Alle origini mitiche dell’humanitas: Prometeo*

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Muovendo da un passo di Aulo Gellio (Noctes Atticae 13, 17) e soffermandosi su testi di Eschilo, Varrone, Firmico Materno e Erasmo da Rotterdam, nonché tenendo conto di testimonianze vascolari dell’antica Grecia, questo contributo intende mostrare come nella figura di Prometeo possa incarnarsi il mitico fondatore di uno dei concetti portanti del pensiero romano classico, quello di humanitas.

Starting from a passage by Aulus Gellius (Noctes Atticae 13, 17) and dwelling on texts by Aeschylus, Varro, Firmicus Maternus and Erasmus of Rotterdam, as well as taking into account vase evidence from ancient Greece, this contribution aims to show how the mythical figure of Prometheus can embody the founder of one of the most important concepts of classical Roman thought, that of humanitas.

La figura di Prometeo all’interno del panorama mitologico classico, soprattutto greco, gode di particolare fortuna nell’ambito legato ai cosiddetti miti del progresso, ovvero quelle narrazioni in cui la storia del mondo e del ruolo dell’uomo al suo interno è presentata come una continua evoluzione da condizioni più arretrate culturalmente, e perciò meno agevoli per la vita umana, a situazioni migliori, più evolute, più civilizzate.[1] Emblematica, in questo contesto, è la versione contenuta nel Protagora platonico (320d-322d), secondo cui Prometeo rimedia alle mancanze del fratello Epimeteo nei confronti degli uomini consegnando loro il fuoco e la sapienza tecnica, dopo aver sottratto con l’inganno il primo a Efesto e la seconda ad Atena.[2] Proprio per il furto del fuoco Eschilo aveva definito Prometeo philánthropos in un passo del Prometeo incatenato su cui ritorneremo, chiamando così in causa la philanthropía, da identificarsi, come chiarirà bene un passo di Aulo Gellio, come una componente fondamentale del concetto latino di humanitas, che nel suo senso più ampio indica proprio la nozione di civilizzazione – ovviamente secondo i parametri romani e con sfumature diverse in relazione agli autori e ai periodi della storia di Roma – ovvero il risultato del progresso umano descritto nei miti e cui i Greci non diedero mai una denominazione vera e propria.[3]

Sebbene C. Moro e M. P. Pattoni abbiano sostenuto in anni recenti che la fortuna della figura di Prometeo nella letteratura latina, al netto di quanto non ci è pervenuto, debba essere stata comunque limitata,[4] senza entrare nel merito della questione, nel presente contributo intendo mostrare come, a prescindere dal livello generale della ricezione della figura di Prometeo a Roma, proprio lui potrebbe incarnare, in particolar modo secondo il poligrafo Varrone (I sec. a.C.), il mitico fondatore del concetto di humanitas. A tal fine, ricorrerò inizialmente ad un percorso cronologicamente e culturalmente a ritroso, muovendo cioè da una testimonianza dell’erudito latino Aulo Gellio (II sec. d.C.), passando quindi a Varrone, per poi giungere al tragediografo greco Eschilo (V sec. a.C.), imprescindibile punto di riferimento per chiunque si accosti al mito di Prometeo, nella cultura classica come in quella successiva; mi concentrerò infine su un paio di frammenti del perduto Prometheus varroniano, che indagherò facendo un confronto con passi degli scritti di Firmico Materno (IV sec. d.C.).

Ad Aulo Gellio si deve la prima esplicita discussione sul significato del vocabolo latino humanitas, il che da una parte prova l’importanza concettuale rivestita da questo termine, dall’altra il fatto che, almeno quando scriveva Gellio, non tutti ne comprendessero il senso e la portata. Nell’unica sua opera che ci è pervenuta, le Noctes Atticae (Notti attiche), Gellio, infatti, scrive (XIII, 17):

 

1. Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, humanitatem non id esse voluerunt, quod volgus existimat quodque a Graecis φιλανθρωπία dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnis homines promiscam, sed humanitatem appellaverunt id propemodum quod Graeci παιδείαν vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artis dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt vel maxime humanissimi. Huius enim scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini datast idcircoque humanitas appellata est. 2. Sic igitur eo verbo veteres esse usos et cumprimis M. Varronem Marcumque Tullium omnes ferme libri declarant.
 
1. Sia coloro che coniarono i vocaboli latini sia coloro che li hanno usati in modo appropriato non vollero che l’humanitas fosse ciò che ritiene il volgo, che dai Greci è detta philanthropía e che indica una qualche positiva disposizione e benevolenza verso tutti gli uomini indistintamente; ma definirono humanitas pressappoco quella che i Greci chiamano paideía e noi diciamo erudizione e formazione nelle buone arti. Coloro che desiderano e mirano sinceramente a queste sono i più dotati di humanitas. La cura e lo studio di questo sapere tra tutti gli esseri animati è stata concessa al solo uomo ed è per questo che è stata chiamata humanitas. 2. Quasi tutti i libri riportano pertanto che in questo modo abbiano usato questo termine i vecchi e, soprattutto, Marco Varrone e Marco Tullio.[5]
 

Le discussioni e le problematiche che ha sollevato questo testo sono notevoli e si riflettono in una bibliografia considerevole, che non è però il caso di richiamare qui.[6] Mi limito solo a evidenziare come Gellio chiami in causa i due importanti concetti greci di philanthropía e paideía, che entrambi possono essere resi dal latino humanitas e, anzi, ne costituiscono le due componenti fondamentali, e come questa polisemia sia in realtà presente già nei primi autori in cui compare questo vocabolo, in primis proprio Cicerone menzionato da Gellio.[7]

Insieme con Cicerone, Aulo Gellio nomina anche Marco Varrone, ovvero il grande poligrafo di I secolo a.C. Marco Terenzio Varrone (116 – 27 a.C.), tra l’altro tra i personaggi protagonisti degli Academica ciceroniani. Proprio in un passo di quest’opera (I, 9), Cicerone si rivolge al Varrone personaggio con queste parole:

 

Nam nos in nostra urbe peregrinantes errantesque tamquam hospites tui libri quasi domum deduxerunt, ut possemus aliquando qui et ubi essemus agnoscere. Tu aetatem patriae tu descriptiones temporum, tu sacrorum iura tu sacerdotum, tu domesticam tu bellicam disciplinam, tu sedum regionum locorum, tu omnium divinarum humanarumque rerum nomina genera officia causas aperuisti. Plurimum quidem poetis nostris omninoque Latinis et litteris luminis et verbis attulisti, atque ipse varium et elegans omni fere numero poema fecisti, philosophiamque multis locis inchoasti, ad impellendum satis, ad edocendum parum.
 
