14. Colchide (vari ambienti)
Interno. Esterno. Giorno
Medea. Rito lunare. La luna è legata alle corna delle vacche e alla fecondità. È legata al serpente. È legata alla spirale. È legata soprattutto alle acque. Nell’insieme questo complesso “solidale” rappresenta anch’esso una unità della fecondazione e della morte. Medea sa tutto questo. E officia, ispirata e quasi fanatica, il rito.
Questo è il breve brano del trattamento del film Medea (1969) dove, a pagina 32 dell’edizione Garzanti del 1970 (curata da Giacomo Gambetti), Pier Paolo Pasolini descrive il secondo rituale che la maga della Colchide avrebbe dovuto celebrare dopo quello, di crudele cannibalismo, consacrato al dio Sole che viene mostrato nel film. Il trattamento reca il primitivo titolo del film, Visioni della Medea, appropriato ad un lungometraggio che avrebbe dovuto essere ancora più visionario di quanto non sia la versione definitiva. Infatti da questa sono scomparse numerose sequenze previste nel testo preparatorio: le ‘visioni’ orgiastiche; i sogni ‘regressivi’ di Medea che a Corinto, ormai respinta da Giasone, sogna i sacrifici umani della Colchide; la sua abitazione a Corinto invasa da animali; le apparizioni del dio Sole che ha assunto sembianze antropomorfe e in particolare quella del primitivo finale, dove avrebbe dovuto condurre con sé la maga infanticida. Sono tutte sequenze che Pasolini aveva immaginato e che ha realizzato (con l’eccezione delle orge) ma che ha tagliato dall’edizione definitiva del film, probabilmente perché alcune non lo soddisfacevano e forse anche in seguito alle richieste del produttore Franco Rossellini, presumibilmente preoccupato dall’eventualità che il film superasse le due ore di durata (la versione definitiva dura 111’).
Anche la sequenza del ‘rito lunare’ venne girata e fu tagliata in sede di montaggio definitivo. Come hanno dimostrato le ricerche di Maria Andaloro, professore emerito dell’Università della Tuscia, le riprese di quella scena non ebbero luogo in Cappadocia (come era avvenuto per la scena del ‘rito solare’) ma in Italia, nei dintorni di Viterbo, alle Cascatelle di Fosso Castello a Chia, alla fine di giugno del 1969, quasi un mese dopo le riprese effettuate in Turchia, a Uçhisar e Göreme. Le Cascatelle di Fosso Castello non erano un luogo casuale, perché esattamente in quello spazio di pietre, acqua e selvaggia vegetazione, Pasolini aveva girato cinque anni prima la sequenza del battesimo de Il Vangelo secondo Matteo (1964). La sequenza risulta attualmente perduta ma Andaloro ha identificato le centoquindici immagini di scena in bianco e nero e le sette a colori scattate da uno dei più grandi fotografi del cinema italiano, Mario Tursi (1929-2008), cui si devono, fra l’altro, anche le bellissime immagini dei set di molti film di Luchino Visconti (da Vaghe stelle dell’Orsa…, 1965, a L’innocente, 1976) e di un film successivo di Pasolini, Il Decameron (1971) (attualmente le fotografie di Tursi sono conservate nell’Archivio Enrico Appetito di Roma). Andaloro le ha montate in continuità, come se fossero le sequenze del film e si possono ammirare nella pregevole mostra Medea ritrovata, a cura della stessa Maria Andaloro, con la collaborazione di Gaetano Alfano, Paola Pogliani e Valeria Valentini, allestita dall’Università degli Studi della Tuscia e dalla Missione UNITUS Ricerche e restauro in Cappadocia, nel Complesso di Santa Maria in Gradi a Viterbo.
La mostra, che è stata inaugurata il 9 maggio 2024, è costituita da due sezioni: la prima, Medea ritrovata, consiste appunto nella ricostruzione della sequenza perduta attraverso le fotografie di Tursi (che sono visibili anche in un video trasmesso in una saletta); la seconda comprende immagini e documenti relativi alle riprese del film fra la Cappadocia e la Tuscia, con un’appendice relativa alla missione diretta da Andaloro in Cappadocia, per l’Università della Tuscia, dal titolo La pittura nelle chiese rupestri in Cappadocia. Per un progetto di conoscenza, restauro e valorizzazione e al Progetto di conservazione e restauro della decorazione pittorica della Nuova Chiesa di Tokali nell’Open Air Museum di Gőreme (in collaborazione con il Museo Archeologico di Nevşehir).
È una mostra che illumina un tassello significativo del cinema pasoliniano: sono numerosi, infatti, i casi di sequenze ideate, girate, montate e poi tagliate, perché l’esuberanza immaginativa del poeta-regista doveva inevitabilmente confrontarsi con le esigenze industriali che vincolavano ogni film, a cominciare, appunto, dalla durata, e quindi è successo che anch’egli, come altri autori, abbia dovuto rinunciare a scene che aveva previsto.
