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Questo appunto, datato giugno 1987 e icasticamente intitolato Quando prendiamo un appuntamento al buio con la consunzione, è solo uno dei tanti in cui compare il nome di Pasolini. Per Jarman il poeta bolognese rappresenta una sorta di feticcio, il modello di un’audacia letteraria ed erotica che fin dalla giovinezza assurge a paradigma, declinandosi poi in vari modi.

Provando a pedinare le diverse forme di contatto fra i due, è possibile individuare almeno tre livelli di convergenza. Il livello più immediato è quello biografico-artistico, che si traduce in una serie di analogie dai risvolti interessanti. Sul piano delle relazioni parentali di Jarman si segnala il rapporto contrastato col padre – uomo d’ordine di una severità esemplare – e di contro il rapporto privilegiato con la madre, di cui egli ammira la dedizione e il carattere. La rigidità dell’educazione ricevuta condizionerà molto l’orientamento emotivo di Jarman, come emerge da numerosi passaggi dei suoi diari in pubblico dedicati al ricordo della durezza paterna e, insieme, al rimpianto per la figura della madre. Alla luce di tale rapido quadro familiare è facile intuire le somiglianze con la vita di Pasolini, che però non si limitano al dato meramente biografico ma si traducono presto in una sorta di reciprocità di destino e di sentimenti, come lascia intendere in fondo lo stesso Jarman:

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Siamo all’inizio di Uccellacci e uccellini: Totò e Ninetto, comparsi da un’indefinita strada della periferia romana, arrivano in un isolato casolare adibito a bar. Mentre Totò ordina da bere, Ninetto non resiste alla tentazione di aggregarsi ai ragazzi che, di fronte a un juke-box, stanno ballando sulle note di uno scatenato rock. Prima gli rivolge la parola il compare più effeminato, che a un certo punto, senza spiegazioni, si ritirerà dal ballo; poi si unisce anche il capelluto barista, che mostra a Ninetto i quattro passi della disordinata coreografia del gruppo. Nelle inquadrature frontali, come nell’immagine, i ragazzi sembrano muoversi su una sorta di improvvisato palcoscenico, da recita paesana, in cui la tenda a frange della porta funziona da quinta per l’entrata e l’uscita dei personaggi. Ne scaturisce un’accentuazione dell’aspetto iconico-performativo dei corpi nonché del significato ludico del ballo, interrotto soltanto dall’arrivo dalla corriera che riporta i ragazzi alla realtà: mentre la musica continua a suonare, li vediamo – in campo lungo – allontanarsi dal bar e rincorrere a perdifiato il mezzo che li sta lasciando a piedi.

Siamo anche a metà circa degli anni Sessanta; il film, ideato nel 1965 e presentato al Festival di Cannes l’anno dopo, segue di non molto una dichiarazione rilasciata da Pasolini nell’ambito dell’inchiesta sulle canzonette promossa da Vie nuove nel 1964:

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A cavallo tra anni Sessanta e Settanta Pasolini e Maria Callas si frequentano in modo assiduo per ragioni di lavoro e non solo. I fotografi sono all’opera. Certi scatti restano nella memoria, consegnati per sempre agli archivi: un bacio sulla bocca in aeroporto, per la gioia dei rotocalchi che cercarono di alimentare prevedibili equivoci. E poi: in spiaggia a Sabaudia; ad Aleppo; in Cappadocia e a Grado, nel caldo dell’estate del 1969, lei in pesantissimi costumi di scena e lui, come di consueto, senza una traccia di fatica o sudore, in abiti candidi e freschi, mentre la dirige sul set; in motoscafo d’estate a Trigonissi; e ancora in Mali, in compagnia di Moravia e Morante, in altre educative peregrinazioni, come si addiceva a quei compagni di viaggio (registriamo le reciproche adattabilità: lei che si piega a dormire in branda con la Maraini, lui che fa altrettanto con lo yacht “Cristina”); le conferenze stampa e la prima parigina di Medea. E così via.

