Rosso Almodóvar

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L’immagine che costituisce il manifesto di Julieta, ultimo film di Almodóvar, riprende una inquadratura che nel film ha un ruolo molto importante. Siamo a uno snodo della vita tragica della protagonista, che viene accudita dalla figlia Antìa e dall’amica di lei Beatriz: le ragazze la fanno alzare dalla vasca da bagno, dove Julieta si trova catatonica, quasi priva di sensi, e Antìa la asciuga sfregandole con energia un asciugamano sul corpo, mentre con un secondo asciugamano le copre la testa e le asciuga i capelli, per non farle prendere freddo. Quando l’asciugamano viene sollevato e vediamo finalmente la faccia di Julieta, ci rendiamo conto che la donna è improvvisamente invecchiata: la giovane Adriana Ugarte viene sostituita dalla matura Emma Suàrez. Questa è l’inquadratura del manifesto: il volto della Julieta matura, con gli occhi persi, i capelli incollati a ciocche, e sopra di lei non la figlia Antìa ma il suo doppio giovane. Entrambe hanno gli occhi fissi, e la differenza è data soprattutto dallo sguardo e dai capelli, che fanno della donna in alto una figura viva, mentre quella in basso sembra uscire dalle tenebre, spettinata e bagnata come qualcuno che ha attraversato una caverna sottomarina. L’asciugamano che fa da sfondo al suo viso le conferisce uno statuto di sacralità: il volto sembra un simulacro di volto, una ‘veronica’ che compare davanti agli occhi dello spettatore evocando la traccia lasciata dal Cristo sul lenzuolo che ne asciuga la sofferenza.

In questa scena è assente il colore che domina tutto il racconto, il rosso vivo con cui il film si apre. L’asciugamano che Antía usa è di un color marrone bruciato, come se si trattasse non di sangue fresco ma di sangue rappreso. Lo sguardo morto di Julieta costituisce il centro visivo dell’immagine. Lo sguardo di una donna che ha perso ogni contatto con la vita, mentre la se stessa più giovane compie un gesto di ostensione che equivale alla rivelazione di un segreto. Sono due facce dello stesso personaggio, due volti femminili che rappresentano le due fasi della sua vita, tra le quali si insinua il salto dell’esperienza tragica. Potrebbe trattarsi di un’allusione sotterranea all’antichissimo mito di Demetra, madre disperata perché le è stata rapita la figlia Proserpina, vittima di una violenza sessuale da parte del dio degli inferi che la porta con sé e la sottrae all’amore materno. L’asciugamano-veronica distingue e unisce le due fasi, scandisce i due momenti del dolore, e chiude la vita di Julieta dentro la gabbia di un tempo circolare, simile al tempo del mito.

Mito e tragedia sono i due poli dentro i quali viene inquadrata dal regista la vicenda del racconto. Forse Almodóvar è l’unico artista europeo che può permettersi ancora un rimando così esplicito e diretto alle origini della concezione occidentale del destino. Julieta, insegnante di lettere classiche, conosce il suo futuro marito mentre ha in mano un volume di Albin Lesky sulla tragedia greca. E sembra discendere direttamente dalla concezione classica l’idea di una colpevolezza individuale capace di trasmettersi da un individuo all’altro, per una specie di contagio. L’origine della colpa è presente nella vita di Julieta nel momento in cui si verifica una doppia apparizione, sul treno fatale: il cervo che compare oltre i finestrini e sembra voler buttarsi sulle rotaie, e l’uomo dagli occhiali e dal maglione nero che decide di suicidarsi, dopo aver tentato di comunicare con lei. Lo spavento di Julieta di fronte a entrambi è uno spavento mitico, sacro, ancestrale, privo di vere giustificazioni. Il cervo e l’uomo rappresentano il doppio aspetto con cui una forza sconosciuta, fatta di attrazione e repulsione, segna la vita della donna. Non a caso lo spavento è correlato all’incontro con il marinaio Xoan, che diventerà suo marito e il padre di sua figlia Antía. E proprio su quel treno, dopo la morte dell’uomo, Julieta trascorre una notte d’amore con Xoan, esattamente come sarà a casa del marinaio, la notte stessa della morte della moglie di lui, che si svolge una seconda scena erotica. L’erotismo segna la vitalità della prima parte del film esattamente come il lutto e il dolore ne tinge la seconda parte. Ma forze mitiche sovraintendono all’incontro e alla avventura dei due amanti. Julieta spiega ai suoi allievi il valore delle parole greche che indicano il mare, e si ferma su quella che è più connessa ai viaggi di Ulisse, cioè pòntos, il mare come lontananza dalla terra, come spazio dell’avventura e del rischio. Il fatto che venga esplicitamente richiamato l’episodio dell’amore tra Ulisse e Calipso non è privo di valore, anche se i ruoli non sono espliciti. Julieta arriva a casa di Xoan come un Ulisse donna che cerca rifugio, e si impossessa della casa affacciata sul mare, con le decorazioni di conchiglie, diventando una Calipso possessiva e gelosa. Xoan è un Ulisse indebolito, fragile, incapace di dominare con l’astuzia una divinità potente come Julieta, la cui forza negativa viene subito percepita dalla domestica Marian, colei che sente l’odore della morte e del dolore molto prima di tutti, colei che controlla la vita del marinaio e che non vuole lasciarselo sfuggire. Questa domestica, impersonata da Rossy de Palma, è il personaggio che ricollega il film all’origine melodrammatica dell’opera di Almodóvar, ma qui ancora una volta l’elemento melodrammatico viene evocato per essere sovrastato dal tragico, dal momento che Marian è una veggente che sembra conoscere fin dall’inizio ogni sviluppo futuro: sarà lei, infatti, a rivelare a Antía la verità su cosa è successo il giorno in cui Xoan ha deciso di andare in mare malgrado la tempesta. Almodóvar usa questo espediente drammaturgico, molto debole, per giustificare la rabbia covata da Antía contro la madre, per tutti gli anni in cui la figlia adolescente sembra invece accudirla con amore fino a consentirle di uscire dal lutto per la perdita di Xoan.