Infatti, affinché potessimo una buona volta conoscere chi e dove fossimo, i tuoi libri ci hanno per così dire condotto a casa mentre vagavamo ed erravamo nella nostra città alla stregua di ospiti. Sei stato tu a rivelare l’età della nostra patria, tu le classificazioni delle epoche, tu le leggi che regolano i riti sacri, tu la scienza dei sacerdoti, tu le istituzioni in pace e in guerra, tu i nomi, le tipologie, le caratteristiche e le ragioni delle sedi, delle regioni, dei luoghi e di tutte le cose divine e umane; moltissimo lustro senza dubbio hai dato ai nostri poeti e, in generale, alla letteratura e ai vocaboli latini e tu stesso hai composto poesie in metro vario ed eleganti praticamente in ogni verso e hai toccato la filosofia in numerosi luoghi, sufficientemente per stimolare il lettore anche se non abbastanza per educarlo completamente.[8]

 

Dunque già per i contemporanei e, fatto ancora più considerevole, per un uomo di grande cultura quale Cicerone, Varrone rappresentava una vera e propria auctoritas in molti campi, compresa la lingua latina, ambito che più interessa in questo caso. Non stupisce pertanto che Gellio accosti il suo nome a quello dell’Arpinate quando si tratta di invocare autorità linguistiche indiscutibili a sostegno della propria tesi. Purtroppo, però, gli studiosi moderni hanno difficoltà a verificare in qual misura l’affermazione di Gellio sia valida in relazione a Varrone, perché gran parte della produzione letteraria di quest’ultimo non ci è pervenuta e le occorrenze del vocabolo humanitas che emergono dalla sua opera sono solamente quattro. Il caso di Res rusticae I, 17, 4, 2, in cui humanitas compare in congiunzione con litterae (lettere, cultura letteraria), non lascia comunque dubbi sul fatto che anche per Varrone la componente educativa, quella corrispondente alla greca paideía, potesse essere presente nel vocabolo.[9] Più rilevante per i fini qui perseguiti è però un passo del De lingua Latina (Sulla lingua latina), dal quale emerge bene, tra l’altro, come l’humanitas non sia un valore che tutti gli uomini possiedono ontologicamente e aprioristicamente. Varrone si sta occupando della contrapposizione tra la scuola analogista e quella anomalista, riportando, nel libro VIII, alcune obiezioni che lui afferma essere in voga tra gli oppositori della concezione analogista del linguaggio. Più nel dettaglio, nel passo che ci interessa (VIII, 31), sta dichiarando che la varietà, cioè l’anomalia, è più piacevole ed elegante dell’uniformità, cioè dell’analogia. A coronamento del suo ragionamento, Varrone contrappone quindi ciò che soddisfa l’homo – fuor di metafora: l’analogia – a ciò che soddisfa l’humanitas, cioè la più ricca ed elegante anomalia:

 
Quod si quis duplicem putat esse summam, ad quas m[a]etas naturae sit perueniendum in
usu, utilitatis et elegantiae, quod non solum uestiti esse uolumus ut uitemus frigus, sed etiam ut uideamur uestiti esse honeste, non domum habere ut simus in tecto et tuto solum, quo[d] necessitas contruserit, sed etiam ubi uoluptas retineri possit, non solum uasa ad uictum habilia, sed etiam figura bella atque ab artifice , quod aliud homini, aliud humanitati satis est; quoduis sitienti homini poculum idoneum, humanitati si bellum parum;
 
Obietterà qualcuno che duplice è il fine, due sono le mete naturali che ci proponiamo di raggiungere in quello che ci serve per la vita: l’utilità e l’eleganza. Che noi non vogliamo vestirci solo per ripararci dal freddo, ma anche per andar vestiti bene; non vogliamo avere una casa solo per essere al riparo e al sicuro, cose a cui ci costringe la necessità, ma anche una casa dove ci si possa intrattenere piacevolmente; non avere servizi da tavola che siano soltanto utili per il cibo, ma anche di forma bella e artistica. Una cosa è ciò che soddisfa i bisogni dell’uomo, un’altra cosa è ciò che soddisfa la sua humanitas. Per un uomo assetato basta un bicchiere qualsiasi; per l’humanitas non basta, se non è bello.[10]

Come ha osservato giustamente I. Leonardis:

Secondo la distinzione qui espressa dall’autore, la natura degli humani contempla qualcosa in più rispetto a quella dei semplici homines, dai quali i primi si differenzierebbero in quanto ‘raffinati’, ovvero dotati di humanitas. Sarebbe tale memoria dell’umanità a spingere i singoli uomini a non accontentarsi unicamente del necessario ma a ricercare anche il piacere estetico attraverso l’impiego delle artes (tessitura, architettura, arte vascolare, etc.) che sono bagaglio comune della tradizione.[11]

Va precisato che Varrone non è il solo a collegare le arti all’humanitas; anzi: Cicerone lo fa in più luoghi, precisando inoltre quali siano nello specifico queste arti e attribuendo loro l’aggettivo liberales (liberali), un appellativo dal grande successo futuro, talvolta associato anche al sostantivo studia senza che se ne possano apprezzare significativi scarti di significato.[12] Ebbene le artes emergono come uno strumento indispensabile per conseguire quella paideía che è a sua volta componente fondamentale dell’humanitas.

