«I hate superheroes. I think they’re abominations»
Alan Moore
1. Le ceneri e il mito di Pasolini
Uno dei primi fumetti su Pier Paolo Pasolini, forse addirittura il primo, fu disegnato da Graziano Origa. Si intitolava Le ceneri di Pasolini e fu pubblicato nel 1976 sulla rivista Contro, di cui Origa era stato co-fondatore con Ettore Nuzzi nel 1973. Uscirono in tutto dieci numeri e ospitava strisce, articoli e interviste (tra gli altri) di Hugo Pratt, Sergio Toppi, Bonvi, Marco Pannella. Le ceneri di Pasolini è un insieme di tavole in bianco e nero, ritagliate su fondo rosso, di tre pagine. Non si tratta di un fumetto nel senso canonico del termine, ma di vignette con alcuni disegni (ritratti di Pasolini[1] o di suoi personaggi, scene di libri o di film) accompagnati da testi ripresi dalle sue opere: si inizia con Il pianto della scavatrice, passando per Contro la televisione, Ragazzi di vita e una «lettera luterana» a Italo Calvino pubblicata pochi giorni prima della sua morte; per arrivare infine al Pasolini regista con le Osservazioni sul piano sequenza e la terza pagina dedicata esclusivamente a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Proprio nell’ultima vignetta, che riproduce il finale del film, è contenuto l’unico scambio formato balloons tra due personaggi, ovvero i due giovani repubblichini che ballano il valzer: «Come si chiama la tua ragazza?», «Margherita». Come si vede, quella scelta per i testi delle didascalie è una bibliografia già molto orientata: il Pasolini più carico di antiintellettualismo, innamorato delle borgate (della lettera a Calvino è riportato il famoso passaggio su mister Hyde: «Io so bene come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché è anche la mia vita. […] Ma io, come il dottor Hyde, ho anche un'altra vita»), il critico della borghesia, del capitalismo, del potere (in un crescendo di antagonismo e scandalo).[2]
Il fumetto di Origa esce a un anno di distanza dalla morte del suo protagonista, eppure il mito di Pier Paolo Pasolini sembra già ampiamente cristallizzato. Sul tema ha scritto un saggio Walter Siti, in un articolo uscito per la prima volta su Micromega nel 2005 e ripubblicato poi da Le parole e le cose nel 2015. L’articolo, riletto oggi, resta fondamentale per analizzare la produzione grafico-fumettistica attorno all’autore. Walter Siti si rifà alla definizione barthesiana di «mito»: un’icona culturale diventa un mito quando il suo significante e il suo significato diventano il significante di una cosa nuova e più vasta. Secondo Siti, il significante di Pasolini («la sua opera intera, sia letteraria che cinematografica e pittorica, ma anche le fotografie che lo ritraggono, o gli spezzoni di video in cui compare») e il significato («quello di uno degli intellettuali più intelligenti e coraggiosi della seconda metà del Novecento in Italia, le tesi che ha sostenuto, la bellezza che è riuscito a creare, ma anche un uomo nevrotico e contraddittorio, e un artista che ha spesso sprecato il suo talento in testi ridondanti e non esenti dal kitsch») sono diventati il significante del suo mito. Il nodo principale del discorso di Siti è contenuto però tra due parentesi:
(Per il mito, leggere effettivamente le opere di Pasolini non è affatto necessario, né è necessario confrontarsi con la critica che ha cercato di capirle: non più di quanto, per usare la parola “casa” in un nostro discorso, abbiamo bisogno di analizzare i movimenti che fa la lingua nel pronunciare i singoli fonemi).[3]
Si deve partire da qui per orientarci tra i fumetti su Pasolini di questi quasi cinquant’anni: dal dato che si tratta innanzitutto di fumetti biografici in cui l’opera, se non scompare, è semplicemente il significante del mito, un modo della sua fenomenologia.
Opera e vita (e soprattutto morte) sono sullo stesso piano, valgono nello stesso modo. Ma c’è un aspetto ancora più sinistro: entrambe, opera e vita, sono schiacciate in un finalismo senza scampo, come se avessero acquisito senso proprio e solo attraverso quella morte violenta; o, rovesciando la questione, come se quella morte violenta fosse stata parte essenziale (anche esteticamente) del flusso vita-opera del mito Pasolini. Ne consegue che la «parola» pasoliniana, atemporale e astorica, assuma un potere vaticinante: Pasolini fin dalla tenera età sembra aver pronunciato tutto con la voce e la modalità di «Io so, ma non ho le prove».
2. Mito fondativo o villain
È in questo spirito che nasce, nel 2002, il fumetto italiano forse più famoso su Pasolini: lo disegna e scrive Davide Toffolo, già cantautore e frontman dei Tre allegri ragazzi morti nonché già autore all’epoca di diversi fumetti. Si intitolava Intervista con Pasolini ed era uscito per un piccolo editore friulano, di Pordenone (città d’origine di Toffolo), Edizioni Biblioteca dell’Immagine. Nel 2022 Rizzoli Lizard lo ha ripubblicato con il semplice titolo Pasolini, una nuova prefazione dell’autore e uno scritto di Marco Antonio Bazzocchi (Pasolini remix). Intervista con Pasolini ha come protagonista un alter ego del suo autore, un Davide Toffolo con una telecamera in mano che sta andando a un appuntamento. Si trova di fronte alla chiesina di Versuta, località vicino Casarsa della Delizia dove Pasolini sfollò con la madre durante la Seconda guerra mondiale. Sono anche i luoghi di Toffolo, e questa comunanza di paesaggio e di infanzia è l’aspetto più fresco e onesto dell’opera. Un flashback svela chi sta aspettando il protagonista: è stato contattato per email da un uomo che vuole parlargli, che dice di chiamarsi Pier Paolo Pasolini ed è in tutto e per tutto un sosia del poeta. Il fumetto si svolge all’interno di questa cornice: incontri tra il trentacinquenne Davide e il sedicente Pasolini in giro per l’Italia e per l’Europa, da Roma all’Etna all’Idroscalo passando naturalmente per il Friuli e Bologna. Una struttura narrativa del genere potrebbe avere molti esiti: un primo, che l’esperienza dimostra impraticabile nel 2002 come adesso, è la satira, oppure la parodia o il distacco ironico. Qui, un sedicente sosia pasoliniano, che in realtà è un impostore che parla come Pasolini convincendo tutti, ha dei risvolti mediatici e critici comico-grotteschi. Purtroppo non solo la satira ma persino l’ironia è sempre tassativamente assente nei fumetti su Pasolini. Un’altra possibilità è mettere in scena un Pasolini redivivo che entra in un dialogo attivo con il mondo (con gli amici del protagonista di una generazione successiva, ma anche con le persone che avevano fatto parte della sua vita): un Pasolini dopo Pasolini. Scelta rischiosa, difficile e probabilmente poco feconda, ma nemmeno tentata. In questo fumetto, Toffolo sceglie invece la via delle interviste-bolla, in cui Pasolini pronuncia le sue verità (un collage di suoi interventi saggistici, dichiarazioni, interviste), e il protagonista ne rimane attonito, imbambolato, scosso, toccato.