Anche in questo caso, sono le donne a tenere in mano i fili del destino, come sempre in Almodóvar. Gli uomini possono fiancheggiarle o al massimo condurle con dedizione verso la mèta, come fa Lorenzo Gentile, il secondo uomo di Julieta.

Tutto dipende da una mano femminile: la mano di Julieta che scrive la propria storia, la mano di Antía che solleva la veronica materna, la mano della scultrice Ava, colei che scolpisce figure primordiali, corpi formati dalla terra e dal fuoco. Ava, un’altro personaggio che sembra inserito come tassello drammaturgico, è la causa del litigio tra Julieta e Xoan nel giorno in cui lui perde la vita in mare. In realtà Ava, legata alla creazione artistica e alla materia, è lei stessa incarnazione di un’altra presenza mitica, di nuovo connessa alla capacità femminile di creare e noi la vediamo più volte chiusa nel suo laboratorio, con sullo sfondo strumenti da meccanico che rimandano al mondo dell’agire maschile. È lei che scolpisce statue maschili dalle fattezze arcaiche, cicladiche, piccole ma pesantissime: come spiega a Julieta, non devono essere sollevate dal vento ma restare ferme e salde a terra (sono le donne a conferire stabilità all’uomo). La statua dell’uomo seduto, monco di gambe a braccia, che domina nelle due case di Julieta, rimanda esplicitamente al corpo mutilato del marinaio Jean, e accompagna la donna per ricordarle senza sosta la colpa della morte del marito. Le inquadrature che Almodóvar dedica a questa piccola scultura primitiva entrano in consonanza con quelle dedicate al corpo nudo del marinaio: si crea tra la statua e il corpo maschile un rapporto simile a quello che nel film precedente, La piel que habito, Almodóvar instaura tra le sculture di Luise Bourgeois e il corpo transgender. In entrambi i casi il mondo dell’arte (che acquista in questi film una presenza sempre maggiore) definisce una condizione estetica alla quale gli esseri viventi sembrano doversi adattare. Ma in entrambi i casi si tratta di mani femminili che ricreano, con tecniche diverse, i corpi degli uomini. La scultura in questione è opera dell’artista spagnolo Miquel Navarro, e fa parte della collezione privata del regista che, come accade spesso, presta ai suoi personaggi qualcosa di intimamente suo (lo stesso avviene per il ritratto di Lucien Freud che compare mentre Julieta cerca di recuperare una busta azzurra dal cestino dove la ha buttata). Nella Piel que habito il corpo viene modificato addirittura nel genere sessuale, dal momento che Vicente viene sottoposto a un intervento chirurgico che lo trasforma in Vera. In Julieta, la scultrice Ava, capace di creare statue maschili da materie semplici, è la trasposizione di una divinità femminile che tiene nelle mani il destino dell’uomo. Non a caso, Almodóvar le prospetta una fine simile a quello che abbiamo visto in altri film, cioè la morte dolorosa in una camera d’ospedale, dove viene amorevolmente accudita da Julieta. In questo momento, Ava regala a Julieta la statuetta dell’uomo seduto, con le gambe larghe e il sesso prominente, una allusione a Xoan e alla sua virilità distrutta. Ancora una volta, la complicità femminile e il reciproco aiuto prescindono dalla presenza degli uomini: in questa camera di ospedale, Ava rivela a Julieta che Antía conosce bene le ragioni della morte del padre, dal momento che è stata proprio Marian a raccontarle tutto, quando si sono incontrate per l’ultima volta. Scopriamo così, come una rivelazione improvvisa, che i lunghi anni di amore e di accudimento prodigati da Antía alla madre nascondono il segreto di una rabbia trattenuta, di una vendetta che Antía realizza solo in prossimità del suo diciottesimo compleanno, quando abbandona la madre con la scusa di un ritiro spirituale e decide poi di non vederla più.