Con le arti richiamiamo finalmente in causa la figura di Prometeo, colui che, come osservato in sede di introduzione, le ha consegnate all’uomo. Un rilievo particolare riveste in questo contesto il Prometeo incatenato eschileo, perché in questa tragedia troviamo menzionate le arti in relazione alla prima attestazione che la letteratura greca ci ha restituito del concetto di philanthropía, l’altra componente essenziale, insieme alla paideía, dell’humanitas. Proprio l’esordio del Prometeo incatenato recita infatti (vv. 1-12):

 

Χθονὸς μὲν εἰς τήλουρον ἥκομεν πέδον,
Σκύθην ἐς οἷμον, ἄβατον εἰς ἐρημίαν.
Ἥφαιστε, σοὶ δὲ χρὴ μέλειν ἐπιστολὰς
ἅς σοι πατὴρ ἐφεῖτο, τόνδε πρὸς πέτραις
ὑψηλοκρήμνοις τὸν λεωργὸν ὀχμάσαι
ἀδαμαντίνων δεσμῶν ἐν ἀρρήκτοις πέδαις.
τὸ σὸν γὰρ ἄνθος, παντέχνου πυρὸς σέλας,
θνητοῖσι κλέψας ὤπασεν· τοιᾶσδέ τοι
ἁμαρτίας σφε δεῖ θεοῖς δοῦναι δίκην,
ὡς ἂν διδαχθῇ τὴν Διὸς τυραννίδα
στέργειν, φιλανθρώπου δὲ παύεσθαι τρόπου.
 
Siamo all’ultimo margine del mondo:
questo è il sentiero estremo della Scizia, deserto senza gente.
È il tuo dovere, Efesto: abbi a cuore gli incarichi
che tuo padre ti ha imposto. Incatenare lui
– che è capace di tutto – alle rupi scoscese sull’abisso,
nei tuoi ceppi d’acciaio, fatti per non spezzarsi.
Perché è lui che ha rubato la tua gemma, lo splendore del fuoco, strumento di ogni arte. Ne ha fatto dono agli uomini. E agli dèi ora deve pagare questa colpa.
Imparerà, così, a gradire il regno
assoluto di Zeus. E smetterà di amare tanto gli uomini.[13]

Dunque Prometeo è definito philánthropos – da intendersi con accezione positiva se visto dalla prospettiva dell’uomo ma negativa dal punto di vista degli dei – in ragione del fatto che ha consegnato agli uomini il fuoco, ‘strumento di ogni arte’.[14] Va però aggiunta un’ulteriore osservazione la cui importanza verrà alla luce più avanti: Prometeo, punito da Zeus per il suo gesto, è legato ad una rupe nella regione della Scizia, l’‘ultimo margine del mondo’, ‘un deserto senza gente’, un luogo cioè dove non c’è alcun uomo che possa ricompensarlo per il suo dono così prezioso per gli umani né verso il quale Prometeo possa ancora esercitare la propria caratteristica di philánthropos. A proposito di questo aggettivo e del suo impiego qui è opportuno aggiungere alcune riflessioni. In primo luogo, la philanthropía si configura in questo passo di Eschilo come un sentimento che qualcuno escluso dalla comunità umana, cioè un dio, prova per gli uomini. Come ha rilevato J. De Romilly: «Il s’agit donc d’un acte de générosité venu du dehors aider l’espèce humaine; et ceci restera la valeur originelle du terme».[15] Come osserva sempre la studiosa, tale declinazione del concetto verrà ripresa anche da Platone (Simposio 189d e Leggi 713d) e Senofonte (Memorabili di Socrate 4, 3), il che rivela come il precedente eschileo ben si presti anche ad una dimensione filosofica. Più ancora dei luoghi appena segnalati, decisivo per la relazione tra la philanthropía e le arti e, pertanto, per mostrare la fortuna dell’esordio del Prometeo incatenato di Eschilo è un altro luogo senofonteo, tratto dall’Economico (15, 4): «Νῦν τοίνυν, ἔφη, ὦ Σώκρατες, καὶ τὴν φιλανθρωπίαν ταύτης τῆς τέχνης ἀκούσῃ»,[16] in cui la τέχνη in questione è l’agricoltura, che riveste un ruolo cruciale nei miti dello sviluppo, come si evince anche dal già citato mito di Prometeo nel Protagora platonico (322a).[17]

D’altra parte, l’influenza della concezione eschilea di Prometeo presso i contemporanei o, comunque, le generazioni a Eschilo prossime, non sembra doversi limitare al solo ambito letterario. Come chiarisce bene R. Viccei, l’iconografia prometeica della ceramica attica cambia significativamente proprio nella seconda metà del V secolo a.C.[18] Mentre nel corso dei secoli VII e VI l’attenzione si era infatti concentrata sulle immagini del castigo olimpico e della liberazione del titano, nella seconda metà del V secolo diventa centrale il fuoco, sia nel caso che le rappresentazioni vascolari riproducano il dono del fuoco ai satiri, sia che rappresentino invece i satiri che si intromettono nel tentativo da parte di Prometeo di portare il fuoco agli uomini.[19] A prescindere da questa divergenza interpretativa, l’indiscussa presenza dei satiri in queste rappresentazioni ha portato gli studiosi ad identificare come fonte di ispirazione non tanto il Prometeo incatenato quanto il perduto dramma satiresco Prometheus pyrkaeús / pyrphóros (Prometeo accenditore / portatore di fuoco), presentato sempre da Eschilo nel 472 a.C.[20] Nel Prometeo incatenato, del resto, il titano dona direttamente il fuoco agli uomini senza alcun intervento dei satiri. A maggior ragione, quindi, come sembra potersi evincere anche solo dal titolo dell’opera, nel Prometeo accenditore / portatore di fuoco il ruolo di Prometeo come philánthropos, quale emerge dalle rappresentazioni dopo la metà del V secolo, potrebbe essere stato messo in rilievo ancora maggiormente che nell’Incatenato.