Pasolini ripercorre la sua vita di scrittore, e fino alle prime due interviste è un racconto, dalla sua ‘viva voce’, dei suoi esordi. Man mano però che il fumetto procede, quello con Pasolini diventa sempre di più l’incontro con una figura sacra, una guida spirituale e civile. Il fumetto inizia a popolarsi di simboli, che prendono spesso lo spazio dell’intera pagina, tutti provenienti dal suo universo letterario: la tigre, il coccodrillo, il Pasolini-feto, il pitbull. Il punto di svolta è la consegna dal sedicente Pasolini a Toffolo del suo «fumetto a colori» (fu Pasolini stesso a definirlo così),[4] ovvero la sceneggiatura de La Terra vista dalla Luna (di cui Toffolo riproduce alcune tavole, in effetti le uniche a colori di tutto il libro). Qui comincia anche la progressiva identificazione tra i due artisti in scena: dopo l’incontro tra l’intervistatore e il suo mito all’idroscalo, la faccia scavata del poeta diviene in pochi passaggi la maschera di scena che Toffolo e la sua band usano per i concerti dei Tre allegri ragazzi morti (maschera disegnata dal front man della band). Pasolini si configura così come un vero e proprio mito fondativo della storia personale del personaggio-autore (che non rinuncia a inserire, dopo l’ultima tavola del fumetto, una foto di sé stesso proprio sull’Etna, datata 2002, come a evocare un vero viaggio compiuto sulle tracce del suo nume tutelare). Nelle ultime pagine, il protagonista-Davide si trova poi da solo in laguna a Grado, nudo, e si immerge nell’acqua in una scena battesimale di purificazione e rinascita. L’acqua torna anche nell’ultimissima tavola, in cui un uomo nudo dai tratti africani si china e immerge la mano in un fiume. La scena è accompagnata dall’incipit del Coccodrillo.
Tornando alla definizione del «mito Pasolini», nel suo saggio Walter Siti individua, elenca e spiega le principali componenti. Mi limito a riportare l’elenco:
La prima componente del «mito Pasolini» è certamente quella della poesia assassinata dalla società. […].
La seconda componente del mito è la certezza che esistono i profeti, che intuiscono e vedono per noi. «Che direbbe di questo Pasolini?». […]
La terza componente del mito è quella del coraggio delle proprie idee, fino alla morte. […]
La quarta componente è la prova che basta la passione per capire. […]
La quinta componente, anche se può apparire paradossale in un paese sostanzialmente omofobo come l’Italia, è proprio l’omosessualità esemplare di Pasolini. […]
La sesta e ultima componente, tra quelle che posso far emergere in una riflessione superficiale come la mia, è la testimonianza che si stava meglio prima.[5]
Almeno cinque dei sei ingredienti sono presenti nel fumetto di Toffolo. Qui Pasolini è un profeta che ha avuto il coraggio delle proprie idee, mosso da una passione istintuale, che ha pagato la sua diversità con la vita, in cerca di un’autenticità storica e antropologica perduta. Non a caso, nell’ultima apparizione nel fumetto, l’uomo che si fa chiamare Pasolini chiede al suo intervistatore di tagliargli mani e piedi con una scure. Toffolo esegue (senza che se ne veda il volto: è in scena solo la mano che impugna l’arma), e Pasolini commenta: «Sei un uomo coraggioso. Hai fatto quello che non avresti mai fatto. Ma questo non ti salverà. Puoi attaccarti solo alla tua razionalità per capire». Toffolo, nudo, sbigottito e insanguinato, prova a protestare: «Io, io… non volevo… perché mi hai chiesto questo?» e Pasolini: «è uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco… è la predestinazione. Tu dovevi farlo… subisci la predestinazione dei figli che pagano le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii. Se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. E io non so cosa fare per te, mio figlio non desiderato, ma amato… proprio non so cosa fare, se non volerti il bene che non puoi capire».
