3.3. Il mito del fuoco. Media elementali e modernizzazione italiana

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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L’articolo esplora il ruolo del fuoco come elemento visivo fondamentale per la costruzione di una mitologia dello sviluppo industriale nella cultura visuale dell’Italia del ‘miracolo economico’. Attraverso le sue diverse rappresentazioni si configura infatti un’immagine stabile che sintetizza l’idea di progresso del tempo: la ciminiera che svetta contro il cielo azzurro con una fiamma alla sua sommità, che diventa una vera e propria icona di questo periodo. Partendo dai lavori della Panaria Film realizzati nell’immediato secondo dopoguerra, dove il fuoco è incluso dentro un tempo arcaico e mitico prima di Prometeo, il saggio affronta le trasformazioni di questa icona in alcuni casi di studio esemplari che riguardano sia il nord sia il sud Italia, per analizzare infine alcuni esempi che propongono invece una lettura critica del mito del progresso industriale attraverso un lavoro di decostruzione iconografica del fuoco. Con questo percorso il saggio intende mostrare la rilevanza di una prospettiva elementale per sviluppare un’analisi storico-culturale nella cornice della nuova teoria dei media. 

This paper explores the role of fire as a fundamental visual element for the construction of a mythology of industrial development in the Italian visual culture of the ‘economic miracle’. In fact, through its different representations a stable image is configured that summarizes the idea of progress of the time: the chimney standing out against the blue sky with a red flame at its top, which becomes an icon of this period. Starting from the works of Panaria Film produced immediately after the Second World War, where fire is included in an archaic and mythical time before Prometheus, the essay addresses the transformations of this icon in some exemplary case studies that concern both Northern and Southern Italy, to finally analyse some examples that propose a critical reading of the myth of industrial progress through the iconographic deconstruction of fire. Through these stages, the essay aims to show the relevance of an elemental perspective to develop a historical-cultural analysis in the framework of the new media theory.

3.3. Il mito del fuoco. Media elementali e modernizzazione italiana

di Giacomo Tagliani

Immersa in un paesaggio fuori dal tempo, una ragazza si incammina sulla battigia con un pentolino di coccio e un paio d’uova. Inginocchiatasi in riva al mare, appoggia il tegame sulla sabbia tra i fumi sulfurei che sgorgano dal sottosuolo per cucinarsi un pranzo frugale [fig. 1]. Una languida melodia d’archi lascia improvvisamente il posto all’allegro fraseggio di un flauto suonato da un giovane pastore che ha abbandonato il gregge attratto dalla ragazza. La voce fuori campo, piuttosto parsimoniosa nel concedersi, commenta ora compiaciuta: «Sulla petraia che ribolle e si scuote ardente, terra impastata di fuoco, tra le gialle rovine di montagne esplose, nascono fauneschi amori. È un mondo umano e mitico assieme». La scena è un momento cruciale di Isole di cenere (1947), uno dei cortometraggi prodotti dalla Panaria Film del Principe Francesco Alliata di Villafranca che ritraggono le Isole Eolie nell’immediato secondo dopoguerra: dopo aver mostrato le difficili – ma tutto sommato felici – condizioni sull’isola di Vulcano, questo amore pronto a sbocciare è infatti interrotto dal risveglio dello Stromboli, «furibonda e fiammeggiante montagna», che ricorda come la vita, in questo lembo del Tirreno, sia sempre contigua alla morte.

I film della Panaria non sono certo un caso isolato nel panorama documentaristico italiano per quanto riguarda il racconto di un’Italia dove l’arcaicità sopravvive a fianco del desiderio di modernità, ma qui il richiamo alla dimensione mitologica – anche in termini ironici e caricaturali – ha un peso decisivo nel rappresentare un mondo originario nel cuore del Ventesimo Secolo, anche perché è la Sicilia stessa a riattivare il «tempo divino» dei propri vulcani «nel pieno dell’epoca contemporanea» (Di Girolamo, Rimini 2023, p. 89). Effettivamente, la realtà di cui fa esperienza l’anonima protagonista della storia si riduce a pochi tratti essenziali, il padre, l’umile casa, un solo possibile amore, sino alla scena descritta inizialmente, nella quale il mondo si riduce ai quattro elementi fondamentali: acqua, terra, aria, fuoco. Un fuoco, però, non ancora addomesticato, espressione di una condizione pre-prometeica che la nuova epica della nascente modernità industriale stava per spazzare via, mostrando come sia proprio la sottomissione della materia al volere umano a costituire uno degli aspetti fondamentali di quell’ingente coacervo di trasformazioni sociali e culturali meglio conosciuto come ‘Miracolo economico’ (Palmieri 2019, pp. 120-123). Di fatto, una nuova origine dell’umanità, pienamente conforme alla retorica dello sviluppo, che necessita di mitologie adeguate per poter essere inquadrata dentro schemi di senso comprensibili e condivisi.