Per Almodóvar, la storia di Julieta è un esempio di tragico moderno, quel tragico che in lui oggi è finalmente l’elemento capace di mitigare e smorzare l’espressività esasperata della forma melodrammatica, presente sempre nel cinema di Almodóvar ma ormai in deciso calo rispetto alla prima fase della sua opera. L’esibizione melodrammatica, il ricorso a sentimenti a volte esasperati come frutto di situazioni artificiose hanno definitivamente lasciato il posto a una forma di tragico che elabora la presenza della morte e dell’assenza che segna gli individui attraverso il lutto e le lacrime. Le lacrime assumono, nel film, lo statuto dell’abulia catatonica (un’abulia a volte quasi fastidiosa), lo statuto di chi subisce un trauma e non può ritornare alla condizione di normalità. La condizione disperata di Julieta, che cammina come una sonnambula per le strade di Madrid, è direttamente connessa con la condizione di demenza della madre di lei. In un certo senso, dopo Todo sobre mi madre e Volver, questo è il terzo film di una trilogia materna dove Almodóvar esplora con insistenza non solo i legami femminili ma in particolare l’elemento centrale del mondo femminile, cioè la maternità. La scena in cui madre e figlia dormono insieme, nella casa di campagna dove il padre si è trasferito con la moglie malata, è quasi un topos del cinema di Almodóvar: una madre e una figlia che si trovano in una condizione di comprensione assoluta, una comprensione affettiva e senza bisogno di razionalità, in un abbraccio psichico che esclude qualsiasi presenza maschile (al di là del fatto che c’è l’occhio di un uomo dietro la macchina da presa). Se in Volver assistiamo alla comunicazione quasi metapsichica tra la figlia Raimunda e la madre Irene che tutti pensano morta ma non lo è (entrambe legate dalla vendetta che hanno compiuto su mariti violenti e incestuosi), Julieta e la madre sono vicine proprio nel momento in cui sembra impossibile il dialogo, e la madre ormai indementita non riconosce la figlia che le ha portato la nipotina. Ma per Almodóvar è all’interno di questa impossibilità di comunicare che si apre lo spiraglio dell’affetto più autentico: nella notte, mentre dormono nello stesso letto (il letto coniugale dal quale il padre/marito viene escluso) Julieta e la madre possono trasmettersi l’affetto che è implicito nella condizione della maternità, dal momento che entrambe ora la condividono. Quando Julieta, il giorno seguente, obbliga la madre a uscire dalla camera e la veste con abiti eleganti per portarla sotto gli occhi del marito, è il simulacro di una maternità offesa che compare e si mostra, come mater dolorosa, anticipando la condizione di insensibilità abulica dentro la quale Julieta stessa è condannata a cadere, alcuni anni dopo, con la scomparsa di Antía.

