Nell’arco di Phanes del «più ricco et ornato edificio che forse sia stato fatto dagli antichi in qua»,[1] come ebbe a dire Palladio nel Proemio al primo dei Quattro libri dell’architettura, ossia della Libreria Marciana di Venezia, un bassorilievo raffigura Prometeo in atto di animare il primo uomo, attribuito alla Scuola di Sansovino.[2] Datato tra il quarto e il sesto decennio del Cinquecento, presenta un curioso attributo, raro e inedito: Prometeo è alato.
La singolare iconografia dell’evento, divergente dai paradigmi antichi,[3] è passata in sordina, oppure è stata affrontata lasciando aperto il quesito, per cui deriverebbe da una fonte circolante in ambito veneto non ancora riconosciuta.[4]
Secondo la lezione di Panofsky, le immagini si delineano come raffigurazioni convenzionali, depositarie di significati variabili in base al contesto, pertanto nell’interpretazione iconologica è necessario identificare con precisione, prima di tutto, i motivi, per poi ragionare sulle composizioni attivate.[5] Non resta allora che dinamizzare le ipotesi, proponendo qualche tenue tentativo di passage dall’immanente al contestuale, dal fattuale all’intrinseco, limitato ai casi distintivi.
Fu rilevante per il mutamento del clima artistico veneziano l’arrivo in laguna di Jacopo Tatti detto il Sansovino, dileguatosi dal sacco di Roma. Formatosi nell’entourage di Bramante, Raffaello e Peruzzi, giunge a Venezia già celebre e pienamente inserito nell’élite intellettuale. Nel giro di pochi anni mitiga superbamente le esperienze romane e fiorentine dell’Alto Rinascimento con le esigenze locali. Giovando della mediazione artistica e soprattutto politica di Pietro Aretino e del cardinale Grimani, riesce a sollecitare il cambiamento che avverrà dopo gli anni Trenta nel panorama artistico veneziano, complici anche la morte di molti artisti lagunari a causa della peste e l’emigrazione di altri. Già nel 1523 era stato convocato per una consultazione in merito al rinforzo delle cupole di San Marco e in soli due anni arriva a rivestire la massima carica, divenendo proto della Procuratoria di San Marco de supra. Il 6 marzo 1537 l’approvazione del Senato e il voto unanime dei procuratori segna l’avvio della costruzione della Libreria,[6] secondo il progetto di quel «banditore del gusto tosco-romano, ammiratore convinto di quel decorativismo postraffaellesco che era stato uno dei coefficienti più attivi della visione manieristica».[7] In questo momento la Repubblica, considerata lo stendardo della libertà dell’Italia, stava elaborando il proprio mito, e la grandiosa commissione pubblica, sorta come solenne repositorio della ricca biblioteca personale del cardinale Giovanni Bessarione, donata alla Serenissima nel 1468, e come sede illustre della Procuratoria, si iscriveva perfettamente nella nuova imago urbis desiderata dal doge Gritti e dall’establishment.
La Libreria sansoviniana si rifà alla scuola romana e al suo gigantismo, configurandosi come l’epifania dell’intreccio di ordini architettonici all’antica, in vista di una rifunzionalizzazione ideologica. Le alte temperature dell’innovazione rinvigoriscono le scelte architettoniche così come quelle decorative: in questo «Classicismo di Stato»[8] l’architettura e il composito programma iconografico offrono un nuovo volto alla piazza, che guarda a materie strutturali diversificate e al classicismo mitologico, dove le immagini pagane, destoricizzate, appaiono sempre più naturali. Non è questo il contesto adatto per soffermarsi sui particolari architettonici e sull’iter costruttivo contrassegnato dall’innovazione, tuttavia è forse opportuno tracciare un profilo di massima. Colpisce sempre la selezione morfologica operata da Sansovino, parallela alla riforma linguistica di Bembo. Entrambi propongono un paradigma formale incentrato sulla negazione dello sperimentalismo e sulla vis retorica, capace di corroborare miti pubblici. Sansovino ricava dall’antico dettagli e non intere strutture, morfemi più che il sistema linguistico complessivo, per cui la normatività semantica si combina con la libertà della regia sintattica. Il modus operandi di Sansovino si fonda su un’erudizione che non si preoccupa, nella sua nuova e rigorosa grammatica, di rispettare a tutti i costi le proprie fonti. Come nella pittura del Veronese, le tessere antiche si sovrappongono agli usi moderni, e non a caso Vasari disse che Sansovino «antivedeva nelle materie le cose future, contrapesandole con le passate».[9] Nello stesso torno d’anni sopraggiunge in laguna la cultura manieristica nell’ambito pittorico, e così l’architettura sansoviniana, che non teme affatto di passare al vaglio la nozione rinascimentale della prospettiva, si rivela anche nel suo portato tonale.
Il libero riuso delle tipologie codificate, che sfocia in una dotta ars combinatoria, mi pare evidente nel bassorilievo che raffigura Prometeo. Come ipotetica summa bisognerebbe forse rubare il titolo scelto nel 1963 da Anna Granville Hatcher, curatrice del postumo Classical and Christian Ideas of World Harmony[10] di Spitzer, che verrà tradotto in italiano come L’armonia del mondo. Storia semantica di un’idea (il Mulino, 1967). Troviamo infatti, in una discordia concors armonica e problematica, una storia dell’universo e dell’umanità in prospettiva pagana, che con audacia trae spunti dalle Metamorfosi ovidiane, dalla tradizione cristiana e da fonti di natura enciclopedica, letterarie e iconografiche, in linea con le consuete aspirazioni del Rinascimento maturo.