Già i primi racconti della nuova epopea energetica innescata dal ritrovamento di giacimenti di idrocarburi nella Pianura padana celebrano la ‘riscoperta del fuoco’ come l’aspetto più rilevante per il futuro progresso italiano. 3000 metri sotto il suolo (Briani, 1950) descrive l’inizio dei lavori di estrazione del metano, seguendo poi il processo di infrastrutturazione che conduce infine dentro i centri della produzione industriale. Assecondando questo sviluppo logico, il finale del cortometraggio è interamente occupato dal fuoco, finalmente domato dall’ingegno umano grazie all’aiuto di questo gas, la cui «fiamma sottile rende vividi i metalli e dà alle braccia dell’uomo la forza di plasmare la natura». Fornaci infuocate [fig. 2] ed esili fiammelle [fig. 3] palesano un doppio orizzonte di riferimento: la potenza stordente della fucina di Efesto e la magia ammaliante della fantasmagoria, riunite entrambe nella congiunzione tra mito e sovrannaturale sotto il pieno controllo umano.

Una volta profanato il fuoco, restituito cioè «all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro» (Agamben 2005, p. 108), anche l’interazione con il mondo materiale circostante passa sotto il segno della disponibilità illimitata. Cuocere un uovo al tegamino in mezzo ai campi non è più espressione dell’ignoranza originaria, ma il sintomo di una scienza che disvela i segreti del cosmo e amplia infinitamente lo spettro della conoscenza umana [fig. 4]: ora «La fiammella da campo è gentilmente offerta dal sottosuolo, gaio compagno della scampagnata», commenta divertito il narratore di Prigionieri del sottosuolo (Magnaghi, 1956), ricordandoci che se fino al decennio precedente la natura era ancora matrigna, oggi è decisamente amica.

Se il fuoco è indiscutibilmente l’elemento protagonista della trasformazione in corso, diventa necessario dotarlo di una configurazione visiva stabile e coerente con il momento storico, di un ritratto riconoscibile seppur in fogge contemporanee. Nasce così l’inconfondibile icona del paesaggio della modernizzazione italiana: la ciminiera ardente che si staglia nel cielo azzurro interrompendo con la sua verticalità il tradizionale andamento orizzontale dello sguardo che abbraccia il territorio (Tagliani 2021, pp. 24-27). Come molti dei predecessori, Miracolo a Ferrara (Blasetti, 1955) pone la dimensione elementale a fulcro del discorso sviluppato dal narratore («aria, fuoco e acqua: ecco i tre elementi che alimentano misteriosamente la produzione di materie nuove e diverse»), ma assegna a livello visivo una preminenza decisiva al fuoco. Il film di Blasetti è probabilmente il punto d’origine che radica quest’immagine nell’immaginario italiano, ripresa dapprima in campo lungo, esile stelo sovrastato da una rubizza chioma fiammeggiante [fig. 5], poi nel finale in un piano più ravvicinato, dove la fiamma occupa la quasi totalità dell’inquadratura.

Un’immagine che diventa quasi un cliché, che dal Delta del Po si espande a tutta la penisola, sino ad arrivare in Sicilia, ricongiungendo idealmente il mito classico e quello industriale. Il grande paese d’acciaio (Olmi, 1960) ne fa ad esempio l’apice della conclusione del racconto della costruzione del petrolchimico di Augusta, ricorrendo a un rapido zoom in che non serve solo a unire i due piani che in Blasetti erano ancora disgiunti [fig. 6], ma anche a sottolineare la dimensione cognitiva della prossimità al fuoco, ora sotto il pieno controllo della tecnica contemporanea ma ancora inavvicinabile fisicamente (del resto, Icaro insegna).

La storia della modernità italiana è però anche attraversata da una linea che prova a decostruire i nascenti immaginari. Non deve stupire che l’icona del progresso industriale compaia allora in apertura e in chiusura di Deserto rosso (Antonioni, 1964) [fig. 7], o di Brindisi ’65 (Mangini, 1965), due film molto diversi tra loro ma accomunati dal desiderio di produrre una contro-narrazione dell’epica del ‘miracolo’ di quegli anni, tanto al nord quanto al sud.