Questo monologo a metà tra il delirio onirico e il vaticinio si svolge nella parte bassa della pagina. In quella alta, un pitbull veglia un corpo maschile nudo, sdraiato, morto, con la faccia forse sfigurata. È così che si compie la trasformazione del poeta in una figura messianica, atemporale e profetica. Mentre i primi dialoghi si svolgevano in contesti urbani o anche di campagna ben riconoscibili e pieni di dettagli, man mano il paesaggio si svuota fino a diventare del tutto assente. Dicono alcuni indigeni africani intorno a un coccodrillo morto: «abbiamo ucciso il coccodrillo parlante, non abbiamo capito cos’era, l’abbiamo ucciso».[6]
Il libro è in generale immerso nell’atmosfera di un sogno, da cui emerge in sostanza un Pasolini anti-mondano, ascetico e preveggente, una divinità nel pantheon di quella controcultura rock-punk di cui facevano e fanno parte Toffolo e la sua band. Forse la componente più trascurata del «mito Pasolini» è quella dell’«omosessualità esemplare» (e quindi del suo rapporto controverso col cattolicesimo). Dice Walter Siti che «c’è un Pasolini che appartiene ai letterati italiani, e un Pasolini che appartiene a un micro-capitolo di storia delle religioni. E non è affatto detto che il Pasolini del mito, tra i due, sia il meno interessante».[7] In effetti, il Pasolini di Toffolo è una sorta di divinità ctonia che ha un conto in sospeso. Un fantasma, un vampiro, uno zombie (come quello evocato da Gian Maria Annovi).[8]
Su questa scia non si inserisce solo Intervista con Pasolini ma anche un fumetto con premesse ed esiti totalmente diversi, a partire dal suo editore, dal suo supporto materiale e dal tipo di uscita: si tratta di Ragazzi di morte (Editoriale Cosmo, luglio 2017), che si inserisce all’interno della serie Battaglia, ideata da Roberto Recchioni (sceneggiatore di Dylan Dog e attualmente curatore della serie) e da Leomacs (nome d’arte di Massimiliano Leonardo). È un albo con il classico formato bonellide 16x21, con tavole in bianco e nero, un bimestrale da edicola. Pietro Battaglia, protagonista della serie, è un vero villain con una lunga storia. Comparve per la prima volta nella serie Dark side a metà anni Novanta, in cui Battaglia era una sorta di versione italiana di Wolverine. Dieci anni dopo, nel 2007, Recchioni ne riprese il progetto con una vera e propria collana di albi dedicati e due numeri di debutto che ne raccontavano l’origine, Vota Antonio (che conteneva anche il fumetto Caporetto) e La guerra di Pietro, in cui con lunghi flashback si scopriva che Battaglia, morto a Caporetto nel 1916, era un fantasma-vampiro che continuava a vagare nel tempo e nello spazio, trovandosi invischiato nei fatti di cronaca più oscuri e violenti nella storia italiana (dal G8 al rapimento di Aldo Moro, dal ventennio fascista ai rapporti stato-mafia del secondo dopoguerra) quasi sempre come killer, sicario, uomo della resa dei conti. Un mercenario senza morale, un antieroe scaltro e nero, senza nessun elemento di redenzione. Insomma, un personaggio perfetto per infilarsi nelle pieghe del delitto Pasolini. Anche Ragazzi di morte si apre con un dialogo tra il protagonista e Pasolini: entrambi morti, si trovano all’Idroscalo il 2 novembre 2005, trentesimo anniversario dell’omicidio del poeta. Battaglia si presenta e dice di averlo voluto vedere per questioni di affari, Pasolini replica: «Non mi piacciono gli affari e di sicuro non ho voglia di farne con te… visto che sei te che mi hai ucciso». «Lo sapevo che ne avresti fatto una faccenda personale» replica l’altro (p. 7). Si intuisce naturalmente che le cose non sono così semplici e la scena si sposta nell’ottobre 1975.
I piani narrativi sono due anzi tre: gli ultimi giorni di Pasolini, dunque le cene con gli amici e le loro perplessità su Salò; l’intervista con Furio Colombo; e, infine l’adescamento di Pelosi. È forse l’unico fumetto in cui si vedono comprimari sulla scena in grado almeno di tenere testa al personaggio di Pasolini, perfino di muovere obiezioni. Pasolini a cena dice: «Non sono abbonato ai giornali e non leggo mai niente di quello che si dice di me, evito di ascoltare i discorsi fatui. Ogni tanto mi arrivano delle cose, ma non me ne occupo molto», (p. 18) e queste sono le parole tratte dalla famosa intervista con Enzo Biagi del 1971;[9] al che Ninetto Davoli replica, inforcando gli spaghetti: «See see, come no, sicuro! Dovete vedere come zompa sulle recensioni quando esce un suo film!» (ibidem). Frattanto, in una villa «da qualche parte, in Italia» (recita così il riquadro), si consuma una festa orgiastica con pratiche violente e sadiche non molto distanti da quelle rappresentate in Salò (p. 27). Anche qui gli anfitrioni sono quattro plenipotenziari (il Presidente, il Generale, Sua Eccellenza, il Commendatore): di ciascuno vengono descritte le rispettive perversioni e si presentano con maschere di uccello, tigre, Fantomas e toro. Durante la serata si accordano perché il «poeta», che ha fatto uscire informazioni compromettenti sul loro (si resta sul vago), venga fatto fuori. Un solo uomo siede alla festa assistendo all’orgia sadica senza maschera, ed è naturalmente Battaglia, la cui unica battuta è: «va bene, accetto il lavoro». Ma, si vede subito dopo, non sono solo i potenti a voler morto Pasolini: una delle ragazze alla festa è Katya, spia dell’URSS. La vediamo negli scantinati della sede del PCI malmenare (anche qui piuttosto sadicamente, ferendoli col tacco a spillo) tre dirigenti del Partito, inginocchiati e legati. «Almeno questi porci capitalisti sanno come funziona il potere. Voi sembra che non lo vogliate… Mosca vi manda soldi e risorse e che ve ne fate?», «Nulla», «Siamo inutili». Katya spiega che la morte del poeta, voluta dai quattro, farebbe gioco anche al Partito Comunista che potrebbe ricattare i mandanti. A suon di botte convince i tre dirigenti, inermi e privi di reazioni, a lasciare che l’omicidio si compia (pp. 27-39).
Sostanzialmente quindi, l’omicidio di Pasolini è perpetrato su tre livelli: l’adescamento di Pino e compagni, che comincia con crudi amplessi e si conclude con un pestaggio a scopo di vendetta omofoba e di rapina; Battaglia, che interviene per conto dei quattro, che finisce il lavoro e minaccia Pino Pelosi costruendo la sua figura di capro espiatorio; e, il PCI complice silente nell’ombra. Ma a questo punto si torna all’Idroscalo nel 2005: se assassino e assassinato sono insieme è perché Battaglia vendicherà Pasolini uccidendo tutti i mandanti del suo omicidio in cambio del capitolo mancante di Petrolio. Pasolini è titubante, prova a sottrarsi dal ruolo di vendicatore, ma Battaglia rievoca la storia di Medea e lo convince con queste parole: «Sai bene cos’è la vendetta… comprendi la passione che non conosce morale… l’odio che tutto travolge. In te c’è un’ombra nera che brucia. Non sei il Cristo redentore dei nostri peccati… sei solo un uomo. E gli uomini odiano». Anche qui, seppur con toni a metà tra l’hard boiled di bassa lega e l’universo Marvel, abbiamo un caso (più unico che raro nei fumetti su PPP) in cui Pasolini subisce un contraddittorio. Anzi viene proprio messa in discussione la sua aura cristologica e messianica. Tanto che Pasolini, posto di fronte al lato oscuro di sé stesso, risponde: «Uccidili tutti e piscia sui loro cadaveri. Poi avrai quello che vuoi» (pp. 86-88).