Dinos attico a figure rosse con Prometeo che consegna il fuoco ai satiri, 420 a.C. circa, Ancona, Museo Archeologico Nazionale delle MarchePittore Branca, Cratere a calice apulo a figure rosse, 350-340 a.C., Berlino, Staatliche Museen

Fin qui si è cercato di mettere in luce il rapporto che lega la figura di Prometeo, il tragediografo Eschilo e le prime attestazioni del concetto di philanthropía, elemento essenziale dell’humanitas romana. Va fatta ora un’ulteriore considerazione di rilievo tutt’altro che secondario: la tradizione letteraria latina ha sempre considerato i Greci e, nello specifico, gli Attici, inventori dell’humanitas. Sebbene questo dato appaia di per sé discutibile, perché per i Greci philanthropía e paideía sono due concetti completamente differenti e ben distinti, mentre l’humanitas tende ad integrarli,[21] la quantità e l’autorevolezza delle testimonianze di questo genere sono tali da non potersi ignorare. A titolo di esempio, basti citare una lettera che Cicerone scrisse al fratello Quinto, recentemente nominato propretore d’Asia, in cui tra l’altro si legge (1, 1, 27):

 

Quod si te sors Afris aut Hispanis aut Gallis praefecisset, inmanibus ac barbaris nationibus, tamen esset humanitatis tuae consulere eorum commodis et utilitati salutique servire; cum vero ei generi hominum [scil. Graecorum] praesimus non modo in quo ipsa sit sed etiam a quo ad alios pervenisse putetur humanitas, certe iis eam potissimum tribuere debemus a quibus accepimus.
 
Perché se la sorte ti avesse messo a capo degli Afri o degli Ispanici o dei Galli, popolazioni inumane e barbare, sarebbe tuttavia dovere della tua humanitas provvedere ai loro bisogni e occuparti dei loro interessi e del loro benessere; ma dal momento che siamo a capo di quella specie di uomini [scil. i Greci] presso la quale l’humanitas non solo è nata ma dalla quale è anche ritenuta poi essere arrivata agli altri popoli, non c’è dubbio che dobbiamo concederne moltissima a coloro dai quali l’abbiamo ricevuta.[22]

 

Nell’orazione pronunciata nel 59 a.C. in difesa di Lucio Valerio Flacco, Cicerone precisa che anziché tutti i Greci sono gli Ateniesi, in particolar modo, a dover essere ritenuti gli inventori dell’humanitas: «Adsunt Athenienses, unde humanitas, doctrina, religio, fruges, iura, leges ortae atque in omnis terras distributae putantur».[23] D’altra parte la preminenza a livello culturale di Atene e dell’Attica sul resto della Grecia antica è notoria e il dato ben si concilia con la constatazione che le prime attestazioni del concetto di philanthropía, che Cicerone rendeva col latino humanitas, si trovano nel Prometeo incatenato eschileo.

Al di là della fortuna nell’immediato, percepibile sia a livello letterario sia vascolare, il Prometeo di Eschilo pare aver avuto un’influenza, seppur limitata, anche in altra letteratura classica, ad esempio proprio su quel Marco Terenzio Varrone che abbiamo incontrato in precedenza. Tra le numerosissime opere da lui composte spicca una satira menippea dal titolo Prometheus (Prometeo), della quale ci sono giunti solo pochi frammenti – 14 nell’edizione Cèbe (Roma, 1996). L’esiguità delle testimonianze ha fatto sì che gli studiosi si siano interrogati su varie questioni, a partire dal come Varrone avesse rappresentato Prometeo, se come un personaggio ‘negativo’ che, portando agli uomini il fuoco e, quindi, le arti, avesse consegnato loro anche la possibilità di diffondere la corruzione, ovvero come un personaggio ‘positivo’, un benefattore dell’umanità.[24] A tal proposito, così si è espresso J.-P. Cèbe:

 

Identifiant Prométhée avec la Providence (πρόνοια) de la Nature, il le considère non comme notre mauvais génie mais comme notre bienfaiteur. Placer en nous l’esprit et la raison (mens et ratio) symbolisés par le feu, c’était nous donner accès à l’art, à la vertu et à l’humanitas qui vont ensemble ; c’était nous rendre capables de tendre vers la perfection de notre être (natura perfecta) et de mener la vie à laquelle nous sommes destinés, cette vie heureuse voulue par la Nature (κατὰ φύσιν) qui fut celle des maiores. En somme, pour Varron, si Prométhée a été châtié, ce n’est pas du tout parce qu’il fut à l’origine de nos défauts et de nos vices, mais, au rebours, parce qu’il nous avait faits trop bons, trop pareils aux dieux.[25]
 

In effetti, anche il discorso portato avanti finora sulla relazione tra, da una parte, Prometeo e, dall’altra, la philanthropía prima e l’humanitas poi, sembra avvalorare una lettura in positivo della figura di Prometeo, se non altro in quanto primo portatore di questo concetto di valore che per Varrone rivestì probabilmente un’importanza analoga a quella che possiamo constatare nella Weltanschauung ciceroniana.

Nei frammenti pervenutici del prosimetro varroniano Prometheus non c’è purtroppo alcuna occorrenza del vocabolo humanitas; tuttavia, il fr. 426 Cèbe può fornire qualche indizio in proposito. Il testo, piuttosto breve, è il seguente: «mortalis nemo exaudit, sed late incolens / Scytharum inhospitalis campis vastitas».[26] Ritorna dunque lo sfondo della inospitale e desertica Scizia, già incontrata nell’esordio del Prometeo incatenato eschileo. Questa regione così come le popolazioni che la abitavano sono sempre state molto problematiche da definire. Nel I secolo d.C., nella sua monumentale opera enciclopedica nota come Storia naturale (Naturalis historia), Plinio il Vecchio dichiara infatti che su nessun’altra regione del mondo all’epoca conosciuto ha trovato notizie più discrepanti tra gli autori che leggeva (VI, 51: «Nec in alia parte maior auctorum inconstantia») e attribuisce questo fatto al numero notevole di popolazioni che abitavano la Scizia nonché al loro nomadismo (VI, 51: «credo propter innumeras vagasque gentes»). Quasi duemila anni dopo Plinio, la situazione sembra essere cambiata di poco, dato che E. Biondi, in uno studio sugli Sciti in Erodoto, afferma:

