chi ci lasciavo era era Dante der giorno [...] Ah! Che ve pozzino!!! Che me fregava s’era Petrolini») che delira le sue verità allucinate in un ingarbigliato gnommero gaddiano.

 

Bibliografia:

G. Bertolucci, Cosedadire, Milano, Bompiani 2011.

G. Bertolucci, F. Gifuni, Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione, Roma, Edizioni minimum fax, 2012.

P.P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Milano, Garzanti, 1995-1999.

P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001.

P.P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 2005.

P.P. Pasolini, Scritti Corsari, Milano, Bompiani, 2001.

G. Somalvico, Il pecora. Poemetto in due deliri, Narni (Tr), Gran vía edizioni, 2007.