Anche Pasolini si è dunque trasformato in un villain, un vampiro certo senza scrupoli, ma con una missione da giustiziere: fa uccidere, senza macchiarsi di sangue, gli esponenti del potere che lo hanno condannato a morte. Nella seconda parte del fumetto si compie la vendetta: uno per uno Battaglia ammazza brutalmente (e con un certo gusto per il contrappasso) il Presidente, Sua Eccellenza, il Commendatore, Katya; il Generale è già morto, e Battaglia induce il figlio a suicidarsi sulla tomba del padre. Ma il finale rimescola le carte: Pietro Battaglia ha voluto e ottenuto il capitolo mancante di Petrolio solo per consegnarlo ai suoi veri mandanti, quattro figuri che indossano le stesse maschere di tigre, toro, uccello, Fantomas (che adesso è una donna) dei vecchi potenti ammazzati. Sono la ‘nuova gestione’ del potere, che vuole dunque insabbiare gli scandali di chi li ha preceduti: «e ci hai anche fatto il favore di eliminare quelle cariatidi dei nostri predecessori», dice la tigre, che in verità con la versione 2.0 della maschera adesso sembra più un leone. «Non è un favore, ve li ho messi nel conto», replica il nostro. Nell’ultima tavola della pagina, Battaglia si avventura in considerazioni dal vago sapore morale: «Voi che siete, o credete di essere potenti, pensate solo ad avere, spinti dall’avidità e dalla brama di sopraffare gli altri. L’unica cosa che vi spinge è il desiderio di imporre la vostra volontà e divorare tutto…». Ma il Battaglia etico dura un lampo: nella pagina successiva è solo il suo sorriso vampiresco a comparire mentre conclude: «… sono ottimi presupposti per una collaborazione». Si chiude così la storia, con un finale che la tavola di copertina (che è anche la tavola conclusiva, a tutta pagina) aveva già lasciato intuire: i quattro potenti della nuova generazione, con le loro maschere scintillanti, vi sono disposti come un gruppo di supereroi. Al centro Battaglia, leader del quintetto, tiene la testa mozzata di Pasolini in mano, acciuffata per i capelli come avrebbe fatto una Giuditta seicentesca (pp. 139-143).
In Ragazzi di morte, Pasolini è diventato un personaggio completamente interno al genere pulp dei supereroi noir. Delle sue opere sono usate solo Petrolio e Salò. Si prende in considerazione solo l’ultima fase, le sue produzioni più controverse e avvolte dal mistero, e ancora una volta il Pasolini che denuncia il potere. Secondo Giuseppe Pollicelli, gli autori (nello specifico: Recchioni e Luca Vanzella per i testi, Valerio Befani e Pierluigi Minotti per i disegni) hanno aderito «a modo loro alla mistica pasoliniana della “bestemmia”, hanno programmaticamente scelto la via della dissacrazione, del rifiuto di ogni timore reverenziale».[10] Può essere vero: una mistica c’è in questo fumetto, quella dell’eroe maledetto che ha ‘superato’ la morte, del redivivo che non ha chiuso i conti, del male come unico oggetto possibile del racconto. Battaglia è un cattivo-cattivo. Non è sadico ma machiavellico. Anche quando sembra che risistemi i conti, lo fa sempre al servizio di un male superiore. È un rovesciamento completo (ma anche piano e senza complicazione) del supereroe che agisce per conto del bene. E il personaggio di Pasolini aderisce in pieno alla poetica di Battaglia, è in fondo piegato alla sua logica.
3. Pasolini come supereroe al servizio del bene
Sul versante «supereroi al servizio del bene», non si può invece non fare sosta presso l’editore Becco Giallo, che a Pasolini ha dedicato ben due uscite. Becco Giallo è una casa editrice veneta, nata in provincia di Treviso e attiva a Padova, ormai nota nel panorama fumettistico nazionale. Il nome si ispira all’omonima rivista satirica antifascista che, scrive l’editore sul suo sito web, «negli anni Venti del secolo scorso utilizzava il disegno – assieme all’inchiesta giornalistica scritta – per criticare e incalzare il Potere».[11] Ha pubblicato finora un centinaio circa di fumetti biografici: ci sono pittori, scrittrici, calciatori, giudici, attiviste, scienziate, giornalisti. Con alcune eccezioni e ovviamente con rese autoriali diverse, ciò che molti di essi hanno in comune (soprattutto nelle fasi iniziali della collana, che via via si è aperta anche a proposte differenziate) è l’essere parte di una sorta di pantheon civile dello stato laico, di costruire una mitografia che in parte coincide con quella dei movimenti no-global dei primi anni Duemila: Falcone e Borsellino e Rosa Parks, Antonio Papisca e Fabrizio de André, Lea Garofalo e Peppino Impastato, Giorgio Gaber, Danilo Dolci, Gian Maria Volonté. È una linea editoriale chiara di fumetto engagé con intenti didattici. E proprio nella collana «Biografie» compaiono ben due fumetti dedicati a Pasolini, usciti a distanza di sette anni l’uno dall’altro: Gianluca Maconi, Il delitto Pasolini (2022) con la prefazione di Furio Colombo e Diario segreto di Pasolini. La vita di Pier Paolo Pasolini prima di diventare Pasolini, scritto e disegnato da Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini (2015).