 

allorché utilizziamo l’etnonimo ‘Sciti’, di cosa parliamo realmente? Una definizione precisa e univoca in questo senso è infatti impossibile [...] Gli Sciti erano infatti conosciuti essenzialmente per la loro natura nomade: per questa ragione, le grandi culture sedentarie e civilizzate dell’antichità, quella greca e quella romana, avevano non poche difficoltà a definirne con precisione gli aspetti essenziali; se vogliamo, questa difficoltà ci appartiene ancora oggi.[27]
 

Dunque l’idea che la Scizia rappresentasse un luogo selvaggio e lontano dalla civiltà, connotato negativamente, quale emerge dalle testimonianze eschilee e varroniane fin qui incontrate, non è scontato. Del resto, come messo in luce già da tempo, molti autori antichi, a cominciare da Omero, hanno piuttosto puntato sull’esaltazione delle popolazioni scitiche in quanto non toccate dalla corruzione della civiltà: in sintesi, per molti gli Sciti hanno incarnato il mito del ‘buon selvaggio’.[28] Questa non doveva comunque essere la percezione del già citato Plinio il Vecchio, che, soprattutto in relazione ad una parte della Scizia, si esprime in termini poco lusinghieri (VI, 53):[29]

 

Inhabitabilis eius prima pars a Scythico promunturio ob nives; proxima inculta saevitia gentium. Anthropophagi Scythae insident humanis corporibus vescentes; ideo iuxta vastae solitudines ferarumque multitudo, haut dissimilem hominum inmanitatem obsidens.
 
La sua prima parte, dal promontorio scitico in poi, è inabitabile a causa delle nevi; la parte a questa adiacente è incolta a causa della crudeltà delle popolazioni: la abitano gli Sciti Antropofagi, che si cibano di corpi umani; così nelle prossimità ci sono vaste aree disabitate e una grande quantità di bestie feroci, che minacciano uomini non dissimili in quanto a crudeltà.[30]
 

Non troviamo qui esplicitata l’opposizione tra Scizia e humanitas; tuttavia, sia i termini saevitia, sia, ancor più, inmanitas, si pongono indubbiamente agli antipodi dell’humanitas. Paradigmatico, nel caso di inmanitas, è un passo tratto dai Doveri (De officiis) di Cicerone, in cui al centro del discorso vi è la figura del celeberrimo Falaride, tiranno di Agrigento. Senza mezzi termini, Cicerone dichiara legittimo attentare alla vita di un tiranno, in quanto seria minaccia per la società. La similitudine impiegata per spiegare come si configura questa minaccia è la seguente (III, 32):

 

Etenim, ut membra quaedam amputantur, si et ipsa sanguine et tamquam spiritu carere coeperunt et nocent reliquis partibus corporis, sic ista in figura hominis feritas et inmanitas beluae a communi tamquam humanitatis corpore segreganda est.
 
Infatti, come alcune membra vengono amputate, se hanno iniziato ad essere prive di sangue e, per così dire, di spirito vitale, e nuocciono alle altre parti del corpo, così nella figura di un uomo tali ferocia e crudeltà, degne di una bestia feroce, devono essere separate dal corpo per così dire comune dell’umanità.[31]
 

Dunque l’inmanitas propria delle belve si contrappone esplicitamente all’humanitas che dovrebbe essere propria degli uomini.[32]

Se quindi con Plinio il Vecchio ci avviciniamo soltanto ad una contrapposizione tra Scizia e humanitas, la letteratura antica ci offre però almeno due riscontri che rendono esplicita tale opposizione, ed entrambi si devono a una figura curiosa della prima metà del IV secolo d.C., Firmico Materno, autore prima di un trattato di astrologia, quindi, dopo la sua conversione al cristianesimo, di uno scritto che si concentra sugli errori delle religioni pagane.

Nella prima di queste due opere, il cui titolo latino abbreviato con cui è più nota è Mathesis, la prima preoccupazione di Firmico Materno è mostrare come i corpi celesti influenzino i caratteri e i costumi degli uomini. All’interno di tale contesto, egli prima dichiara che gli Sciti sono celebri per una crudeltà che deriva dalla loro inumana barbarie (I, 2, 3: «Scythae soli inmanis feritatis crudelitate grassantur»), poi aggiunge (I, 10, 12) però che, grazie all’azione delle stelle, «et effrenata Scytharum rabies quacumque humanitatis clementia mitigatur».[33]

Nella seconda opera di Firmico, Sull’errore delle religioni profane (De errore profanarum religionum), al momento in cui gli Sciti vengono nuovamente nominati, ancora una volta sono caratterizzati, tra l’altro, dalla mancanza di humanitas, questa volta espressa per mezzo dell’aggettivo inhumanus (15, 1): «estne aliquid aput Scythas humana ratione compositum et illa effera gens hominum et crudeli atque inhumana semper atrocitate grassata in constituendis religionibus rectum aliquid potuit invenire?».[34]

Ricapitolando: anche se il fr. 426 Cèbe del Prometheus di Varrone non contiene menzione esplicita dell’humanitas, esso permette di collocare la scena nella Scizia, così come accade all’inizio del Prometeo incatenato eschileo, dove viene anche sottolineata la philanthropía di Prometeo, punita proprio con la relegazione del titano in quel luogo così inospitale. Il fatto poi che testimonianze successive di Firmico Materno identifichino la Scizia come il luogo che per eccellenza si contrappone all’humanitas induce a ipotizzare che proprio Varrone con il suo Prometheus sia stato il possibile mediatore, colui cioè che per primo nel mondo romano ha stabilito la relazione Prometeo – (in)humanitas – Scizia, in cui risalta il fatto che Prometeo, in quanto portatore dell’humanitas agli uomini viene relegato, come per contrappasso, nel luogo al mondo che più si presenta refrattario a tale ideale.