Tra tutte le serie che compongono l’album Pasolini/Callas trattengo questo scatto fatto al volo, in prossimità della prima parigina di Medea. Non certo una bella foto. Ma una foto in cui nessuna ‘posa’ è possibile. Di fronte agli obiettivi, esposti alle luci dei flash, la Callas e Franco Rossellini in primo piano, dietro PPP, pressappoco irriconoscibile, (auto?)confinato quasi a bordo campo, forse titubante, a confermare una generale perplessità che investe quasi tutte le immagini catturate in occasioni mondane con la cantante. È come se il singolo scatto raccogliesse su di sé un certo timore per l’uso pubblico che l’intero album PPP/Callas avrebbe potuto generare. Timore non infondato. Perché è l’interezza dell’album che, a quasi mezzo secolo di distanza, riverbera significati non previsti. Più gli aneddoti e gli scatti fotografici aumentano intorno a questo binomio improbabile, più mettiamo in fila i momenti di lavoro sul set, di intimità al riparo dalle serate mondane, di raccoglimento e confessione dei reciproci ‘conflitti interiori’, e più aumenta la vertigine dell’Inautentico. Ecco dunque PPP che dipinge per la musa e la ritrae utilizzando gli elementi della Natura come petali, terra, frutta macerata e succhi di fiori (pare che Nadia Stancioff, assistente della Callas e fucina di aneddoti non so quanto volontariamente maligni, abbia sentito il poeta sussurrare senza ironia una frase in seguito foriera di interpretazioni dietrologiche impossibili da ricordare qui: «Questo è fare arte. Ora deve asciugare al sole per ventiquattr’ore. Ne farò tre soltanto, e uno sarà per te»). Ed ecco le poesie e i versi che lui le dedica. E quando questi verranno senza indugio sparpagliati in più sedi editoriali (Su Nuovi Argomenti, in appendice alla sceneggiatura di Medea e in sezione apposita in Trasumanar e organizzar) e i critici taceranno distratti, PPP si auto-recensirà polemicamente su Il Giorno del 3 giugno 1971, indisposto almeno in apparenza a sospettare dietro al silenzio una qualche forma di cortesia.

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La sera del 22 settembre del 1962, alla prima romana di Mamma Roma, Pasolini prende a schiaffi un giovane studente di estrema destra che gli urlava «Pasolini, in nome della gioventù nazionale, ti dico che fai schifo». Lo studente reagisce e a sua volta colpisce Pasolini, dando soddisfazione, ad esempio, a Lo Specchio che intitola un articolo (di rara volgarità e tetro godimento) Hanno battuto le mani a “Mamma Roma” sulla faccia di Pasolini. In quelle poche righe, l’anonimo articolista racconta di un Pasolini picchiato, salvato solo dall’intervento di Sergio Citti («che si notava per la particolare distinzione») e infine ritiratosi tra le fila dei suoi sodali «Laura Betti, l’attore dalla faccia di mattone Ettore Garofalo, Pietro Murgia, l’assistente alla regia Banchero, il regista Bertolucci con Adriana Asti e ultimo Alberto Moravia». Vengono pubblicate tre fotografie, due con Pasolini (nell’atto di sferrare il suo colpo e tramortito dal colpo dell’altro) e una con Sergio Citti che si getta a peso morto sullo studente, atterrandolo.