La sequenza iconografica a tema unitario, tipica della cultura figurativa romana, destinata alla fruizione pubblica, inizia dalla testata prossima al campanile, rivolta verso la piazza. Nella chiave dell’arco appare la testa del dio sapienziale e sincretico Fanete, ribadita nel sottarco a figura intera, iconograficamente contigua al rilievo eseguito da Tiziano Minio nell’Odeo Cornaro di Padova, anch’esso ispirato da un fortunatissimo rilievo della seconda metà del II secolo attualmente alla Galleria Estense di Modena.[11] Nell’intradosso, accanto al giovane alato Fanete, personificazione del Sole,[12] emergono Prometeo, che vivifica con il fuoco celeste il simulacro del primo uomo, e tre figure che adorano un braciere ardente, con la fiamma sottratta agli dei. Nella disposizione inizialmente cronologica del ciclo mitologico, il primo nucleo rimanda chiaramente ai miti di creazione, con Prometeo che dischiude la teoria allegorica e morale. La figura mitologica del sottarco era richiamata dall’ultima statua, scomparsa in seguito alla caduta del campanile, posta sulla corrispondente balaustra del tetto, che raffigurava, secondo Stringa, «Prometheo famosissimo astrologo et il primo che formasse l’huomo in Pittura»,[13] in linea con la concezione evemerista, anche boccaccesca, per la quale il secondo Prometeo altro non sarebbe stato che un valente astrologo assiro, figlio del re Giapeto. Non stupisce allora che in alcune edizioni degli Emblemata di Alciato compaia nella sezione dedicata all’astrologia. Come si sa, già nella poesia latina Prometeo appare come quel figulus ripreso anche dai versi in Alciato, ovvero come colui che aveva plasmato il primo uomo con il fango, donandogli poi la vita.[14] E ancora prima Eschilo considerò Prometeo come il padre civilizzatore, valutando il fuoco celeste come l’araldo della ragione. Proprio in area veneta, negli anni centrali del Cinquecento, il motivo prometeico della speculazione assume, come sottolinea a più riprese Barbieri, valenze politiche tutt’altro che accessorie, profilando il titano come l’«alfiere di una nuova organizzazione civile e sociale».[15]
L’elaborazione del ricco programma iconografico della Libreria prevedeva senza alcun dubbio un auctor intellectualis o, più ragionevolmente, un’équipe. La complessità globale e la presenza di suggestioni eterodosse inducono a pensare a un colto letterato umanista, com’era del resto prassi usuale. Sono stati proposti l’Accademia padovana degli Infiammati, Bembo oppure, già da Francesco Sansovino, Grimani. In assenza di testimonianze documentarie, l’ipotesi è stata estesa a una collaborazione più ampia, nella quale doveva rientrare anche Sansovino.
Ivanoff ha prospettato una discendenza delle storie degli dei che decorano i sottarchi dalle opere letterarie a carattere mitologico circolanti a Venezia tra la fine degli anni Quaranta e i primissimi anni Cinquanta,[16] coeve all’ideazione e all’esemplazione del ciclo. Si tratta di opere monumentali, come il De deis gentium di Lilio Gregorio Giraldi (stampato a Basilea nel 1548) e Le imagini de i dei de gli antichi di Vincenzo Cartari (Venezia 1556). Sono invece appena posteriori al bassorilievo i dieci libri delle Mythologiae di Natale Conti, pubblicati a Venezia nel 1568, ma comunque preceduti da altre edizioni. Morresi invece, asserendo che le fonti documentarie accertano la simultaneità della realizzazione delle sculture e dell’erezione della fabbrica, ritiene che i testi siano «una conseguenza, non una causa, della narrazione di miti per immagini»,[17] da considerare quindi come ausili ermeneutici. Sperti ha persuasivamente constatato l’influsso della Periegesi di Pausania, e dunque l’allusione ai frontoni del Partenone nello schema figurativo, in particolare per quanto riguarda la presenza simultanea della nascita di Minerva e della contesa con Nettuno, e la centralità del modello ovidiano, riscontrabile soprattutto nella rielaborazione in chiave pagana del ciclo del Palazzo Ducale.[18] Romanelli, a partire da alcune considerazioni di Ivanoff,[19] ha giustamente convocato anche il gusto geroglifico assai diffuso e documentato in opere di grande fortuna: gli Hieroglyphica di Pierio Valeriano e di Horapollo e l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, e anche i tarocchi, apparentemente meno upper class ma, com’è noto, dotati di potenzialità iconografiche da non tralasciare affatto.[20]
Non sempre sono state proposte delle interconnessioni specifiche tra i testi e le immagini, nonostante l’ambizione che talora si avverte. È pur vero che in queste opere enciclopediche, ravvivate da un vivace eclettismo, che non disdegna le contaminazioni tra fonti molteplici, non compare alcun Prometeo alato. Così come non si può scorgere l’attributo iconografico nelle varie edizioni degli Emblemata di Alciato. Tuttavia nell’introduzione alle Imagini di Cartari si dice di Prometeo che, a partire dall’autorità di Lattanzio e quasi parafrasando Boccaccio,
sia stato il primo che di terra abbi fatto simulacro di uomo e che l’arte del fare le statoe cominciasse da lui, e si dice che ammirando Minerva una così bella opera, desiderosa che avesse ogni sorte di perfezione si offerì di concederle quello che per ciò le avesse saputo addimandare, e che avendolo a questo fine condotto nel cielo egli, avvedutosi che tutte le cose prendevano l’anima dalle fiamme e dal fuoco, accostata nascostamente una facellina che seco portava ad una delle ruote del Sole, quella accesa riportò in terra et accostatala al petto della formata figura la resa animata e viva, donde venne poi che all’uomo imitatore della opera divina fu dato quello che è di Dio, dicendo che Prometeo avesse fatto il primo uomo.[21]
Risulta allora palmare la caratterizzazione del titano quale creatore dell’umanità. Non è poi da trascurare che nel frontespizio della prima edizione delle Imagini è posto in evidenza il Tempo, che secondo l’iconografia canonica appare come un vegliardo alato.
Anche grazie a questo dizionario mitologico illustrato, autorevole modello per le arti figurative, è possibile intravedere a distanza un’ipotetica sovrapposizione iconologica tra il Prometeo creatore e il Padre Tempo, anche se il riferimento è ancora molto opaco e suggestivo più che qualificato.
Morresi ha legato l’intervento di Sansovino nell’ideazione del programma iconografico alle venti incisioni raffiguranti coppie olimpiche in nicchie, realizzate da Gian Jacopo Caraglio su disegni di Rosso Fiorentino e pubblicate a Roma nel 1526. Sansovino e Rosso avevano collaborato a Firenze nel 1515 e la conoscenza del ciclo da parte dell’architetto appare indubitabile, considerata la rivisitazione operata negli dei della Loggetta, che alludono al mito di Venezia.[22] Ma non risulta utile all’indagine: nelle coppie olimpiche e neppure nelle divinità spaiate non c’è da aspettarsi di trovare Prometeo.