Letto alla luce del discorso fin qui delineato, un secondo frammento del Prometheus, il 435 Cèbe, consente invece un confronto più ravvicinato con la specifica concezione varroniana di humanitas quale emerge dal passo del De lingua latina analizzato in precedenza. Il testo, ancora una volta molto breve, recita: «in tenebris ac suili vivunt, nisi non forum hara atque homines qui nunc plerique sues sunt existimandi».[35] Già il Glaucone della Repubblica platonica (372d) aveva rilevato come una città che si limita a soddisfare i beni primari non è che una ‘città di maiali’[36] e in effetti, come abbiamo visto sopra, a De lingua latina VIII, 31 Varrone precisa: «quod aliud homini, aliud humanitati satis est» (perché un conto è ciò che soddisfa l’uomo, un altro ciò che soddisfa l’humanitas). Una lettura comparata dei due passi varroniani mi sembra poter condurre alla seguente considerazione: l’humanitas è ciò che rende l’uomo degno di essere definito tale, ma, quando essa viene meno, l’uomo è ridotto alla condizione di un maiale. Dal frammento emerge però una critica all’uomo del presente, cioè alla società romana, per cui forse Varrone, come risulta in modo più evidente dall’opera ciceroniana, individua nell’humanitas, intesa come somma di cultura (paideía) e conseguente atteggiamento ben disposto verso il prossimo (philanthropía), una possibile soluzione per la ripresa sociale.

In conclusione, sebbene gli scarsi frammenti del Prometheus varroniano non permettano di giungere a certezze in tal senso, Prometeo, la cui presenza abbiamo visto essere ben attestata nei miti del progresso che conducono alla condizione di humanitas intesa come civilizzazione, potrebbe venire identificato da Varrone proprio come il fondatore mitico di questo ideale. La sua figura quale viene restituita alla cultura occidentale dal poligrafo di età tardo-repubblicana incarnerebbe insomma il processo individuato da W. Stroh per spiegare la polisemia del vocabolo latino humanitas:

 
Iam uidemus igitur ex aliqua parte quomodo illae duae notiones φιλανθρωπίας et παιδείας ortae interque se commixtae sint. Atque initio humanitas non est illa quidem, si stricte interpretamur, eadem atque φιλανθρωπία, i.e. amor hominum et mansuetudo, sed magis communis natura humana, quam cum homo in altero esse sentit, a crudelitate auocatur, ad mansuetudinem misericordiamque commouetur. Postea per metonymiam quandam nomen humanitatis ipsam uirtutem declarat, quae plerumque mansuetudo aut clementia est, interdum etiam urbanitas et facilitas morum. Sed quia illa urbanitas litteris potissimum augeatur, ipsae quoque litterae vel artes, quibus παιδεία constat, humanitatis nomine dici possunt.[37]
 

Prometeo è, fin dai tempi di Eschilo, il philánthropos per antonomasia, e ne dà dimostrazione consegnando agli uomini il fuoco, quindi la possibilità di accedere alla conoscenza delle arti e di pervenire così alla paideía. Questo nesso tra philanthropía e paideía resta tuttavia solo implicito in Eschilo e nel mondo greco, mentre i Romani chiuderanno il cerchio: se è in virtù della sua philanthropía che Prometeo dona la paideía agli uomini, quest’ultima, a sua volta, deve riconfluire nella philanthropía grazie alla quale ha potuto avere origine.

 

* La relazione da cui il presente contributo deriva è stata concepita in occasione della giornata di studi su Prometeo. Mito e intermedialità all’interno del progetto culturale di Facoltà “Convergenza e distanza” (Università della Svizzera italiana, Facoltà di comunicazione, cultura e società). A Marco Maggi e Maddalena Giovannelli va tutta la mia gratitudine per le fatiche profuse nel corso della durata dell’intero progetto. Mi fa poi piacere ringraziare Andrea Balbo, Elisa Della Calce, Federica Lazzerini e due anonimi revisori per i numerosi consigli ricevuti, che hanno contribuito non poco al miglioramento del contributo. Va da sé che qualunque errore o imprecisione è da imputare esclusivamente all’autore.

 

 

 


1 La prima formulazione della categoria dei miti del progresso, in opposizione a quelli dell’età dell’oro, si deve a L. Preller, ‘Die vorstellungen der alten, besonders der Griechen, von dem ursprunge und den ältesten schicksalen des menschlichen geschlechts’, Philologus, 7, 1852, pp. 1-60.

2 Sul ruolo di Prometeo nei miti del progresso, a partire da Esiodo, cfr. anche L. Preller, ‘Die vorstellungen der alten, besonders der Griechen, von dem ursprunge und den ältesten schicksalen des menschlichen geschlechts’, pp. 49-60; A. Grilli, ‘La posizione di Aristotele Epicuro e Posidonio nei confronti della storia della civiltà’, Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 86, 1953, pp.3-44, p. 33; L. Edelstein, The Idea of Progress in Classical Antiquity, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1967, pp. 7, 44, 61, 65-66; R. Müller, Die Entdeckung der Kultur: antike Theorien über Ursprung und Entwicklung der Kultur von Homer bis Seneca, Düsseldorf, 2003, pp. 110-123; J. Scherr, Die Zivilisierung der Barbaren. Einse Diskursgeschichte von Cicero bis Cassius Dio, Berlin/Boston 2023, p. 40.

3 Per il lessico relativo invece alla nozione di progresso e non del suo risultato cfr. soprattutto L. Edelstein, The Idea of Progress in Classical Antiquity, pp. 92, 146-147. Va sottolineato come invece il vocabolo humanitas compaia sovente in versioni latine del mito del progresso: cfr. ad esempio Cic. De orat. I ,32-33; Sest. 90-92; Vitr. II, praef.; II, 1, 7; Tac. Agr. 21.