A guardarle oggi, quelle foto, Pasolini non è, come vorrebbero i redattori di quelle pagine, il debole frocio, l’esangue intellettuale, il noioso comunista che poi, dopo averle prese di santa ragione e aver tentato «di reagire con poco profitto», se ne va con gli amici al party offerto da Anna Magnani per festeggiare l’uscita del film (ci sarebbero già abbastanza elementi per uno studio socio-politico-culturale del nostro cinema…). A guardarle oggi, Pasolini è come l’avremmo voluto sempre vedere: teso, pronto a scattare, incapace di porgere l’altra guancia, inadatto alle iconografie da Ecce Homo, servo umile delle verità scomode, concentrato di tutto ciò che di minoritario o contraddittorio può esistere. Non c’è, nella fotografia del Pasolini picchiatore, nessuna voluttà nella sofferenza, nessun nemico nascosto, nessuna conoscenza certa priva di prove, ma c’è la ribellione del corpo, negli occhi semichiusi dietro gli occhiali spessi, nei denti digrignati che cancellano le spigolosità familiari del viso (così evidenti, invece, nell’immagine del Pasolini colpito), nel piccolo pugno fermato lontano dal suo bersaglio.

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C’è un libro o un saggio su quasi tutto quello che ha fatto Pasolini nella sua vita. Ammesso che si possa ancora prendere per buona la teoria della doppia articolazione su cui si baserebbero sia la lingua del cinema sia quella della realtà, le circostanze hanno portato ad una paradossale accumulazione di speculazioni. Si è iniziato, ovviamente, dai testi che si occupavano della storia nel suo insieme (la vita e le opere di PPP). Quando il tema si è saturato, si è passati ad analizzarne i differenti «sintagmi», accorpati o scomposti: il cinema di Pasolini, le sceneggiature di Pasolini, le poesie di Pasolini, per poi concentrarsi, in modo sempre più parziale e capillare, su ciascuna singola componente di questi «monemi»: il singolo film, il singolo verso, le relazioni connettive, tutto ciò che stava dietro e davanti ad esse, i documenti rivelatori e ogni minimo scartafaccio. Quando anche su ciascuno di questi aspetti si sono moltiplicati i testi, le notazioni, i punti di vista, si è giunti ad analizzare con la stessa pedante acribia anche i «fonemi pasoliniani», gli elementi spuri, magari isolati dal contesto, privi di un senso autonomo. Singoli fatti bruti, inquadrature non montate, capaci di dire tutto e il contrario di tutto, come qualsiasi fotografia; capaci di manipolare, dunque utili per partecipare alla beatificazione e al linciaggio – due facce della stessa medaglia – che ancora impedisce di storicizzare Pasolini e lo obbliga a essere ininterrottamente ucciso, da quarant’anni a questa parte.

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Correva l’anno, si leggeva un tempo nel più convenzionale incipit dei racconti storici. E nell’Italia del “tutti a casa”, che con l’8 settembre del ’43 si era illusa di essere uscita dalla guerra, corsero davvero i giorni del 1944. Nel segno della tragedia collettiva rotolarono anzi a precipizio, dovunque ma soprattutto in Friuli, terra travagliata dal confine sempre conteso, e in particolare a Casarsa, che la posizione geografica e militare – l’insediamento di caserme, il ponte sul Tagliamento, la presenza di una stazione ferroviaria di rilievo – aveva elevato a obiettivo strategico da colpire o da presidiare: per gli alleati che vi sganciavano bombe sull’abitato e sui treni; per i partigiani che vi compivano azioni di sabotaggio e disturbo; per i fascisti e i tedeschi occupanti che vi reagivano con rastrellamenti, carcerazioni o altre violenze ancora più cruente.

Casarsa, luogo materno di spensierate vacanze estive prima della guerra, non era più un tranquillo rifugio nemmeno per il giovane Pasolini, che magari temporaneamente, in attesa della fine del conflitto, aveva pensato di riparare proprio lì, in fuga dai pericoli bellici che parevano minacciare Bologna con rischi più elevati. Sul finire del 1942 vi si era dunque trasferito con la madre e il fratello Guido, sistemandosi alla meglio nella grande casa Colussi, nido caldo di affetti protettivi e femminili, pieno di zii, zie e cugini. Con un rocambolesco viaggio di fortuna da Livorno, dove faceva il servizio militare, vi era rientrato anche dopo l’8 settembre ’43: una fuga pure in quel caso, dopo essere riuscito per un soffio a non cadere nelle mani dei tedeschi, inferociti per il tradimento dell’alleato italiano.