Al produttore Rossellini, durante i sopralluoghi del marzo 1969, Pasolini aveva detto: «schematicamente, nella Colchide si sussegue una serie di tre, quattro, cinque scene, ancora non so bene, che corrispondono a tre, quattro, cinque momenti religiosi e rituali» per poi precisare che, dopo il ‘rito solare’,
con uno stacco si passerà al rito lunare, che invece è un culto di vita e morte, perché la vita nasce, muore, poi ritorna a nascere. Quindi rappresenta il ritmo del tempo, la rinascita. Anche la vita ha questo doppio senso, la luna ha il doppio senso di vita e morte, però su un altro registro in cui prevale, diciamo così, il senso della morte, unito alle corna del toro, al serpente. Dico questo per fornire dei dettagli. Tutto sarà rappresentato in maniera viva, da un rito che devo cercare. Ne ho uno in mente, ma ne esistono di migliori: alla luce della luna sul mare, le ragazze nude si cospargono di argilla bianca.[1]
Questa ultima idea sarà abbandonata nel corso delle riprese così come – almeno a giudicare dalle fotografie di Tursi – verrà eliminato l’abbinamento del rito alla simbologia del serpente. Subentra invece, l’immagine di una maschera arcaica, dai lineamenti essenziali, che avrebbe dovuto avere anch’essa la funzione di ‘rima’ visiva con le maschere che appaiono alla fine della sequenza del ‘rito solare’. Anche questo rituale, come quello ‘lunare’, ha nel film un duplice significato di morte e vita: infatti il sacrificio umano prelude alla fecondazione della terra con il sangue e gli organi della vittima che vengono smembrati dal suo corpo e offerti alla popolazione della Colchide. I due rituali sarebbero quindi stati speculari e Pasolini si era avvalso della collaborazione di un antropologo, Angelo Brelich, che gli aveva fornito la descrizione di «diversi riti religiosi (soprattutto “solari” e “lunari” o “di avvicinamento al luogo sacro”) praticati nell’India vedica, nell’antico Egitto, o presso gli Hittiti, i pellerossa della California, ecc.».[2]
Pasolini, inoltre, aveva previsto anche un particolare commento di voci e musica: «nei riti cui partecipa Medea, si udranno dei canti. Lei stessa reciterà degli inni. Un inno alla luna, un altro alla terra e al passaggio delle stagioni. Questi inni sono molto importanti. Appena ritorniamo a Roma, sarà la prima cosa da fare, scegliere degli inni antologizzati delle varie religioni, ma probabilmente darò la preferenza agli inni indiani. Devo preparare i testi».[3] Impossibile sapere con certezza, purtroppo, quale tessuto sonoro avesse deciso di conferire al film.
Pasolini avrebbe potuto girare la sequenza in Cappadocia, come quella del sacrifico ‘solare’, invece aveva preferito ritornare in Italia perché, evidentemente, voleva quel luogo come teatro del rito ‘lunare’. È probabile che avesse pensato ad un effetto di ‘rima’ visiva con la sequenza del battesimo del Vangelo: in entrambi i casi si tratta di un rito di ‘nascita’, che però nel caso di Medea doveva passare attraverso la morte. Nelle fotografie di Tursi vediamo una giovane donna (interpretata dalla grande costumista Gabriella Pescucci, assistente, con Piero Cicoletti, di Piero Tosi, creatore dei costumi del film), dall’aria aristocratica, chiusa in un’espressione grave da cui traspare la coscienza del proprio destino. Bastano questi elementi a connotarla come una figura di ‘vittima sacrificale’ la cui attitudine si contrappone alla spensieratezza quasi infantile del ragazzo che verrà strangolato e macellato nel rito rimasto nel film. Un ragazzo distratto dalla sua allegria e dalla gioia di vivere, che soltanto negli ultimi istanti cerca di divincolarsi perché assalito dalla consapevolezza tardiva di quanto sta per accadergli.
Per quello che si può provare ad immaginare guardando le fotografie, il rito ‘lunare’ avrebbe avuto un’altra natura: alcune donne vi avrebbero assistito a distanza in un’atmosfera più ieratica e meno realistica rispetto all’altra sequenza. La donna, con le mani strette dalle catene, si sarebbe sottomessa docilmente alla decapitazione che sarebbe stata preceduta dall’atto, compiuto dalla stessa Medea, di coprirle il volto con una maschera arcaica. Una volta celato il suo volto, sarebbe stata decapitata così che la sua testa decollata sarebbe stata esposta dissimulata dalla maschera. Non si vede nelle immagini alcuna traccia del sangue che invece sgorgava realisticamente dalle membra martoriate nell’altra scena. Si può quindi ipotizzare, con qualche attendibilità, che sarebbe stata una sequenza dallo statuto ambiguo, più incline verso una dimensione onirica. La maschera sarebbe stata esposta allo sguardo, in particolare, di una misteriosa figura, anch’essa dal volto celato da una maschera.
Come scrive giustamente Maria Andaloro nella presentazione, la scena del rituale sarebbe stata «crudele e paradossalmente piena di grazia»: infatti non traspare nessuna concitazione drammatica, nessuna crudeltà nei movimenti degli astanti che, al contrario, sembrano muoversi come le figure di un sogno. Il rituale si sarebbe concluso con la consegna della testa alla donna mascherata: una probabile allusione alla ‘resurrezione’ magica della donna morta in un’altra donna che avrebbe preso per mano una ragazza e questa a sua volta si sarebbe unita ad un’altra in una danza che sembra richiamare quella di Salomè nel Vangelo: in quel caso un ballo precedeva la morte del Battista, in questo, invece, segue un sacrificio umano che prelude alla resurrezione in un altro corpo. Nel film del ’64 si trattava di un rituale che avveniva nel seno della corte di Erode Antipa, quindi nello spazio di un potere assoluto e crudele; in Medea, nonostante la presenza officiante della figlia del re della Colchide, sembrava svolgersi in una dimensione esoterica e arcana, allusiva al mistero profondo di una cultura barbara e ancestrale, che Pasolini contrapponeva a quella ‘razionale’ di Giasone, ossia dell’Occidente. Ossia alla nostra.
1 P.P. Pasolini in R. Chiesi (a cura di), Pasolini, Callas e Medea, Bologna, FMR-Art’è, 2007, pp. 19, 22. Nel libro si può leggere la trascrizione integrale del dialogo.
2 P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2001, II, p. 3140.
3 P.P. Pasolini in R. Chiesi (a cura di), Pasolini, Callas e Medea, p. 22.