4 Cfr. C. Moro, ‘Le nobili spoglie di un mito: Prometeo nella poesia latina da Cicerone a Claudiano’, Aevum Antiquum, N.S. 12-13, 2012-2013, pp. 141-215, p. 141; M. P. Pattoni, ‘Manipolazioni di un mito: Prometeo tra antichi e moderni’, Rhesis, Linguistics and Philology, 11.1, 2020, pp. 134-153, p. 148. Cfr. anche A. Balbo, ‘Christopher Nolan, Prometeo e la vecchietta: divagazioni tra Oppenheimer, la Rhetorica ad Herennium, Leopardi e Pirandello’, ClassicoContemporaneo (Presenze classiche), 9, 2023, pp. 47-53.

5 Testo latino tratto da L. Holford-Strevens (ed.), Auli Gelli Noctes Atticae, Oxford/New York, Oxford University Press, 2020; traduzione mia.

6 Per uno stato dell’arte con bibliografia aggiornata rinvio a S. Mollea, Humanitas in the Imperial Age. From Pliny the Younger to Symmachus, Berlin/Boston, Walter de Gruyter, cds. 2024. Tra i contributi più recenti sull’humanitas, non soltanto in relazione al contributo gelliano, mi limito a citare M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Torino, Einaudi, 2019, pp. 92-102; F. Boldrer,L’humanitas nella letteratura latina arcaica: le interpretazioni nell’epica e nella commedia e il giudizio di Gellio’, in M. Bambozzi (a cura di), Paradigmi d’identità. Tradurre e interpretare i classici, Ancona, affinità elettive, pp. 53-76; M. Elice, ‘Per la storia di humanitas nella letteratura latina fino alla prima età imperiale’, Incontri di Filologia Classica, 15 (2015–2016), 2017, pp. 253-295; C. Høgel, The Human and the Humane. Humanity as Argument from Cicero to Erasmus, Göttingen/Taipei, V&R unipress/ National Taiwan University Press, 2015; R. Toledo Martin, ‘Lucubrationes Gellianae, sive quem in modum Gellius usus sit vocabulo quod est humanitas et quantum intersit inter eius usum et eius definitionem’, in A. M. Martín Rodríguez (ed.), Linguisticae Dissertationes. Current Perspectives on Latin Grammar, Lexicon and Pragmatics. Selected Papers from the 20th International Colloquium on Latin Linguistics (Las Palmas de Gran Canaria, Spain, June 17–21, 2019), Madrid, Ediciones Clásicas, 2021, pp. 161-170. Sul passo gelliano in questione ancora fondamentale R. A. Kaster, ‘Humanitas and Roman Education’, Storia della storiografia, 9, 1986, pp. 5-15.

7Anche nel caso dell’humanitas in Cicerone la bibliografia è notevole: rinvio pertanto a quella raccolta in S. Mollea, ‘Humanitas dei giudici, colpevolezza dell’imputato in alcune orazioni ciceroniane?’, in A. Balbo (a cura di), Atti del Convegno dell’Università di Torino, 22-23 novembre 2021 Da Cicerone al Digesto: interazioni fra oratoria giudiziaria, retorica e diritto tra l'età repubblicana e imperiale, Ciceroniana Online, VI, 2, 2022, pp. 233-257; E. Della Calce, S. Mollea, ‘Per uno stato modello: odium regni e humanitas nel De republica ciceroniano’, in F. Alesse, L. Giovannetti (a cura di), Le metamorfosi dell’odio. Percorso interdisciplinare tra storia, filosofia, letteratura, Torino, Rosenberg&Sellier, 2023, pp. 123-143.

8 Testo latino tratto da T. Reinhardt (ed.), M. Tulli Ciceronis Academicus Primus – Fragmenta et testimonia Academicorum librorum – Lucullus, Oxford, Oxford University Press, 2023; traduzione mia.

9 “Mancipia esse oportere neque formidulosa neque animosa. Qui praesint esse oportere, qui litteris atque aliqua sint humanitate imbuti, frugi, aetate maiore quam operarios, quos dixi”, “È opportuno che gli schiavi non siano timorosi né troppo coraggiosi. E coloro che li comandano è opportuno che abbiano almeno un’infarinatura nelle lettere e siano un minimo colti, e moderati e più vecchi dei lavoratori di cui parlavo”, traduzione mia. Cfr. I. Leonardis, ‘L’Humanitas, secondo Varrone. La memoria della stirpe umana’, Athenaeum, 106, 2, pp. 516-532, p. 527.

10 Testo latino tratto da W. D. C. De Melo (ed.), Varro: De lingua Latina. Volume I. Introduction, Text, and Translation, Oxford, Oxford University Press, 2019.; traduzione tratta da A. Traglia, Marco Terenzio Varrone. Opere, Torino, Utet, 1974, con modifiche.

11 I. Leonardis, ‘L’Humanitas, secondo Varrone. La memoria della stirpe umana’, p. 526.

12 Cfr. e.g. le celeberrime occorrenze di Cic. De orat. III, 127; Archia 4; Sen. Ep. 88, 30; Tac. Agr. 21, per cui si rinvia ancora a S. Mollea, Humanitas in the Imperial Age. From Pliny the Younger to Symmachus, passim per ulteriori approfondimenti. Sulle arti liberali in Cicerone cfr. K.Tempest, ‘Cicero’s Artes Liberales and the Liberal Arts’, Ciceroniana Online, 4, 2, 2020, 479-500.

13 Testo greco tratto da M. L. West (ed.), [Aeschyli] Prometheus, Stuttgart, Teubner, 1992; traduzione italiana tratta da F. Condello (a cura di), Prometeo. Variazioni sul mito, Milano, Marsilio, 2022.

14 Cf. M. P. Pattoni, ‘Manipolazioni di un mito: Prometeo tra antichi e moderni’, pp. 139-141. Sull’opposizione tra uomini e dei in questi versi iniziali cfr. anche Cf. D. J. Conacher, Aeschylus’ Prometheus Bound. A Literary Commentary,Toronto/Buffalo/London, University of Toronto Press, 1980, p. 33; M. Griffith, Aeschylus. Prometheus Bound, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 84.