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Sono stato razionale e sono stato

irrazionale: fino in fondo.

P.P. Pasolini, Frammento alla morte

 

Nel dicembre 1968 Pier Paolo Pasolini inizia le riprese (in Tanzania e Uganda) di Appunti per un’Orestiade africana, film tratto dall’Orestiade di Eschilo che avrebbe dovuto far parte di un progetto mai realizzato dal titolo Poema del Terzo Mondo, riguardante i cinque continenti in via di sviluppo (Africa, India, Paesi Arabi, America del Sud, Nord America).

Il tema principale degli Appunti, ricercato attraverso la lettura della tragedia trasposta nell’Africa moderna, è la trasformazione delle Furie, definite fin da subito «le dee del terrore atavico, ancestrale», in Eumenidi, o meglio la possibile attuazione di tale processo, il quale consente infine che le divinità dei sogni e dell’irrazionale coesistano accanto alla democrazia razionale. Di particolare interesse è dunque l’immagine che Pasolini sceglie per le Erinni, «irrappresentabili sotto l’aspetto umano» e quindi rintracciabili solo nella mostruosità e nella terribilità di grandi alberi «perduti nel silenzio della foresta», che incarnano l’irrazionalità animale contrapposta alla ragione delle Eumenidi. Le Furie sono ritrovate, più in generale, nella solitudine, nei silenzi e nelle forme mostruose che può assumere la natura, proprio perché, come afferma la voce narrante, «sono le dee del momento animale dell’uomo». Così, di fianco all’immagine degli alberi, Pasolini ipotizza anche quella di una leonessa ferita, «perduta nel suo cieco dolore». La possibilità di concepire diversi alias per i ‘personaggi’ (vale per le Furie ma anche per Agamennone) veicola le due idee portanti del progetto: la centralità dell’autore quale artefice unico e il pretesto degli appunti. Tale dicotomia è d’altronde rivelata fin da subito: nella prima inquadratura Pasolini, camera in spalla, si specchia nella vetrina di un negozio di una città africana, spiegando: «sono venuto evidentemente a girare, ma a girare che cosa? Non un documentario, non un film, sono venuto a girare degli appunti per un film». Credo sia precisamente con tale strategia che l’autore riesce a rispettare la volontà di caratterizzarsi quale unico creatore dell’opera, dall’ideazione alla realizzazione. Questo intento parte da un presupposto metodologico: Pasolini cerca negli Appunti di riproporre le modalità creative di cui si serve in scrittura, caratterizzate da continue modifiche, cancellature, revisioni e riletture. Può farlo proprio in quanto unico autore: oltre a porsi fin da subito come concreto realizzatore delle scene (operatore di camera), presta anche la propria voce ad ogni immagine, esegue il montaggio e chiede personalmente a Gato Barbieri di commentare in senso musicale le riprese. Si tratta di un possesso completo, dall’intuizione all’espressione, che permette cambiamenti e correzioni: negli Appunti Pasolini dimostra di non avere bisogno di operatori, voci narranti, addetti alle luci, costumisti, e nemmeno di attori (è lui infatti a scegliere chi inquadrare in una moltitudine di volti). L’idea stessa di portare nell’Africa contemporanea la tragedia di Eschilo è modificata in corso d’opera: in un primo momento sono scelti l’ambiente e i personaggi, poi il racconto è interrotto da una parte musicale, che risponde alla nuova intuizione di Pasolini di «fare cantare anziché far recitare l’Orestiade. Farla cantare per la precisione nello stile del jazz e, in altre parole, scegliere dunque come cantanti-attori dei negri americani».

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la mescolanza delle due cose infastidisce, è un'incrinatura, un turbamento della forma, dello stile.