Voler cercare nei supporti letterari riferimenti intermediali precisi (Einzelreferenz),[23] affondando il colpo nella presunta dimensione filologica, si presenta in questo caso come una gaffe da rifuggire. La densità semantica va piuttosto collocata nei campi magnetici del riferimento intermedio, dove dominano la sfumatura e l’aria di famiglia con un clima culturale diffuso, imbevuto di interessi classici, archeologici e antiquari. Si tratta senza alcun dubbio di una trasformazione intermediale che pone in dialogo i vari media su un tavolo posto nel mezzo della riflessione estetica e intersemiotica di quel particolare contesto storico-culturale, in una tematizzazione reciproca e sicuramente non a senso unico. Basti pensare agli apparati decorativi di altre istituzioni non solo veneziane, ma anche, ad esempio, romane o fiorentine, e al patrimonio figurativo a disposizione degli artisti provenienti dai centri tosco-romani. Inoltre la vera e propria moda, dilagante e impetuosa, delle rappresentazioni mitologiche, dei geroglifici, degli emblemi, delle imprese, delle grottesche, dove «cultura letteraria e figurativa si mescolano in una sorta di contaminazione perpetua», non può che portare a ritenere quanto «un’esegesi fatta unicamente su l’uno dei due registri risulterebbe alla fine non solo unilaterale, ma inefficiente».[24]
Il Prometeo alato della Marciana denuncia la profonda riemersione tipicamente rinascimentale delle divinità pagane nel tessuto lirico ad ampio spettro, non scevra da ripercussioni ideologiche. Potremmo dire, con il Burckhardt della Civiltà del Rinascimento in Italia, che lo spettatore avvertiva una certa familiarità con le figure mitologiche, tale da consentirgli di individuare facilmente allegorie e storie, desunte da un ciclo di tradizioni universalmente riconosciute. Ma l’apparato figurativo risultava ostico fin dall’inizio, se nel 1591 il camaldolese Girolamo de’ Bardi riceve un pagamento in vista della «dechiaratione delle historie, over fabule delle figure intagliate nelli volti».[25] È il caso di fare un passo indietro. Già Boccaccio, nelle Genealogie deorum gentilium, presentava con queste parole il primo Prometeo, «Dio vero e onnipotente»:
Quando Prometeo ebbe formato dal fango un uomo inanimato, Minerva ammirò la sua opera eccellente e gli promise quel che volesse, fra i beni celesti, per dare compimento alla sua opera. Prometeo rispose che non sapeva scegliere se non vedeva ciò che gli poteva essere utile presso gli dei; e fu da essa innalzato al cielo; dove, quando vide tutti i corpi celesti animati di fiamme, per introdurre il fuoco anche nella sua creatura, di nascosto applicò alle ruote di Febo una canna e, accesala, rubò il fuoco e lo portò sulla terra e lo aggiunse al petto dell’uomo da lui formato; e così lo rese animato e lo chiamò Pandora. Gli dei, adirati per quest’azione, lo fecero legare da Mercurio sul Caucaso e dettero in eterno il suo fegato e il suo cuore da straziare ad un avvoltoio o ad un’aquila.[26]
Ogni tempo, poi, interpretò il motivo secondo lo spirito dominante. Così, se in Valeriano il supplizio appare come una punizione divina, in Conti il furto del fuoco provoca dei mali simili a quelli originati dal minaccioso vaso di Pandora convogliato nella Riforma. Ritornando all’impostazione iconografica della scena, si può notare quanto ricordi alcune miniature dell’Ovide moralisé, come quella in un codice ora a Lione (Ms. 742 f. 4r),[27] della seconda metà del Trecento o in un manoscritto datato tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, conservato alla Bibliothèque Nationale de France, per non parlare di alcuni antecedenti più remoti, come i sarcofagi del mondo greco-romano e dell’arte paleocristiana.[28]
In queste cartelle figurate Prometeo viene inserito nel vasto contesto della Genesi e della creazione da parte del Dio biblico, incarnando la prefigurazione pagana delle verità cristiane, secondo un’interpretazione che risale ai primi apologeti, soprattutto a Tertulliano, e attraversa l’arte rinascimentale,[29] fino a giungere, rimodulata, alla visione ottocentesca, che condenserà la rilettura in chiave cristologica quale contraltare del Prometeo-Satana.[30] Il titano, affiancato alla nascita di Adamo, partecipa a un dittico dai chiari riflessi semantici. Ivanoff ha parlato, per i rilievi esterni della Marciana, di una «Genesis secundum Gentiles»,[31] che rappresenta «l’umanità prima della Grazia e prima della Legge»,[32] notando anche che il sottarco sembra citare una xilografia di un best seller, l’Ovidio Metamorphoseos vulgare stampato a Venezia nel 1497 per l’editore Giunta.
In alto un putto regge una fiaccola, indice dell’origine divina del fuoco, uguale a quella con cui, in primo piano, Prometeo conferisce la vita al primo uomo, in linea con la rielaborazione serviana. L’uomo è adagiato su un masso come nella Libreria e attende l’animazione da parte del titano, nei panni del Dio cristiano. La stessa iconografia, in accordo con il corredo esegetico, si può trovare nelle opere di Raffaele Regio. Non mancano altre riprese più tarde: mi limito a nominare lo sfondo della Fontana della Giovinezza nella Galleria di Francesco I a Fontainebleau – che Vasari definiva «nuova Roma», incunabolo di quel manierismo patrocinato in laguna in primis dalla famiglia Grimani –, dove Prometeo sta compiendo il furto del fuoco dal carro del Sole.
Il modulo iconografico tanto noto e disseminato viene riproposto nell’intradosso della Marciana, con l’inserzione delle ali, che strutturano un’inusitata realtà figurativa grazie all’interpolazione di quell’elemento che modifica l’entità originaria. E la nuova immagine, nobilitata e direi siglata proprio dalla novità iconografica, dovette impressionare gli spettatori e il milieu artistico, se Battista Zelotti la riproporrà negli affreschi di due ville palladiane. L’attributo delle ali appare inderogabilmente legato a Prometeo creatore. Negli anni Sessanta del Cinquecento[33] lo stesso Zelotti, nella villa Godi Malinverni a Lugo di Vicenza, dipinge su tela la liberazione di Prometeo operata da Ercole, con Mercurio e Minerva, collocata nel soffitto della Stanza dei Trionfi.
In questo caso non presenta le ali, e infatti è il sapiens incatenato dalla speculazione, non il plasticatore, in un contesto decorativo dichiaratamente ermetico, inaugurato dalla fattucchiera sopra la porta dell’ingresso alla villa, con un filone tematico che si intesse con quello umanistico dell’otium e gli interessi archeologici degli umanisti patavini, frequentati dal proprietario Girolamo Godi, amico di Bembo e Cornaro. Anche negli altri luoghi della Marciana dove non viene raffigurato come plasticatore, ma durante il supplizio e nella disputa con Epimeteo, non compare alato.