In Diario segreto di Pasolini la scelta della grafica si discosta dagli altri fumetti biografici: pagine rigate a riprodurre un quaderno, disegni più sporchi e stilizzati, con uso del nero prevalente ma non esclusivo. Il colore entra in gioco per motivi e in circostanze precise, ad esempio per evocare e riprodurre una fase antica del Pasolini pittore di paesaggi. In effetti, la peculiare scelta grafica riproduce quella dell’impostazione generale: raccontare il Pasolini bambino e ragazzo, fino alla Seconda guerra mondiale e alla morte del fratello. Un Pasolini prima di diventare Pasolini: dunque con qualche rischio in meno di cadere nel mito e nell’agiografia, ma al contempo con la necessità di trovare una voce con cui affrontare questo spaccato di vita. La voce, i due autori, la trovano attingendo a piene mani nelle interviste, dichiarazioni, conversazioni, pagine autobiografiche, come accadeva già nel fumetto di Toffolo. Ma qui non si tratta di una maxi-intervista, bensì di un diario che parte dall’esperimento impossibile di registrare la parola del poeta da quando era ancora un feto nella pancia della madre. Dunque, l’infanzia di Pasolini viene raccontata attraverso il paradosso di una voce adulta e retrospettiva (la stonatura di un bambino di provincia che pronuncia frasi come: «ho scoperto che le parole sono dardi»),[12] che si allinea con i fatti narrati solo nella seconda parte del libro (la più bella), quella intitolata La guerra degli eredi e che comincia dal 1940. Di quel Pasolini abbiamo testimonianze diaristiche coeve, per cui possiamo sentire il racconto in presa diretta. Il fumetto giustappone felicemente pagine dal sapore baudeleriano – «Mi immalinconisco. Vorrei che la vita corresse fuori da questi schemi. La noia è un verme solitario nelle mie viscere che sfamo» – a quelle sulle passioni sportive del Pier Paolo ventenne: «Vado a giocare anche a pallacanestro. Sono schiappone ma mi diverto molto»; fino ai passaggi di un’introspezione disperata: «Voglio ammazzare un adolescente ipersensitivo e malato che cerca di inquinare la mia vita di uomo… anche se lo amo molto». Ci sono le amicizie maschili fedeli, l’ossessione sessuale, l’incontro con i maestri, la guerra. C’è perfino il Pasolini giovane pittore e ritrattista. Tutto è reso variando i registri espressivi. Si ricorre anche alla pittura su fotografia e allo stencil. Con la morte del fratello arriva l’«epilogo della fanciullezza», l’ultimo capitolo, il più cupo e tragico, che è quasi esclusivamente bicromatico, rosso e nero.
L’accuratezza testuale e la ricerca grafica sono il punto di forza del libro. Oltre a una scelta infelice di lettering (il diario è scritto con un font che simula un corsivo bambinesco, una specie di fairwater script che getta un velo di legnosa artificialità su tutto il fumetto), il vero punto debole è la decisione di affrontare l’infanzia di Pasolini come via d’accesso alla biografia. L’infanzia e non la giovinezza: è una scelta che avrebbe potuto essere coraggiosa se gli autori avessero deciso di affrontare la biografia con una voce propria, senza affidarla alle parole dell’autore. Nel simulare l’autobiografia, e dunque nel nascondere se stessi dietro la voce autorevole dell’autore (bisticcio voluto), Costantini e Stamboulis finiscono invece per ingombrare tutto il campo con la loro (personale, ma ancora una volta condizionata dal mito) idea che Pasolini è stato allo stesso tempo un perenne fanciullo e un bambino nato adulto, uno che ha pensato di sé sempre le stesse cose, uno con «il dono della parola» (titolo di uno dei capitoli iniziali), un «bambino prodigio», in cui il prodigio della parola si accompagna a quello di una precocissima consapevolezza sessuale. Un bambino edipico che tale resta anche da adulto, che è anche un modo per accedere alla dimensione della sua «omosessualità esemplare», associata al trauma della figura paterna, all’amore estremo per la madre. In una tavola, in cui questa è disegnata come una figura quasi divina, stilizzata e alata che tiene in grembo il figlio piccolo, il diario accompagna il disegno con queste parole: «Teta Veleta è quello che mi viene da dire quando la mamma si avvicina con il seno al mio capo».
Confrontando questo passaggio con la pagina dei Quaderni rossi in cui Pasolini racconta la sua «scoperta» di «Teta Veleta» ci si fa un’idea del procedimento del Diario segreto e, al contempo, di ciò che in questo procedimento proprio non va:
Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogn’altra cosa mi colpirono le gambe, soprattutto la parte concava posteriore al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendevano i nervi con un gesto elegante e violento. Io ne ero soggiogato. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavo l’essere grande in quel gesto di giovinetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio. Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome. Io lo inventai allora e fu “teta veleta”. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo “teta veleta”; qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione. Un giorno di nascosto uscii di casa diretto alla casa dove abitavano due fratelli, due adolescenti, che più degli altri mi facevano provare, col loro corpo così lontano dal mio, così entrato nell’interno di quel mondo di cui ero alle soglie, quel sentimento morbido. Mi recai da loro appositamente per provare “teta veleta”. Ricordo ancora come sentissi ch’era una colpa, e come tremassi tutto nel salire le scale, nel battere alla porta.[13]
I Quaderni rossi sono stati scritti nel 1946-47. Nico Naldini li usa nella sua Cronologia ma senza mai dimenticare la funzione proiettiva a cui questo tipo di testo assolve: proiezione del presente nel passato, rielaborazione, una voce carica del peso dell’oggi (Pasolini venticinquenne nell’Italia del Dopoguerra) che racconta l’infanzia bellunese (Pasolini bambino di tre anni). Un ricordo acceso e istantaneo che diventa articolato e narrativo; un ricordo oltretutto e molto probabilmente mediato dai racconti degli altri. Progettare un diario segreto può essere un’idea acuta e brillante, a patto che – condizione necessaria e non sufficiente alla buona riuscita – non si usino, per un falso diario d’infanzia ambientato negli anni Venti, le parole di un vero diario della prima età adulta scritto nella seconda metà degli anni Quaranta.
E veniamo ad oggi, centenario dalla nascita del poeta. Sette anni dopo Diario segreto è uscito Il delitto Pasolini, sempre per Becco Giallo. Il fumetto occupa una cinquantina di pagine, circa la metà del volume, che per il resto è composto da una introduzione di Furio Colombo, L’alba del giorno dopo (pp. 7-9), da una Cronistoria a cura di Marina Cattabiani (pp. 69-78), e da due saggi: Omicidio, indagini, versioni di Francesco Barilli (pp. 79-89) e Pasolini, visto da qui di Anedo Torbidoni (pp. 91-102). Nel fumetto si raccontano le ultime ore di Pasolini e si ricostruiscono i contorni dell’omicidio: Pino Pelosi fermato dai Carabinieri (che non parlano neppure romanesco), interrogatori, ritrovamento del corpo, confessione, ricostruzione di Oriana Fallaci, funerali e discorso funebre di Alberto Moravia; per poi spostarsi con un flashback alle ultime ore di vita del poeta. Grande spazio viene dato alla famosa ultima intervista con Furio Colombo, con un Pasolini nelle vesti di profeta che in una tavola a tutta pagina esclama: «Siamo tutti in pericolo!».