P.P. Pasolini, La forma della città

 

Pier Paolo Pasolini a Sana’a di fronte le mura della città vecchia osserva i luoghi scelti come set di Alibech, unico episodio (peraltro poi non confluito nel montaggio finale) del Decameron non girato nel napoletano. Il 18 ottobre 1970, l’ultima domenica che avrebbe trascorso con la troupe nello Yemen del sud, con un po’ di pellicola avanzata dalle riprese e con le ultime energie residue («energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare – dirà poi il regista al Corriere della Sera – ci tenevo troppo a girare questo documento») gira un cortometraggio in forma di appello all’UNESCO per la salvaguardia della città: Le mura di Sana’a.

Prodotto da Franco Rossellini, con la fotografia di Tonino Delli Colli e l’aiuto al montaggio di Tatiana Casini Morigi, il film è una sorta di reportage poetico, mandato in onda dalla Rai all’interno della rubrica boomerang il 16 febbraio del 1971 (in una forma embrionale in cui mancavano le sequenze su Orte e Sabaudia) e proiettato poi al Cinema Capitol di Milano in occasione dell’anteprima de Il Fiore delle mille e una notte (1974), opera per la quale Pasolini era tornato a Sana’a per girare le scene dell’episodio di Aziz e Aziza. Le due sequenze sulle città di Orte e Sabaudia verranno aggiunte dopo che Pasolini realizzerà insieme al regista Paolo Brunatto La forma della città (1974), per una trasmissione Rai (Io e...) curata da Anna Zanoli, una storica dell’arte della cerchia di Roberto Longhi.

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C’è l’Africa di Pasolini. C’è il Friuli di Pasolini. C’è persino la Tuscia di Pasolini che a Chia, provincia di Viterbo, comprò una torre medievale dove visse gli ultimi anni della sua vita o almeno i fine settimana. Un luogo misterioso e isolato. Poco raccontato dalla mitologia pasoliniana. C’è anzitutto la Roma di Pasolini. Ma poiché si tratta di una città che si contendo in molti, sarebbe più corretto dire che c’è il Pigneto di Pasolini. Quella tra Pasolini e il Pigneto è un’associazione più forte e radicale del legame che unisce Fellini alla Fontana di Trevi o via Veneto. Un legame al riparo dalle contaminazioni turistiche, o in genere così si pensa. Se però cerchiamo un alloggio da queste parti su «airbnb» subito ci spiegano che «Pigneto is known as one of the most fashionable and artistic Rome neighborhoods, famous as the favourite set of Pasolini and Neo Realism cinema and a trendy area mixed with the flavor of the old and authentic Rome». Nel 1961, durante le riprese di Accattone, il Pigneto non era molto trendy. Per realizzare il film furono scelti vari luoghi della città. Quartieri popolari come il Testaccio, Centocelle, la borgata Gordiani. Ma di tutta la mappa urbana di Accattone – che include anche luoghi celebri come il ponte di Castel Sant’Angelo – il Pigneto rappresenta al meglio la sintesi tra la Roma letteraria di Ragazzi di vita o Una vita violenta e quella cinematografica di Accattone. Stretto la via Prenestina e la Casilina, il quartiere era all’epoca un borgo di case popolari con strade sterrate e baracche. Per il cinema non si trattava di un quartiere qualsiasi. Qui Rossellini ha girato molte scene di Roma città aperta. Qui è ambientata la celebre sequenza della morte di Anna Magnani, icona del neorealismo e del nostro immaginario resistenziale e repubblicano. Alla metà degli anni Cinquanta, il film di Rossellini circola di nuovo nelle sale di parrocchia e nelle arene di quartiere allestite d’estate nella città. Pasolini rievoca «l’epico paesaggio neorealista» nella celebre poesia dedicata a una visione di Roma città aperta che comparirà poi nella raccolta La religione del mio tempo, uscita proprio nel 1961:

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