La cultura antiquaria dell’epoca illumina le scelte figurative. Citerò altre due occorrenze sintomatiche. Nelle Trasformationi di Ludovico Dolce, pubblicate a Venezia nel 1553, dopo le ottave corrispondenti, emerge un’incisione di Rusconi, dove manca il motivo del fuoco e Prometeo affiora come una reinterpretazione del Dio della Genesi, convalidando ancora una volta il circuito semantico binario, incardinato sulla prossimità iconografica.
Un altro caso, da un lato più labile nella caratterizzazione, dall’altro più stringente per le conseguenze che porta con sé, è costituito da un prontuario iconologico, le Symbolicarum quaestionum di Achille Bocchi, edito a Bologna nel 1555. Non si affaccia alcuna illustrazione di Prometeo, tuttavia nella seconda edizione l’Index personarum et rerum quae in hoc opere continentur, ad vocem «Prometheus unde homines animasse dicatur?», rimanda al symbolum CXXX. Il motto «Summum bonum praestat fides, fidem intimus amor in Deum, rite ipse cultus omnia» è seguito da un emblema, dove si manifesta, in armonia con il contenuto e con le indicazioni fornite dal Ripa, l’allegoria della Fede cristiana, con le iscrizioni trilingui che rimandano ai motti paolini delle epistole ai Corinzi.
Viene dunque celebrata la conoscenza che l’intelletto divino infonde a quello umano mediante l’illuminazione della fede, riabilitando il sapiens Prometheus e il suo fondamentale ruolo di mediatore nell’acquisizione del sapere. Così nel pieno clima neoplatonico Prometeo prefigura le verità cristiane e perfino mistiche. In altre illustrazioni del manuale sono numerose le allegorie alate e insieme portatrici di fiaccole. Ma la sfuggente sovrimpressione – dovuta alla datazione appena posteriore e alla non perfetta sovrapponibilità figurativa – denuncia una prassi rilevante: gli eruditi abbecedari iconologici offrivano un repertorio fluido e malleabile, fin dall’elaborazione originaria. Sono infatti l’esito della continua rimessa in circolo di motivi, nel vorticoso turbinio del costante riassemblaggio. Nel prodotto finale bisogna dunque includere tutto il background manoscritto e visivo postulato.
Per il bassorilievo del Prometeo alato il Bocchi può costituire una fonte vischiosa, che attrae alcuni elementi e ne respinge altri. Si tratta allora di un riferimento preciso e insieme sistemico, imperniato su determinati fatti formali ma anche sulla koiné visiva, dove l’ipotesto rivive naturalmente dei traslochi semantici, in funzione di un messaggio, la fastosa celebrazione del sapere umano nella società civile, in un sottarco dell’opera profana più sontuosa dell’Europa moderna, per citare il giudizio di Burckhardt.
Il Prometeo alato viene ripreso da Battista Zelotti, artista che si forma nella bottega di Badile assieme a Veronese e che per Vasari e Betussi fu apprendista presso Tiziano. Opera nella Serenissima, lavorando alla decorazione della sala dell’Udienza nel Palazzo Ducale e realizzando tre tondi allegorici per il soffitto della Marciana alla fine degli anni Cinquanta, per poi abbandonare la laguna per dedicarsi alla carriera di frescante nella terraferma. Dopo il 1561 realizza l’apparato decorativo interno di villa Foscari detta La Malcontenta, a Mira.
La gestione spaziale, scandita da elementi architettonici fittizi, anticipata nella villa Godi dalle invenzioni di Gualtiero Padovano nell’ala destra e di Zelotti in quella sinistra, palesa «la presenza del Palladio nell’ideare il programma decorativo».[34] L’architetto, nel secondo libro, riferisce che la sala a crociera «è stata ornata di eccellentissime pitture da Messer Battista Veneziano. Messer Battista Franco, grandissimo disegnatore a’ nostri tempi, avea ancor esso dato principio a dipingere una delle stanze grandi, ma, sopravenuto dalla morte, ha lasciata l’opera imperfetta».[35] Alcune ragioni stilistiche e compositive hanno portato la critica ad attribuire a Franco alcune stanze oppure l’ideazione di alcune figure,[36] mentre è stato proposto Vettore Grimani, fratello del patriarca di Aquileia, come probabile ideatore dell’apparato figurativo, in particolare per la «cultura umanistica permeata di pensiero neoplatonico»[37] e per la memoria della Galleria di Fontainebleau.[38] La liaison iconografica con il Prometeo della Marciana potrebbe configurarsi come un’ulteriore riprova, però occorre tener conto anche del fatto che lo stesso Franco collaborò alla decorazione della Libreria e dell’eterogeneità delle tradizioni, non solo iconografiche, messe in campo in programmi decorativi di così vasto respiro. Più di recente l’ipotesi è stata incrinata, sulla base dell’assenza di documenti e della morte di Vettore Grimani avvenuta nell’agosto del 1558.[39]
Nel soffitto della stanza a settentrione nell’ala sinistra della villa, la Stanza di Caco e di Prometeo, Zelotti dipinge, con uno stigma manieristico che ben conosce il magistero raffaellesco, il furto del fuoco, sottratto da un inconsueto banchetto degli dei.
Anche qui è ritratto con l’aggettivo iconografico, non più intentato, delle ali spiegate, e afferra con entrambe le mani due fiaccole accese, rivolgendosi all’umanità sofferente, raffigurata nella parte bassa dell’affresco. Crosato propone un’esegesi di matrice neoplatonica, secondo la quale il sapiens permette agli uomini di partecipare alle verità divine, in continuità con la favola antica del soffitto del Salone.[40] Insieme all’impeto civilizzatore il titano porta all’umanità primordiale la mesta coscienza della gettatezza, secondo la duplicità insita nel mito. Come nella Marciana, la vicenda di Prometeo si intreccia con la caduta dei Giganti, raffigurati nella stanza accanto, sottolineando attraverso il dittico la punizione della ribellione da parte degli dei.[41] Ma mi sembra che la novità iconografica metta da parte il motivo cacologico e accentui soprattutto il filantropismo prometeico, idealizzando, iconicamente collocato a mezz’aria, il suo ruolo di mediatore tra le istanze sublimi del banchetto celeste e i limiti connaturati all’umanità, in perfetta sintonia con la versione platonica.
