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In questo saggio l’autrice analizza il tema della ferita in un insieme eterogeneo di testi e immagini della prima guerra mondiale. Il corpus analizzato, che include interventi militanti, testi letterari e giornalistici e prodotti propagandistici veri e propri, mostra una grande varietà di strategie retoriche di rappresentazione della violenza subita. L’ipotesi alla base del saggio è che la rappresentazione del corpo ferito non è semplicemente censurata nella produzione che più apertamente fa propri i fondamenti del discorso pedagogico della nazione in guerra; al contrario, come nel caso esemplare del libro per bambini Il cuore di Pinocchio, l’idea della sovranità assoluta che la patria esercita sul corpo dei soldati è espressa senza alcuna censura.

In this paper, the author analyses the representation of wounded bodies in a diverse corpus of texts and images of WW1 culture. This corpus, which includes literary texts, newspapers articles, and propagandistic materials, showcases a wide variety of rhetorical devices aiming to give shape to suffered violence. The hypothesis underpinning the paper is that the representation of the wounded body is not simply censored within those products that openly endorse the core of the pedagogy of the nation at war; on the contrary, as in the case of the children book Il cuore di Pinocchio, the idea of the absolute sovereignty that the homeland exerts on soldiers’ bodies is expressed with no understatement.

 

1. Ferite e valore d’uso

In una illustrazione pubblicata sul numero 10 della Ghirba, apparso nel giugno del 1918, un militare in licenza – probabilmente un graduato – si ferma a chiacchierare con una ragazza davanti a un teatro improvvisato. Due battute galanti, nello stile leggero della Ghirba, accompagnano l’illustrazione:

Il corpo del soldato, in realtà, appare perfettamente integro, non ci sono fasciature evidenti, né mutilazioni in vista. Un cortocircuito abita la scena: gli effetti della violenza sono appena accennati attraverso il codice verbale ma sono del tutto assenti dall’immagine. Si apre una discrepanza tra ciò che si vede e ciò che si dice, perché mentre per lo spettatore le ferite restano nascoste, per la ragazza corteggiata esse sono il segno – verrebbe da dire il supporto – su cui si innesta l’attrazione verso il soldato: la ferita è la metonimia del coraggio maschile, il residuo tangibile dell’esperienza virilizzante del combattimento, il marchio che ‘erotizza’ il corpo che lo reca e lo rende desiderabile. La risposta del soldato sigilla questo piccolo cerchio di figure: le ferite reali – eppure invisibili all’occhio esterno dello spettatore – producono una ferita metaforica, un vulnus al cuore in cui, in nome del binomio di piacere e sofferenza, il desiderio e il suo doppiofondo masochistico si saldano insieme. I segni della violenza subita parlano di una maschilità compiuta,[2] letteralmente guadagnata sul campo di battaglia e dunque pronta ad essere ricompensata sessualmente. Il dolore della lacerazione della carne non ha posto in questo quadro: se il linguaggio allude alla realtà effettiva di quelle lacerazioni, tutto nella vignetta spinge per cancellarla, trasporla sul piano delle metafore, trasformarla in uno degli enunciati ideologici centrali nel discorso della propaganda bellica: il corpo del soldato ha il suo dover essere in una versione lacerata – o eventualmente distrutta – di sé. È solo in quella lacerazione, il cui dolore non può essere pronunciato, che quei corpi maschili si compiono, svelando la propria disponibilità ad essere usati e liquidati in nome di una rete di enunciati performativi sul sacrificio e la patria che sono alla base del discorso nazional-patriottico moderno.[3] La ferita aumenta il valore d’uso di quel corpo, che diviene attraente, forte e coraggioso proprio in virtù del suo essere lacero. In questa economia paradossale, più il corpo si approssima alla distruzione e più il suo capitale simbolico aumenta. Il corpo inservibile, il cadavere, è quello che vale di più.

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Correva l’anno, si leggeva un tempo nel più convenzionale incipit dei racconti storici. E nell’Italia del “tutti a casa”, che con l’8 settembre del ’43 si era illusa di essere uscita dalla guerra, corsero davvero i giorni del 1944. Nel segno della tragedia collettiva rotolarono anzi a precipizio, dovunque ma soprattutto in Friuli, terra travagliata dal confine sempre conteso, e in particolare a Casarsa, che la posizione geografica e militare – l’insediamento di caserme, il ponte sul Tagliamento, la presenza di una stazione ferroviaria di rilievo – aveva elevato a obiettivo strategico da colpire o da presidiare: per gli alleati che vi sganciavano bombe sull’abitato e sui treni; per i partigiani che vi compivano azioni di sabotaggio e disturbo; per i fascisti e i tedeschi occupanti che vi reagivano con rastrellamenti, carcerazioni o altre violenze ancora più cruente.

Casarsa, luogo materno di spensierate vacanze estive prima della guerra, non era più un tranquillo rifugio nemmeno per il giovane Pasolini, che magari temporaneamente, in attesa della fine del conflitto, aveva pensato di riparare proprio lì, in fuga dai pericoli bellici che parevano minacciare Bologna con rischi più elevati. Sul finire del 1942 vi si era dunque trasferito con la madre e il fratello Guido, sistemandosi alla meglio nella grande casa Colussi, nido caldo di affetti protettivi e femminili, pieno di zii, zie e cugini. Con un rocambolesco viaggio di fortuna da Livorno, dove faceva il servizio militare, vi era rientrato anche dopo l’8 settembre ’43: una fuga pure in quel caso, dopo essere riuscito per un soffio a non cadere nelle mani dei tedeschi, inferociti per il tradimento dell’alleato italiano.

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