Ma è in Gela antica e nuova (Ferrara, 1964) che il fuoco diventa fattore chiave di comparazione delle diverse mitologie implicate nel racconto della modernità italiana. A metà circa del documentario, il fuoco assume infatti forma duplice, in corrispondenza del regime di storicità nel quale viene inscritto e che corrisponde alle diverse stratigrafie della città siciliana. Da un lato, nelle gesta dei fabbri che forgiano i mozzi di metallo con un camino alimentato manualmente ritorna la figura mitica di Vulcano [fig. 8]: è il tradizionale lavoro artigianale della vecchia Gela, dove «si fabbricano ancora i viridi e cigolanti carretti, istoriati con le gesta di San Giorgio e di Orlando, di Napoleone e di Garibaldi» e che – prosegue il commento scritto da Leonardo Sciascia – «sembrano lontani e irreali come i miti che le loro fiancate dipinte raccontano». Dall’altro, negli stravolgimenti che stanno attraversando la piana dell’antica città greca, il fuoco diventa fiamma ossidrica, configurandosi come immagine futuribile che determina gli stravolgimenti del paesaggio descritti in termini profondamente malinconici dallo scrittore di Racalmuto. Alla metà degli anni Sessanta, quel paesaggio che affonda le radici nel mito classico, cantato negli anni Trenta da Salvatore Quasimodo (con i cui versi il film si apre) e ancora messo liricamente in scena da Vittorio De Seta solo pochi anni prima, è destinato a scomparire per sempre.

La storia del processo di modernizzazione italiana è composta da diversi fattori, spesso contraddittori e di fatto in larga parte non conclusi, come la storiografia ha ampiamente messo in rilievo (Crainz 2005). Eppure, il carattere materiale o – meglio ancora – elementale di questo processo è ancora poco o nulla esplorato, benché come visto sia proprio tale elementalità ad assumere un risalto decisivo nelle immagini del tempo. Solo recentemente la dimensione elementale è stata ricondotta dentro l’alveo della teoria dei media, per mostrarne le dirette implicazioni sulle forme dell’esperienza della realtà da parte dei soggetti. John Durham Peters ha evidenziato come i media siano «dispositivi di ordinamento della civilizzazione» (2015, p. 5, traduzione mia) e che dunque la teoria dei media si debba occupare «tanto di ambienti e infrastrutture quanto di messaggi e contenuto» (Ivi, p. 4, traduzione mia). Ma questi ambienti sono di per sé (anche) materiali e dunque media sono potenzialmente anche quegli elementi e sostanze che li compongono; e, tra tutti, «il fuoco è il nostro modellatore ambientale più radicale, il nostro principale strumento di conversione dell’habitat e uno dei nostri media elementali più importanti» (ivi, p. 115, traduzione mia).

La (ri)scoperta del fuoco, nell’Italia del secondo dopoguerra, diventa così il mito fondativo sul quale costruire una narrazione capace di dare senso alla rapida trasformazione dell’esperienza che stava attraversando quegli anni ‘miracolosi’: trasformazione dettata dal repentino cambiamento dell’immagine del paesaggio e dalla subitanea irruzione nel quotidiano di sostanze e materiali – e dei rispettivi nomi – prima sconosciuti, su tutti gli idrocarburi (Pinkus 2020). Dapprima protagonista della narrazione, poi codificato in un ritratto riconoscibile, il fuoco passa da forza distruttrice e ingovernabile a docile alleato che rende viva la materia del mondo. Simbolo del boom, icona di progresso e benessere, la fiamma che svetta del cielo sembra destinata a non spegnersi mai, nemmeno sotto una cascata d’acqua, come quella caduta nella Valle del Vajont in una sera d’ottobre del 1963, che pure avrebbe dovuto raffreddare i bollenti entusiasmi suscitati da questa metamorfosi radicale tuttora da comprendere in tutte le sue sfaccettature.

 

Bibliografia

G. Agamben, Profanazioni, Roma, Nottetempo, 2005.

G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma-Bari, Laterza, 2005.

L. Di Girolamo, S. Rimini, ‘“Secondo la leggenda…” Mito e paesaggio nel cinema di Ugo Saitta’, in R. De Gaetano, D. Dottorini, N. Tucci, (a cura di), Il paesaggio degli autori. Cinema e immaginario meridiano, Cosenza, Pellegrini, 2023, pp. 83-91.

M. Palmieri, Profondo Sud. Storia, documentario e Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 2019.

J.D. Peters, The Marvelous Cloud: Toward a Philosophy of Elemental Media, Chicago, University of Chicago Press, 2015.

K. Pinkus, Carburanti. Dizionario per un pianeta in crisi, Verona, ombre corte, 2020.

G. Tagliani, ‘Storia di due alberi. Il tecnopaesaggio meridiano nei film industriali del miracolo economico’, Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, XV, n. 45 “Paesaggio”, 2021, pp. 21-33.