Nelle Maraviglie dell’arte del 1648 Ridolfi, oltre a elogiare il ciclo, come farà anche Boschini, fornisce una lettura moraleggiante, che risente della Controriforma, affermando che Prometeo «furato il fuoco dal Cielo, sen vola à portar in terra la copia de’ mali. Quindi è, che si veggono molti infermi giacenti sul terreno».[42] Van der Sman ripercorre questa lettura, «per via dell’accostamento con la Scena di naufragio raffigurata sulla parete meridionale, in cui si riconosce un’allegoria del “Diluvio” che nelle Metamorfosi di Ovidio segna un periodo di decadimento della stirpe umana».[43] Notando l’identico accostamento di temi figurativi nell’Ercole e Caco del palazzo Valmarana Braga, prospetta una variante personale dell’artista sulla sequenza iconografica del «Diluvio-Caduta di Fetonte, codificata da Lucrezio»[44] nel quinto libro del De rerum natura, con i richiami allegorici all’acqua e al fuoco.
Occorre però notare che Prometeo corona la grande sala, alla quale si accede attraverso una porta sorvegliata dalla Sapienza. Così il sapiente scende dall’ipotetico cielo non per creare l’uomo, non per essere soggetto alla punizione coercitiva, ma per risollevare con il fuoco dell’Olimpo l’umanità e la società dolenti. Credo che l’affresco, prodotto della «visione eroica»[45] tipica del frescante e di un energico desiderio narrativo, voglia sottolineare la saggezza prometeica nella sua gestualità sfavillante e solidale, dalla chiara finalità emancipatrice, che apre il cammino iniziatico, tutto rinascimentale, dell’illuminazione del sapere umano, celebrando l’ardore intellettuale in linea con l’intenzione più scoperta dell’impianto decorativo, e non solo, della villa. Nella sua esibizione dell’audacia e della curiosità, il Prometeo alato anticipa la lettura seicentesca del mito, dove il vizio si fa virtù.
Nella Malcontenta Zelotti rivela un’evoluzione stilistica, basata anche su una complicità costruttiva tra fenomeni pittorici e fatti architettonici e sull’acquisizione di un equilibrio rinnovato. I corpi possenti e la prosodia distesa e fluida del panneggiare, sempre meno cartacea, sono i sintomi più evidenti della declinazione individuale della lezione di Veronese, che fecero di Zelotti un elegante interprete del coté linguistico della villa del Cinquecento veneto. L’impronta michelangiolesca e la passione per i colori giustapposti, nonché la predilezione per la cromia violacea, qui si stemperano, forse per il problematico riavvicinamento a Veronese, per la contiguità con gli artisti della cerchia romana,[46] parallela all’abbandono delle formule emiliane, o ancor più per l’impatto della misura palladiana.
Dopo circa un lustro, tra il 1567 e il 1568,[47] Zelotti dipinge un altro Prometeo alato, nello Studiolo del Conte, una saletta al pianterreno del palladiano palazzo Valmarana Braga di Vicenza, scattante riflesso di una committenza largamente attiva nell’intensa vita culturale.
Prometeo, con tutti gli attributi ormai canonici entro le stesse coordinate spazio-temporali, presenta le ali, la barba bianca che lo connota come sapiens, e sorregge una torcia, rivolta verso il simulacro del primo uomo affrescato a grisaille, disteso a terra e appoggiato su una roccia, quasi in attesa del gesto vitalizzante. Sulla sinistra la dea Minerva di spalle infonderà l’anima alla creatura.
La lettura iconografica proposta da Brugnolo Meloncelli, secondo la quale si tratterebbe di Marte e il Tempo, risulta difficile da spiegare, se non viene limitata all’estensione della «relazione logica»[48] che intercorre tra l’ovale con l’Aurora e le Ore e i due monocromi con il Tempo e la Fama. Mi pare un abbaglio iconografico tutto moderno e poco rinascimentale: è evidente che la figura armata sia femminile, e che sia Prometeo e non il Tempo ad animare con la fiaccola il primo uomo, in questa ripresa morfologica e sintattica che rivela non solo una convergenza a distanza, ma uno stilema semanticamente rilevante. Inoltre a fianco dell’esagono compare già il Tempo a monocromo verdastro, peraltro rivolto verso la scena. Anche alla Malcontenta, nel camerino con paesaggi e grottesche di destra, trasversale alla Stanza di Prometeo, compariva in un ovale l’allegoria del Tempo, in pendant con l’allegoria della Fama nel camerino di sinistra, soggetti mainstream nelle ville. Entrambe le figure, ora attribuite a Zelotti e in passato a Bernardino India, presentano le ali, in linea con le convenzioni iconografiche. Secondo Ridolfi, Zelotti «dipinse il Tempo, e la Fama forse, per inferire, che il grido di quelle nobili sue fatiche fosse per durare à pari corso del Tempo».[49] La presenza dell’identica formula di pathos che dinamizza il Prometeo alato del palazzo Valmarana e della Malcontenta è rafforzata da una certa attinenza figurativa tra i due contesti, particolarmente evidente anche nelle scene dell’uccisione di Caco da parte di Ercole, nella Stanza di Caco e Prometeo, e dell’Aurora, nella stanza eponima.
Rigon nota «un’ardita crasi della creazione di Prometeo, assurto a rappresentante dell’umanità e collocato tout court alle sue scaturigini dalla terra. Non lui infatti, come recita la lezione mitica più corrente, impasta l’uomo con il fango, ma giace egli stesso direttamente modellato, già in taglia adulta, nella materia primordiale del suolo», presidiato dal Tempo e da Minerva, in un «vero hapax legòmenon iconografico».[50] Mi sembra che vengano meno tutte le interconnessioni caratterizzanti, e che la dimensione contestuale sia non solo messa in ombra, ma rimossa. Gli ictus portanti del dettato referenziale ed evocativo del Prometeo alato non sono recepiti nella loro trasversalità. Sono inoltre convinto che Zelotti attui una trasposizione, peraltro ortodossa, del passo delle Imagini di Cartari riportato in precedenza, nonché della tradizione lì coalescente, riscontrabile anche in Bocchi.