15 J. de Romilly, La douceur dans la pensée grecque, Paris, Les Belles Lettres, 2011 [I ed. 1979], p. 45.

16 «Ma ora Socrate – disse – ascolterai anche la φιλανθρωπία di quest’arte», traduzione mia.

17 Sul ruolo centrale dell’agricoltura nei miti del progresso cfr. ad esempio L. Edelstein, The Idea of Progress in Classical Antiquity, p. 44; R. Müller, Die Entdeckung der Kultur: antike Theorien über Ursprung und Entwicklung der Kultur von Homer bis Seneca, passim.

18 R. Viccei, ‘Fuoco e fango. Il mito di Prometeo nella documentazione archeologica greca e romana’, Aevum Antiquum, N.S. 12-13, 2012-2013, pp. 217-272.

19 Per questa differenza interpretativa cfr. da un lato il pionieristico J. D. Beazley, ‘Prometheus fire-lighter’, American Journal of Archaeology 43, 2, 1939, pp. 618-639, seguito da R. Viccei, ‘Fuoco e fango. Il mito di Prometeo nella documentazione archeologica greca e romana’, pp. 225-245 e, dall’altro, P. Cipolla, ‘Il Prometeo satiresco di Eschilo: Pyrkaeus o Pyrphoros?’, Aevum Antiquum, N.S. 12-13, 2012-2013, pp. 83-112, p. 98.

20 Cfr. la bibliografia raccolta da P. Cipolla, ‘Il Prometeo satiresco di Eschilo: Pyrkaeus o Pyrphoros?’, p. 98 n. 67.

21 Cfr. nello specifico S. Mollea, ‘Aulus Gellius’ definition of humanitas, Aelius Aristides and Willem Canter’, in A. F. Araújo, C. Martins, H. M. Carvalho, J. P. Serra e J. Magalhães (a cura di), Paideia & Humanitas. Formar e educar ontem e hoje, Ribeirão, Húmus, pp. 147-156.

22 Testo tratto da D. R. Shackleton Bailey (ed.), Cicero. Epistulae ad Quintum Fratrem et M. Brutum, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; traduzione mia.

23 «Sono presenti degli Ateniesi, da cui si ritiene che l’humanitas, la cultura, la religione, l’agricoltura, il diritto e le leggi siano nate e poi state distribuite in tutte le terre», traduzione mia. Cfr. anche Plinio il Giovane, Epistula 8, 24, 2. Per approfondimenti si rinvia a S. Mollea, Humanitas in the Imperial Age. From Pliny the Younger to Symmachus, passim.

24 Per uno status quaestionis cfr. J.-P. Cèbe, Varron, Satires Ménippées. Édition, traduction et commentaire, 11, Prometheus liber - Sesqueulixes, Rome, École française de Rome, 1996, pp. 1766-1767.

25 J.-P. Cèbe, Varron, Satires Ménippées. Édition, traduction et commentaire, 11, Prometheus liber - Sesqueulixes, p. 1767.

26 «Nessun mortale mi ascolta, ma il deserto inospitale che occupa a perdita d’occhio i campi della Scizia», traduzione mia.

27 E. Biondi, Erodoto e gli Sciti. Schiavitù, nomadismo e forme di dipendenza, Besançon, Presses Universitaires de Franche-Comté, 2020, p. 16.

28 Cfr. J. W. Johnson, ‘The Scythian: His Rise and Fall’, Journal of the History of Ideas 20, 2, 1959, pp. 250-257.

29 Per un regesto delle testimonianze legate agli Sciti nella letteratura latina cfr. A. Gerstacker, A. Kuhnert, F. Oldemeier, N. Quenouille (a cura di), Skythen in der lateinischen Literatur, Berlin/München/Boston, Walter de Gruyter, 2015.

30 Testo latino tratto da C. Mayhoff (ed.), C. Plini Secundi Naturalis Historiae libri XXXVII. voll. I-V, Stuttgart, Teubner, 19672; traduzione mia.

31 Testo latino tratto da M. Winterbottom (ed.), M. Tulli Ciceronis De officiis, Oxford, Oxford University Press, 1994; traduzione mia.

32 Per approfondimenti sul rapporto tra humanitas e inmanitas cfr. S. Mollea, Humanitas in the Imperial Age. From Pliny the Younger to Symmachus.

33 «Anche la sfrenata ferocia degli Sciti è placata da una qualsiasi clemenza di humanitas», traduzione mia.

34 «C’è qualcosa presso gli Sciti di plasmato dalla ragione umana? E quel popolo selvaggio di uomini che infuria guidato sempre da un’efferatezza crudele e disumana poté trovare qualcosa di giusto nel fissare i suoi riti religiosi?», traduzione mia. Per una più ampia panoramica sull’humanitas in Firmico Materno cfr. S. Mollea, Humanitas in the Imperial Age. From Pliny the Younger to Symmachus. Per il rapporto tra il sostantivo humanitas e l’aggettivo humanus (e inhumanus) cfr. nello specifico S. Mollea, ‘Did Fully Fledged humanitas Exist before the Ciceronian Age? A Study on the Relation between humanus, its Comparative and Superlative, and the Noun humanitas’, Mnemosyne, online, 2023, pp. 1-21.

35 «Vivono nelle tenebre e in un porcile, a meno che il foro non sia un porcile e i più tra gli uomini di oggi debbano essere considerati dei maiali», traduzione mia.

36 Cfr. G. Zago, Sapienza filosofica e cultura materiale. Posidonio e le altre fonti dell’Epistola 90 di Seneca, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 153 e n. 27. Sul platonismo di Varrone cfr. D. Gattafoni, Varrone accademico e menippeo, Milano, Prometheus, 2021.

37 W. Stroh, ‘De origine uocum humanitatis et humanismi’, Gymnasium, 115, 6, 2008, pp. 535-571, pp. 551-552.