In un passaggio dell’intervista le parole pasoliniane prefigurano in modo esplicito (ovvero, sono affiancate a disegni) alcuni avvenimenti drammatici futuri della storia italiana e mondiale: l’omicidio di Aldo Moro e quello di Peppino Impastato, piazza Tienanmen, le Torri Gemelle. Seguono la cena con Ninetto Davoli (Pasolini gli dice: «Pensa a Dioniso, venuto a portare amore. Portò dissenso e sacrificio, o meglio ancora al Cristo… quando lui parlava ai suoi discepoli, loro che facevano?»; «Ascoltavano?» risponde un Davoli involontariamente comico), e poi l’incontro con Pelosi, fino all’Idroscalo. L’unico tentativo metaforico è rappresentato dalla presenza, intercalata tra le tavole e addensate in quelle finali (che hanno la pagina a fondo nero) di due tigri con alcuni tigrotti e un Pasolini-Marajah, che si rivela al cento per cento come colui che muore da martire. Qui si inginocchia di fronte alla tigre ed esclama: «mangiatevi la mia carne… salvatevi!». Mentre alcune figure nere col casco lo percuotono a morte, nella tavola conclusiva una tigre piangente spalanca le fauci per mangiarsi un Pasolini altrettanto lacrimoso e nudo. Naturalmente il riferimento è ad Appunti per un film sull’India, alla storiella che fa da punto di partenza per quella pellicola. Il fumetto è in bianco e nero, la fisionomia di Pasolini è quella iconica (mascella, solchi profondi nel viso, Ray-Ban scuri, impermeabile). Si contano sulle dita di una mano le tavole in cui di questo Pasolini-personaggio si vedono gli occhi, e si trovano per lo più nelle pagine finali: sono occhi socchiusi o vuoti o colmi di lacrime (pp. 58-65).
Gli occhi nascosti di Pasolini sono un motivo ricorrente anche nel numero di Linus che è stato dedicato a Pier Paolo Pasolini nel marzo 2022. Si comincia con la copertina di Francesco Ripoli (un ritratto dell’autore a tinte beige, con gli immancabili occhiali da sole da cui si intravedono gli occhi, eppure non si riesce a mettere a fuoco lo sguardo); passando per le strisce di Massimo Giacon, Pierpaolino – unico tentativo, anche se non riuscito, di caricatura comica – e quelle di Giuseppe Palumbo (Pasolini. Una povera metafisica italiana). Si aggiunge anche il Pasolini di Leila Mazzocchi, colorato, pensieroso, riconoscibile ma non iconico, che non ha gli occhiali ma gli occhi in penombra, rabbuiati.[14] Fa eccezione e anzi troneggia, in questo numero, il ritratto a matita di Tullio Pericoli: una raffigurazione anni Novanta subito cestinata dal suo autore. La salvò dall’immondizia Elisabetta Sgarbi, che la raccolse insieme ad altri schizzi, e su Linus la si è riprodotta per la prima volta.[15] È un ritratto a mezzobusto, camicia a righe, una canottiera che si intravede sotto, braccia conserte. Ed è totalmente frontale, dunque naso, righe e profilo della bocca, tutto si schiaccia in favore degli occhi, che diventano il centro espressivo del disegno. Scompare l’icona-Pasolini in favore di un paio di occhi intensi, seri, ma con un lampo di fanciullezza, che interrogano chi li osserva senza alcuna pretesa (mi sembra) di parresia. Non a caso il ritratto s’intitola Con occhiali neri in mano (si intravedono in basso a sinistra, ma sembrano occhiali da vista): è un Pasolini contropelo, umanizzato, che ha dismesso un po’ della sua immagine sacra.
4. Opere pasoliniane
Ci sono poi due fumetti che hanno provato a bypassare la biografia e a entrare nell’opera di Pasolini: uno è del 2016, risultato di un workshop di artisti coordinato sempre da Gianluca Costantini (che l’anno prima aveva disegnato Diario segreto) e realizzato da Lucio Ruvidotti, Arianna Farricella, Mattia Campo Dall’Orto, Olga Barbieri, Gianmarco Principi, Jessica Ranieri; l’altro è un fumetto di Gianfranco Vanni (nome d’arte Collirio) su Edipo re (Edizioni La Carmelina, 2022). Fumetti dunque – uno collettivo, l’altro individuale – su lavori cinematografici, già figurativi. Nessuno, finora, sull’opera letteraria del poeta, o sul suo «fumetto a colori» incompiuto, pieno di ironia, da leggersi «pensando alle comiche di Charlot o Ridolini, o ai fumetti di Paperino»:[16] nessuno, cioè, su quella parte cospicua della sua opera che lascerebbe più spazio all’immaginazione grafica, alla libertà narrativa e all’originalità dell’autore; e anche questo è sintomatico.
Edipo re riprende didascalicamente il film. I primi piani frontali della pellicola diventano la cifra del fumetto, suddiviso in sezioni che mettono l’accento sui singoli personaggi. Il disegno è bidimensionale, senza pretese di realismo nei confronti della fisionomia degli attori (significativamente, l’unico ritratto somigliante all’attore è proprio Pasolini nei panni del gran sacerdote, ripreso anche nella copertina del volume). Il fumetto è a colori con tonalità brillanti dai grandi contrasti: è ciò che maggiormente si distanzia dal film. Come è noto, Pasolini marca di autobiografismo la cornice della storia. All’inizio siamo negli anni Venti in un paese del nord Italia, in cui si seguono le vicende di una giovane coppia in cui il marito, militare di carriera, è geloso del proprio figlio maschio appena nato. Gianfranco Vanni ‘Collirio’ lo segue abbastanza fedelmente, inserendo anche le due didascalie che compaiono fra i fotogrammi iniziali. Tutto il film di Edipo re si sposta poi nell’antica Grecia, a Tebe, e anche qui il fumetto è fedele: disegni di inquadrature, stesse battute. Nel finale torna la cornice contemporanea, e un Edipo adulto vaga di città in città, di campagna in campagna: è un mendicante cieco che suona il flauto (siamo ora negli anni Sessanta). Qui Vanni decide di spostare l’azione ai giorni nostri: si vedono sullo sfondo un murale di Banksy, un gruppo di migranti mediorientali, i palazzoni di una periferia cittadina e l’insegna luminosa del centro commerciale Pilastro di Bologna. È questo l’unico tentativo di trasformazione autoriale dell’opera ma resta isolato, come un cenno a un’attualizzazione solo evocata e non costruita attraverso tutta l’opera. Oltretutto, Edipo re di Pasolini è un film che si apre e si chiude in una dimensione intimo-privata, in cui l’elemento di denuncia sociale è scarso se non assente.