Può trasmettersi il senso della colpa dai genitori ai figli anche nel mondo moderno, come avveniva nella concezione tragica dei greci? Pasolini si poneva questa domanda all’inizio degli anni settanta, e oggi Almodóvar sembra ripetercela, declinandola però al femminile. Come ha notato qualche anno fa Daniel Mendelsohn, recensendo Volver sulla New York Review of Books (la recensione si trova nel volume Bellezza e fragilità, Neri Pozza, 2012 ), quella esuberanza isterica che ha attirato sul regista l’attenzione del mondo gay, e che ne ha fatto uno degli oggetti di culto degli anni novanta, sembra ora aver lasciato il posto a una «sottigliezza emotiva» grazie alla quale le donne dei suoi film non sono più caricature di come un omosessuale immagina il mondo femminile («icone drag») ma hanno acquistato sfumature e profondità che le rendono più vicine alle donne reali. Secondo Mendelsohn, Almodóvar è passato dalla rappresentazione di un mondo sempre messo tra virgolette, filtrato dalla cultura pop di cui si è nutrito nella Madrid degli anni settanta, a un rapporto più diretto con la realtà e con la sofferenza. Del resto, la diagnosi di un Almodóvar invecchiato e malinconico viene ampiamente condivisa dallo stesso interessato, almeno dal film Tutto su mia madre. Il ricorso a un immaginario pittorico e artistico (Bourgeois, Tiziano nel film precedente, la scultura di Navarro, Lucien Freud, le opere dell’artista gallego Luis Seoane ora) potrebbe aver offerto una nuova dignità visiva a questa condizione matura e dolorosa degli ultimi anni. Anche se, particolarmente in Julieta, il rimando a sfondi mitici e arcaici si fa più intenso, tanto da sovrabbondare la stessa trama, che acquista qualcosa di fisso e stilizzato, come se Almodóvar guardasse oltre ai fatti e volesse cogliere un magma psichico che può affiorare solo attraverso forme definite ed esteticamente elaboratissime. Le inquadrature di Julieta giovane che guarda di spalle il mare dalla finestra della casa galiziana e della Julieta matura che osserva, sempre di spalle, la strada sotto la sua nuova casa di Madrid, sono una ripresa specifica di un famoso quadro di Dalì del 1925, Muchacha en la ventana, dove sentiamo il senso angoscioso dell’attesa di una Calipso moderna che ha perso il suo amante Ulisse.

Queste immagini dalla qualità visiva così intensa racchiudono il valore delle scene con cui Almodóvar vuole fissare i momenti culminanti della disperazione dei suoi personaggi, che sembrano ripetere in modo estatico posture che provengono da un passato immemoriale, e non hanno più niente delle pose esasperatamente teatrali con cui si muovevano le donne dei primi film del regista (il film doveva intitolarsi Silenzio, proprio per definire l’atmosfera trattenuta che circonda il dolore della protagonista).

I primi secondi di Julieta rientrano in questa logica. Noi vediamo una indistinta forma rossa che sembra muoversi con un palpito interno. L’allusione è ai fiori di Georgia O’Keeffe, gigantesche trasposizioni di organi sessuali femminili. La piega interna di questa forma, con un accenno di taglio centrale che la percorre creando altre pieghe simmetriche, potrebbe rimandare sia alla femminilità che al movimento di un muscolo cardiaco (il cuore ritorna poi come tatuaggio che Xoan si fa sull’avambraccio, con le iniziali della figlia e della moglie). Ancora più evocativo il fatto che, una volta capito che la forma rossa non è altro che un particolare del tessuto del vestito di Julieta, si passi all’inquadratura della statua maschile che poi sapremo essere opera della scultrice Ava. Come un motivo che anticipa tutto il film, il piccolo uomo seduto dal colore della terra bruciata compare dopo il gigantesco drappo rosso che ha la forma di un cuore/vagina. La vita è lì, sembra dire Almodóvar, ma lì sono racchiusi anche i misteri del dolore e della morte.