Al di là di qualsiasi prospettiva ermeneutica, mi pare fondamentale ratificare la ripresa del particolare iconografico, che dalla Marciana, l’officina del manierismo extra-veneziano, vola a due ville palladiane, e non solo,[51] in uno spazio e in un tempo così determinati e contigui da poter chiarire per analogia l’immagine e le sue citazioni. In questo theatrum memoriae l’intericonicità si pone come uno strumento esegetico dirimente. Le discrasie nel riconoscimento rafforzano un’impressione destata fin dall’inizio: l’addizione delle ali sarebbe una variante originata dalla sovrapposizione iconologica tra Prometeo e l’allegoria del Tempo. Una disamina dell’Iconologia di Ripa consente di rintracciare la presenza congiunta delle ali e del fuoco, tra gli altri, nel Crepuscolo della mattina, nel Giorno naturale, nella Prontezza e nella Sollecitudine. Una messe consistente presenta le ali: cito soltanto l’Amore e le sue fenomenologie, il Tempo in tutte le sue declinazioni, il Desiderio verso Iddio, la Fama, la Fortuna, la Virtù, la Vittoria, l’Ingegno. L’attributo viene chiarito in tutte le occorrenze nei termini di velocità, prestanza, subitaneità e via così. Le ali, rimandando all’alzarsi al di sopra della volgarità, all’elevazione dell’intelletto, alla contemplazione, alla nobiltà dell’anima, segnalano insomma un effetto collaterale del divino e della sua manifestazione, e finiscono per rappresentare un’idealizzazione del classico, ipostatizzato nei moduli semantici della creazione, dell’intelletto e dell’immaginazione.
La sovrimpressione iconografica tra il titano e il Tempo non è altro che l’ennesima «re-interpretazione delle immagini classiche»[52] tutta rinascimentale, dove si raggiungono contenuti simbolici inediti attraverso la mise en scène di contenuti simbolici già esistenti. Prometeo è allora un parente stretto del Padre Tempo alato, il prodotto di un’efficace pseudomorfosi, come direbbe Panofsky, con una variatio intrisa di scopi non solo esornativi, e soprattutto semantici, tra i quali la caratura dell’antropofilia del titano. È un vegliardo che apre un’era di grazia e annuncia, attraverso le sue valenze trasmutatorie, il percorso diacronico della creazione e dell’ascesi, soggetto alla sua costitutiva instabilità, a una perenne mobilità spaziale, temporale, fisica, intellettuale, morale e politica.
Le ali si rivelano come un vero e proprio marchio di fabbrica, e per questo non sono da escludere le vigorose interferenze anche con il Genio, nonostante la discordanza tra la giovinezza di questo e la tendenziale senilità di Prometeo, che evidenzierebbero la forza individuale, la creatività e l’energia dell’intelletto, e con l’Astrologia, anch’essa alata, con un compasso o una sfera tra le mani che rimandano al Prometeo astrologo di Salviati nel Salone della Marciana[53] e, guarda un po’, al Tempo nei Marmi, nella Zucca e nei Mondi di Anton Francesco Doni,[54] esemplato anche a partire da un’incisione dello stesso Salviati per le Sorti di Marcolini pubblicate a Venezia nel 1540 e nel 1550. Come ricorda Ginzburg, «Icaro che piomba giù dal cielo e Prometeo punito per aver rubato dal cielo il fuoco divino […] furono visti come simboli degli astrologi, degli astronomi, dei teologi eretici, dei filosofi inclini a pensieri audaci, di imprecisati teorici della politica».[55] In merito all’intersezione con l’Ingegno, mi limito a ricordare che sulla volta dello Stanzino di Francesco I Morandini affrescò Prometeo nelle vesti di creatore e scultore, accanto alla Natura e al Genio,[56] aderendo ai suggerimenti iconografici di Borghini, connaisseur di Giulio Camillo[57] e autore della Mascherata ispirata alle Genealogie di Boccaccio e al De inventoribus libri di Vergilio. Facendo invece un balzo in avanti, non possono non venire in mente anche tutte le qualità filantropiche, connesse alle potenzialità dello stesso elemento iconico, esibite dai moltissimi protagonisti che soccorrono gli oppressi nel graphic novel delle più svariate cronologie.
Se Ivanoff, evocando gli affreschi di Zelotti nel palazzo Valmarana e nella villa Godi, afferma che «non possiamo certo confrontare la tematica esoterica e magica della decorazione di una casa di campagna, sperduta in provincia, con l’ordinazione ufficiale di un monumento pubblico»,[58] in questa caccia ai contenuti sedimentati e isomorfi, l’elemento iconico si mostra piuttosto come l’ennesima propagazione di mnemischen Wellen, innamorate della duttilità e della diffrazione.
In questa grammaticalizzazione delle ali, attributo accusato del Tempo dal Medioevo in avanti, Prometeo appare come il consigliere dell’umanità, che froda la divinità rubando il fuoco ad assoluto vantaggio dell’uomo. La sua affezione alla stirpe umana è tale da accelerare le dinamiche della pars construens delle sue azioni, mettendo ingegnosamente le ali, un po’ come recita lo spot cult di una famosa bevanda energetica, per accorciare le distanze spazio-temporali e rendere mobile il pensiero. Nelle Prose Bembo aveva stabilito un principio estetico da seguire: «due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza».[59] Due qualità che il Prometeo alato incarna sicuramente.
1 A. Palladio, I quattro libri dell’architettura [1570], a cura di M. Biraghi, Roma, Edizioni Studio Tesi, 2008, p. 9.
2 N. Ivanoff, ‘Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del Cinquecento’, Emporium, LXIX, 2 (vol. CXXXVII, n. 818), febbraio 1963, pp. 51-58; Id., ‘La Libreria Marciana: Arte e Iconologia’, Saggi e memorie di storia dell’arte, 6, 1968, pp. 44-57; G. Romanelli, ‘La Libreria Marciana’, in R. Pallucchini (a cura di), Da Tiziano a El Greco. Per la storia del Manierismo a Venezia (1540-1590), catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, settembre-dicembre 1981), Milano, Electa, 1981, pp. 277-284; M. Morresi, Jacopo Sansovino, Milano, Electa, 2000, p. 210, con bibliografia precedente. In assenza di attestazioni documentarie sono stati proposti i nomi dei collaboratori di Sansovino durante la prima fase del cantiere: Alessandro Vittoria, Danese Cattaneo, Tommaso Lombardo, Pietro da Salò, Girolamo da Ferrara, Tiziano Aspetti, Bartolomeo Ammannati, Luca de’ Nobili, Agostino e Antonio Rubini, Antonio de’ Ganzin, Francesco Chiona, Bernardino de’ Quadri, Gerolamo Campagna.