La ricotta del collettivo Costantini (Giuda Edizioni 2016) è difficile da definire. Trattandosi di sette autori, ciascuno dei quali disegna poche tavole evocando una scena del libro, diventa pressoché impossibile darne un giudizio complessivo. L’evocazione in chiave geometrico-fauve della scena ispirata alla deposizione di Rosso fiorentino contiene buoni spunti, così come alcuni ritratti di Orson Welles. La giustapposizione di stili diversi (più o meno astratti, con o senza l’uso di vignette, con tecniche che variano dall’acquarello al pastello, dal bianco e nero ai colori, senza nessun tentativo di omogeneizzazione) crea effetti anche interessanti, ma non si va oltre l’esperimento. Non sembra ci sia un progetto di interpretazione complessiva dell’opera, o un’appropriazione in funzione di una poetica, seppur collettiva. Sono frammenti di un discorso appena cominciato. Bisogna comunque dire che Costantini, tra tutti gli autori di fumetti qui citati, sembra quello che ha ragionato di più sulle fonti e ha provato a percorrere una strada alternativa. Sia nel caso del Diario segreto che della Ricotta, tuttavia, la sensazione che in fondo non si esca dal mito Pasolini è piuttosto forte. D’altra parte, sia per Costantini che per Vanni, la scelta è caduta su film fortemente autoriflessivi (diverso sarebbe stato il caso, ad esempio, di Comizi d’amore o perfino Medea): l’uno è una messa in scena della dimensione edipica della propria esistenza, l’altro un film sul fare film, insomma un film sull’essere autore. Il Pasolini uomo, autore, perfino celebrity e figura pubblica è al centro di entrambe le opere, in un caso trasfigurato da Franco Citti, nell’altro da Orson Welles.
5. Macchine iconografiche e mitologia letteraria
Tutti questi fumetti confermano la diagnosi di Walter Siti. Che siano un campione non sufficientemente ampio per darne un suggello definitivo, mi pare ovvio; ma le controprove sono scarse. Certo non si può dire che il mito-Pasolini sia solo postumo (e Siti stesso è ben lontano dall’affermarlo), tantomeno quello iconografico. Andrea Cortellessa lo ha definito «la macchina infernale in cui lui stesso ha fatto in modo di trasformarsi restandone infine vittima». La definizione si capisce meglio tenendo presente che Cortellessa prende in prestito dall’opera di Furio Jesi (traslandolo un po’) il concetto di «macchina mitologica»:
Diciamo allora, con Furio Jesi, che quella che oggi risponde al suo nome è una «macchina mitologica»: quella in cui chi elabora il mito è lo stesso che lo consuma e – con reversibilità micidiale che ricorda il macchinario da tortura della Colonia penale di Kafka – ne viene anche consumato.[17]
È difficile stabilire con esattezza quando questa macchina mitologica si sia messa in moto. Se si prova a scorrere, se non le sue dichiarazioni pubbliche, anche solo l’iconografia pasoliniana (chi fa fumetti su di lui non potrà evitarlo), è palese lo scarto netto e preciso databile più o meno a metà degli anni Cinquanta: tra le foto precedenti e quelle successive c’è un abisso. Nelle foto degli anni Quaranta-Cinquanta, Pasolini è impacciato davanti all’obiettivo e vestito in modo simile a tutti gli altri ragazzi appena diventati uomini della sua generazione, completo di lana, camicia, cravatta, mocassini e cappotto. Ce lo immaginiamo di uno spigato color talpa scuro (stesso colore dei capelli), scarpe nere. Le foto di Pasolini al Mandrione, datate 1959 e scattate da Ovidio Pallottelli (Archivio Rizzoli) sono tra quelle che segnano uno stacco dalle foto-per-caso alle foto professionali, e che iniziano a comporre un’iconografia pubblica dello scrittore. L’abbigliamento candido e immacolato contrasta col grigio sporco (grigio cemento scrostato e muffa, ma anche, con un po’ di immaginazione, marrone polvere e terra) dei muri e della terra della borgata, coi vestiti sudici dei bimbetti che prende in braccio. È il Pasolini che inizia ad avvicinarsi a quello finale, coi Ray-Ban neri d’ordinanza, il collo alto, l’impermeabile sartoriale un po’ truce. È il Pasolini che ha un fotografo con sé.[18] Ed è quasi solo questo ultimo Pasolini che troviamo nei fumetti.
C’è un momento, dunque, progressivo forse ma anche piuttosto identificabile (dal periodo Ragazzi di vita e dei processi) in cui Pasolini diventa un’icona pubblica; e un momento, successivo alla sua morte, in cui l’icona si trasforma in mito. La difficoltà è capire perché questo mito persiste. Certo è bipartisan (dice Siti) e ha una componente di necrofagia (sostiene Cortellessa sulla scorta di Elvio Fachinelli), «fa colto», e la sua opera è piena di corpi nudi (ancora Siti).[19] Ma, d’altra parte, mi pare che una certa pigrizia tautologica avvolga molte operazioni culturali su Pasolini (o almeno quelle di cui si è ragionato fin qui). Oggi abbiamo, avremmo, tutti gli strumenti storico-filologici e critici per entrare nella vita dell’autore e per storicizzarla a dovere senza lasciarsi andare a facili verità. Avremmo anche il tempo dalla nostra: le foto del cadavere di Pasolini in prima pagina sui quotidiani non sono più un ricordo vivo (la mia generazione le ha viste per la prima volta da adulta negli archivi online dei quotidiani) e nemmeno il circo mediatico che ne seguì. Casomai, sono elementi che fanno parte di un dato storico da analizzare come un fattore decisivo per la costruzione del mito. Eppure questo sembra non avvenire, sembra che la domanda sul canone tenda a nasconderne una, forse invece più urgente, sulla mitologia letteraria che si va costruendo. E non è un caso, tra l’altro, che la quasi totalità di questi fumetti siano usciti in occasione di un anniversario: l’ottantesimo dalla sua nascita, il quarantesimo dalla sua morte. Ma la letteratura, se ha un senso residuo oggi, dovrebbe forse poter procedere in direzione opposta alla mitopoiesi. Invece è evidente che abbiamo bisogno ancora di farci vivificare dalla voce (e dalla cosiddetta ‘postura’, parola che sarebbe meglio rendere al contesto ortopedico che ce l’ha prestata) di Pasolini in occhiali scuri che urla «siamo tutti in pericolo!» oppure «Io so ma non ho le prove»; e che non esiste nessuno che abbia il coraggio, lo spirito e l’immaginazione (come avrebbe potuto averne un Andrea Pazienza) di prendere davvero in giro, dissacrare, fare satira su PPP e sui suoi fan. Anche questa, più di altre, sarebbe una lezione pasoliniana. Perché invece Pasolini ci serve ancora come una divinità di un pantheon, o come un gran sacerdote in corona di fiori martirizzato o, ancora, nella sua versione pop, come un supereroe che ci redime dal male? La domanda vorrebbe essere seria.