Il rosso acceso resta, per tutto il film, un motivo conduttore, che si accompagna al blu elettrico del maglioncino con cui vediamo la giovane Julieta nella sequenza del treno. Rosso e blu sono poi congiunti in un altro oggetto al quale vengono dedicati alcuni insistiti primi piani, il pop-up di un alberello che si apre nel biglietto con cui Antía, ormai lontana da Julieta, lancia un segnale alla madre disperata nel giorno del suo diciottesimo compleanno. Un biglietto vuoto, senza parole, dal quale emerge solo la corolla rossa che poi rivediamo più volte sul tavolino dove Julieta scrive la sua lunga confessione a Antía. Questo biglietto vuoto, privo di messaggio, che coincide con il momento della raggiunta maturità della figlia (quando cioè la figlia diventa potenzialmente a sua volta madre) comunica a Julieta che anche Antía è ora una donna, e come tale possiede la forza mitica della creazione e della colpa che è necessariamente connessa alla capacità di creare. La corolla stilizzata del pop-up, ramo di sangue rappreso, cuore di cui vediamo solo il ricamo dei vasi sanguigni, sta a indicare che nel segreto della creazione femminile è insito il mistero della morte e dell’assenza. Possiamo ora correggere l’analisi di Mendelsohn: Almodóvar si è allontanato progressivamente dall’espressività connessa a stereotipi pop della cultura omosessuale, stereotipi che lui ha intrecciato e reso di nuovo efficacissimi attraverso citazioni e giochi allusivi, ma in realtà non ha abbandonato una prospettiva omosessuale sul mondo e in particolare sulle donne. Se oggi riesce a recuperare non più cascami pop ma residui mitici dietro un intreccio che a sua volta si costruisce su continui richiami cinematografici (l’Hitchcock più volte ricordato a proposito di tutta la sequenza del treno), è perché il regista, forse il rappresentante estremo di una cultura mediterranea che riconosce la centralità del femminile, guarda al mondo delle donne con l’attenzione con cui in culture antiche ci si interrogava sulle forze primordiali che garantiscono la propagazione della vita. Come omosessuale, Almodóvar sente il mistero della maternità, e non può trovare nessuna spiegazione a questo mistero se non spostando l’attenzione su un mistero altrettanto grande, cioè quello della sofferenza che deriva dalla perdita e dall’assenza di coloro che amiamo. Solo in una madre creazione e perdita possono coesistere. E solo una figlia femmina può restituire quasi specularmente alla madre (come ribadisce il manifesto con le due Julieta) il nesso tra creazione e perdita, che fatalmente produce colpevolezza in chi ha prima creato e poi perso. Julieta che in trance, con gli occhi gonfi e i capelli sconvolti, cammina per le strade di Madrid è un’ennesima Mamma Roma che è stata separata dal suo oggetto d’amore, una Demetra moderna che ha perso la figlia Proserpina. Almodóvar presta a Julieta una componente che non appartiene di diritto al mondo materno ma che si sviluppa nella psicologia di un figlio, e soprattutto di un figlio omosessuale. Cioè la colpa. La dolorosa, tragica, inalienabile consapevolezza della colpa. Sia chiaro: Julieta non ha realmente nessuna colpa, non è certo il litigio con Xoan che può essere inteso come tale e come causa della morte del marinaio. La colpa sta annidata nella capacità di creare la vita: questo è il punto tragico su cui Almodóvar ora si interroga, dopo aver giocato a lungo con una cultura dell’esasperazione isterica in cui le donne recitavano un ruolo sconnesso di menadi moderne. Julieta che cammina sconvolta per Madrid è Almodóvar che ha raggiunto ora la consapevolezza tragica dell’esistere e non può più permettersi né comicità né ironie camp. E questa è forse la ragione per cui a molto pubblico tradizionalmente innamorato del regista spagnolo il film non piace fino in fondo. Dal momento che non è più possibile ridere, e la trama sembra promettere una suspence che alla fine non mantiene le aspettative.

Lorenzo Gentile è il nome che il regista sceglie per il secondo uomo di Julieta, colui che la porta sulla strada della salvezza. Ancora una volta non è un nome casuale, e non casualmente ha una forma italiana. Lorenzo (un uomo che non ha le caratteristiche virili del marinaio Xoan) ha un ruolo di intellettuale meditativo: in una inquadratura, vediamo un libro con il suo nome dedicato alle sculture di Ava. Dunque Lorenzo è uno studioso, è un mediatore tra il mondo arcaico delle forze primitive incarnate nell’opera di Ava e la dimensione della realtà in cui è possibile sopravvivere dopo essere entrati in contatto con quelle forze. Per questo è Lorenzo che accompagna di nuovo Julieta da Antía, quando la figlia manda alla madre un messaggio che è una richiesta di aiuto. Anche lei infatti (secondo una concezione del fato tragica) ha perso il figlio maggiore che è annegato nelle acque del lago di Como. Le acque marine della Galizia e le acque del lago sono congiunte in una disposizione fatale che ne fa strumenti di morte. Ancora una volta, il mondo femminile può contare su un soccorso che nasce consapevolmente nel cuore del tragico. Il sacrificio di Julieta sarà la consolazione dovuta al dolore di Antía. Lorenzo, la forma meditativa dell’esistere, è solo il testimone di un destino che sembra sul punto di ritrovare l’assetto salvifico, quando la macchina da presa, alzandosi dall’auto che porta lui e Julieta sul lago, apre la visione di un paesaggio dove ogni elemento sembra convivere in un’armonia definitiva, senza traccia del dolore umano.