3 Rimando almeno a O. Raggio, ‘The Myth of Prometheus: Its Survival and Metamorphoses up to the Eighteenth Century’, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXI, 1/2, gennaio-giugno 1958, pp. 44-62; E. Paribeni, s.v. ‘Prometeo’, in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1965, vol. VI, pp. 485-487; G. Tassinari, ‘Le raffigurazioni di Prometeo creatore nella glittica romana’, Xenia Antiqua, I, 1992, pp. 61-116; J.-R. Gisler, s.v. ‘Prometheus’, in Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Zurich-München, Artemis Verlag, 1994, vol. VII, pp. 531-553; V.I. Stoichiţă, L’effet Pygmalion. Pour une anthropologie historique des simulacres, Genève, Droz, 2008.
4 S. Trisciuzzi, ‘36: Prometeo’,
5 E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento [1939], introduzione di G. Previtali, traduzione di R. Pedio, Torino, Einaudi, 1975, pp. 5-9.
6 M. Morresi, Jacopo Sansovino, cit., p. 192.
7 R. Pallucchini, ‘Per la storia del Manierismo a Venezia’, in Id. (a cura di), Da Tiziano a El Greco. Per la storia del Manierismo a Venezia (1540-1590), cit., pp. 11-68: 13.
8 M. Tafuri, Jacopo Sansovino e l’architettura del ’500 a Venezia, fotografie e design di D. Birelli, Padova, Marsilio, 1969, p. 61. Si veda anche Id., Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino, Einaudi, 1985.
9 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, 6 voll., Firenze, Studio Per Edizioni Scelte, 1966-1987, vol. VI, p. 602.
10 L. Spitzer, Classical and Christian Ideas of World Harmony, a cura di A. Granville Hatcher, presentazione di R. Wellek, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1963.
11 A.D. Basso, ‘Il programma scultoreo della Libreria sansoviniana tra “Classicismo” programmatico e aderenza a modelli antichi’, in Congresso internazionale Venezia e l’archeologia. Un importante capitolo nella storia del gusto dell’antico nella cultura artistica veneziana, Roma, Bretschneider (Rivista di Archeologia, Supplementi, 7), 1990, pp. 199-202.
12 L. Sperti, ‘Cicli mitologici monumentali nel Rinascimento veneziano: ancora sui rilievi della Libreria Sansoviniana’, Eidola, 15, 2018, pp. 131-143 e 134-136.
13 N. Ivanoff, ‘La Libreria Marciana: Arte e Iconologia’, cit., p. 47.
14 Ovid, Metam. I, 78 sgg; Horace, Carm. I, 3, 16; Catullus, Carm. LXIV, 294; Propertius, Eleg. III, 5; II, 1; Juvenal, IV, 135; XV, 84; Martial, X, 39, 4; Valerius Flaccus, Argon., IV, 58-81.
15 G. Barbieri, ‘«Finxit in effigiem moderantum cuncta deorum»: un ritratto in sembianze di Prometeo’, Hvmanistica, 1/2, 2006, pp. 161-183: 181; Id., ‘L’incontro tra Prometeo e Ganimede nei sottarchi della Marciana’, in M.A. Chiari Moretto Wiel, A. Gentili (a cura di), L’attenzione e la critica. Scritti di storia dell’arte in memoria di Terisio Pignatti, Padova, Il Poligrafo, 2008, pp. 151-157: 155.
16 N. Ivanoff, ‘La Libreria Marciana: Arte e Iconologia’, cit., p. 45.
17 M. Morresi, Jacopo Sansovino, cit., p. 210.
18 L. Sperti, ‘Temi ovidiani nella Libreria Sansoviniana a Venezia’, Eidola, 8, 2011, pp. 155-177: 169 sgg.
19 N. Ivanoff, ‘Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del Cinquecento’, cit., p. 52; Id., ‘La Libreria Marciana: Arte e Iconologia’, cit., p. 50.
20 G. Romanelli, ‘La Libreria Marciana’, cit., p. 279.
21 V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, a cura di G. Auzzas, F. Martignago, M. Pastore Stocchi, P. Rigo, Vicenza, Neri Pozza, 1996, pp. 11-12.
22 M. Morresi, Jacopo Sansovino, cit., p. 211.
23 I.O. Rajewsky, ‘Intermediality, Intertextuality, and Remediation: A Literary Perspective on Intermediality’, Intermédialités/Intermediality, 6, 2005, pp. 43-64: 53.
24 G. Pozzi, L.A. Capponi, ‘La cultura figurativa di Francesco Colonna e l’arte veneta’, Lettere Italiane, XIV, 2, aprile-giugno 1962, pp. 151-169: 152.
25 M. Morresi, Piazza San Marco. Istituzioni, poteri e architettura a Venezia nel primo Cinquecento, Milano, Electa, 1999, pp. 100-101. Cfr. G. Lorenzetti, ‘La Libreria Sansoviniana di Venezia’, Accademie e Biblioteche d’Italia, III, 1, 1929-1930, pp. 22-36: 28; N. Ivanoff, ‘Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del Cinquecento’, p. 57; Id., ‘Il coronamento statuario della Marciana’, Ateneo Veneto, II, 1, gennaio-giugno 1964, pp. 101-112; Id., ‘I cicli allegorici della Libreria e del Palazzo Ducale di Venezia’, in V. Branca (a cura di), Rinascimento europeo e rinascimento veneziano, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 281-297: 294; T. Hirthe, ‘Die Libreria des Jacopo Sansovino. Studien zu Architektur und Ausstattung eines öffentlichen Gebäudes in Venedig’, Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, 37, 1986, pp. 131-176: 155.
26 G. Boccaccio, Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1998, voll. VII-VIII, t. 1, a cura di V. Zaccaria, p. 449.
27 E. Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale [1960], Milano, Feltrinelli, 1971, p. 100n; O. Raggio, ‘The Myth of Prometheus: Its Survival and Metamorphoses up to the Eighteenth Century’, cit., p. 49.
28 Ibidem; L. Sperti, ‘Temi ovidiani nella Libreria Sansoviniana a Venezia’, cit., pp. 173-174.
29 Ad esempio in Piero di Cosimo: E. Panofsky, Preistoria umana in due cicli pittorici di Piero di Cosimo, in Id., Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, cit., pp. 39-88: 44 sgg.
30 M. Praz, Le metamorfosi di Satana, in Id., La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica [1930], introduzione di P. Colaiacomo, Firenze, Sansoni, 1991, pp. 55-84.