* In riferimento alle immagini tratte dai fumetti di Origa, Toffolo, Recchioni Vanzela e Befani, Maconi, Vanni e Costantini, gli autori rimangono comunque a disposizione di altri eventuali aventi diritto laddove non sia stato possibile rintracciarli.
1 I disegni di G. Origa sono stati ripresi, esposti e pubblicati in occasione dei quarant’anni dalla morte dell’autore: si veda il blog di Origa Identità di carta ospitato sul sito del Il Sole 24 Ore. Cfr. G. Origa, ‘Identità di carta’, Il Sole 24 Ore, <https://grazianooriga.nova100.ilsole24ore.com/> [accessed 10 October 2022].
2 Numeri di pagina non presenti nell’edizione.
3 W. Siti, ‘Il mito Pasolini’, MicroMega, n. 6, 2005, pp. 109-112; poi in W. Siti, ‘Il mito Pasolini’, Le parole e le cose, 2 novembre 2015, < https://www.leparoleelecose.it/?p=23962> [accessed 10th October 2022].
4 Lettera di P.P. Pasolini a Livio Garzanti, Roma, gennaio 1967, in P.P. Pasolini, Le lettere, nuova edizione a cura di A. Giordano e N. Naldini, Milano, Garzanti, 2021, p. 1352: «Infine c’è il progetto di un libro molto strano. Si tratta di questo: ho in mente una dozzina di episodi comici, che vorrei girare ancora con Totò e Ninetto, ma forse non potrò farlo per i troppi impegni. Ora, la sceneggiatura dell’ultimo episodio “LA TERRA VISTA DALLA LUNA”, l’ho stesa sotto forma di fumetto a colori (ripescando certe mie rozze qualità di pittore abbandonate). Stando così le cose, mi piacerebbe, piano piano, di mettere insieme un grosso libro di fumetti – molto colorati e espressionistici – in cui raccogliere tutte queste storie che ho in mente, sia che le giri, sia che non le giri». Il fumetto, conservato presso l’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, è stato pubblicato integralmente: P.P. Pasolini, La Terra vista dalla Luna, Firenze, Edizioni Polistampa, 2010.
5 Ibidem.
6 Pasolini di Davide Toffolo (Rizzoli 2022) non ha i numeri di pagina.
7 Ivi, p. 112.
8 G.M. Annovi, ‘Pasolini zombie’, Alfabeta2, 2 settembre 2010, p. 13. Annovi riprende il discorso anche in Id., Pier Paolo Pasolini. Performing Authorship, New York, Columbia University Press, 2017.
9 L’intervista è quella del 1971 per il programma tv Terza B. Facciamo l’appello, all’epoca censurata dalla Rai e andata in onda postuma, il 3 novembre 1975, il giorno dopo la morte di Pasolini. È visibile sul sito delle Teche Rai.
10 G. Pollicelli, ‘Battaglia il vampiro e il sangue di Pasolini’, Fumettologica, 1° agosto 2017, <https://fumettologica.it/2017/08/battaglia-ragazzi-morte-recensione/> [accessed 10 October 2022].
11 Presentazione della casa editrice sulla pagina web Cfr. Becco Giallo, ‘Chi siamo’, <https://beccogiallo.it/chi-siamo/> [accessed 10 October 2022].
12 Diario segreto di Pasolini di Costantini Stramboulis (Becco Giallo 2015) non ha i numeri di pagina.
13 P.P. Pasolini, Dai «Quaderni rossi», in Id., Romanzi e racconti 1946-1961, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due saggi di W. Siti, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1998, pp. 131-157, pp. 131-132.
14 Le illustrazioni di L. Marzocchi su Linus, LVIII, 682, 3, marzo 2022 sono a p. 43 e a p. 46; ‘Pierpaolino’ di M. Giacon è alle pp. 63-64; ‘Pasolini. Una povera metafisica italiana’ di G. Palumbo è alle pp. 69-73.
15 E. Sgarbi, ‘Disegni raccolti dal cestino’, illustrazione di Tullio Pericoli, Linus, LVIII, 682, 3, marzo 2022, pp. 62-63.
16 P.P. Pasolini, Il Buro e la Bura (o ‘La Terra vista dalla Luna’), in Id., La Terra vista dalla Luna, p. 7.
17 Le citazioni sono tratte da: A. Cortellessa, ‘Pasolini uno e bino. L’opera contro il mito’, Antinomie, 3 marzo 2022, <https://antinomie.it/index.php/2022/03/03/pasolini-uno-e-bino-lopera-contro-il-mito/> [accessed 10 October 2022]. Per il concetto di «macchina mitologica» si veda F. Jesi, Mito [1973], Milano, Mondadori, 1980, in particolare pp. 105-109.
18 Sul Pasolini fotografato si vedano a titolo esemplificativo S. Chiodi, ‘Dalla voce alla presenza. Il corpo del poeta nel tempo dello spettacolo’, Engramma, 181 (Vedere, Pasolini), maggio 2021<http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=4191> [accessed 10 October 2021] e M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Milano, Guanda, 2010.
19 W. Siti, Il mito Pasolini., p. 111.