31 N. Ivanoff, ‘Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del Cinquecento’, cit., p. 51.
32 Id., ‘La Libreria Marciana: Arte e Iconologia’, cit., p. 46.
33 L. Crosato, Gli affreschi nelle ville venete del Cinquecento, con prefazione di R. Pallucchini e 177 illustrazioni fuori testo, la più parte inedite, Treviso, Canova, 1962, p. 123. In seguito la datazione è posticipata al 1560, «tuttavia la poca connessione tematica che si nota tra i vari vani può anche far pensare che non tutto il ciclo sia stato eseguito allo stesso tempo, anche perché dopo il 1561 Zelotti sarà impegnato alla Malcontenta» (Ead., ‘Villa Godi’, in G. Pavanello, V. Mancini (a cura di), Gli affreschi nelle ville venete. Il Cinquecento, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 272-286: 283). Brugnolo Meloncelli approvava invece la datazione al 1565 circa avanzata da Ballarin (K. Brugnolo Meloncelli, Battista Zelotti, Milano, Berenice, 1992, p. 104).
34 L. Crosato Larcher, ‘Postille alla lettura del ciclo della Malcontenta dopo il restauro’, Arte Veneta, XXXII, 1978, pp. 223-229: 229.
35 A. Palladio, I quattro libri dell’architettura, cit., p. 152.
36 G. Fiocco, Paolo Veronese, 1528-1588, Bologna, Apollo, 1928, p. 204; L. Crosato, Gli affreschi nelle ville venete del Cinquecento, cit., p. 138; K. Brugnolo Meloncelli, Battista Zelotti, cit., p. 97. Cfr. C.B. Tiozzo, ‘Gli affreschi di Villa Foscari alla Malcontenta dopo i recenti restauri’, Notizie da Palazzo Albani, VIII, 1, 1979, pp. 55-67.
37 L. Crosato Larcher, ‘Postille alla lettura del ciclo della Malcontenta dopo il restauro’, cit., p. 223.
38 N. Ivanoff, ‘I cicli allegorici della Libreria e del Palazzo Ducale di Venezia’, cit., pp. 281-297; L. Puppi, Andrea Palladio, 2 voll., Milano, Electa, 1973, vol. II, pp. 328-330.
39 A. Lotto, ‘Villa Foscari detta “la Malcontenta”’, in G. Pavanello, V. Mancini (a cura di), Gli affreschi nelle ville venete. Il Cinquecento, cit., pp. 311-317: 315.
40 L. Crosato Larcher, ‘Postille alla lettura del ciclo della Malcontenta dopo il restauro’, cit., p. 225.
41 N. Ivanoff, ‘I cicli allegorici della Libreria e del Palazzo Ducale di Venezia’, cit., p. 291; L. Crosato Larcher, ‘Postille alla lettura del ciclo della Malcontenta dopo il restauro’, cit., p. 225.
42 C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, overo le vite de gl’illustri pittori veneti, e dello Stato. Ove sono raccolte le Opere Insigni, i costumi e i ritratti loro. Con la narrazione delle Historie, delle Favole, e delle Moralità dà quelli dipinte, Venezia, Gio. Battista Sgava, 1648, p. 369.
43 G.J.J. van der Sman, La decorazione a fresco delle ville venete del Cinquecento. Saggi di lettura stilistica ed iconografica, Firenze, Litografia RGR, 1993, pp. 236-237.
44 Ibidem.
45 L. Crosato, Gli affreschi nelle ville venete del Cinquecento, cit., p. 32.
46 R. Pallucchini, ‘Giambattista Zelotti e Giovanni Antonio Fasolo’, Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, X, 1968, pp. 203-228: 212-213.
47 K. Brugnolo Meloncelli, Battista Zelotti, cit., p. 117.
48 Ibidem.
49 C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte […], cit., p. 369.
50 F. Rigon, ‘Un microcosmo iconografico nel palladiano palazzo Valmarana, ora Braga di Vicenza’, Annali di architettura, 23, 2011, pp. 93-96: 95.
51 Ivanoff cita en passant gli affreschi di Giovanni da Udine nel castello di Colloredo di Monte Albano (N. Ivanoff, ‘Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del Cinquecento’, cit., p. 52). L’artista, in stretti rapporti con la famiglia Grimani, aveva iniziato la decorazione degli interni di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa proprio nel 1537, elementi che hanno condotto Sperti a ipotizzare un qualche ruolo di Giovanni di Udine nell’elaborazione del programma figurativo della Marciana (L. Sperti, ‘Cicli mitologici monumentali nel Rinascimento veneziano: ancora sui rilievi della Libreria Sansoviniana’, cit., p. 133).
52 E. Panofsky, Il Padre Tempo, in Id., Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, cit., pp. 89-134: 89.
53 N. Ivanoff, ‘Il ciclo dei filosofi della libreria Marciana a Venezia’, Emporium, LXX, 11 (vol. CXL, n. 839), novembre 1964, pp. 207-210; Id., ‘La Libreria Marciana: Arte e Iconologia’, cit., pp. 33-78.
54 A. Stefanini, ‘Illustrazioni marcoliniane e testi doniani’, in E. Scarano, D. Diamanti (a cura di), Riscrittura intertestualità transcodificazione, Seminario di studi (Pisa, gennaio-maggio 1991), Pisa, Tipografia editrice pisana, 1992, pp. 145-165; C. Rivoletti, ‘Le metamorfosi del Tempo. Immagine del Tempo e utopia nelle opere di Anton Francesco Doni’, Intersezioni, XXI, 3, dicembre 2001, pp. 489-518.
55 C. Ginzburg, ‘L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel ’500 e ’600’, in Id., Miti emblemi spie. Morfologia e storia [1986], Milano, Adelphi, 2023, pp. 117-128: 121.
56 V. Conticelli, ‘Prometeo, Natura e il Genio sulla volta dello Stanzino di Francesco I: fonti letterarie, iconografiche e alchemiche’, Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XLVI, 2/3, 2002, pp. 321-356.
57 L. Bolzoni, ‘L’“invenzione” dello Stanzino di Francesco I’, in AA.VV., Le arti del principato mediceo, Firenze, Studio Per Edizioni Scelte, 1980, pp. 255-299.
58 N. Ivanoff, ‘Il mito di Prometeo nell’arte veneziana del Cinquecento’, cit., p. 52.
59 M. Tavosanis, ‘La prima stesura delle Prose della volgar lingua: fonti e correzioni’, con edizione del testo, Pisa, ETS, 2002, p. 226.