3.8. Il maestro Pasolini e la ‘meglio gioventù’ del Friuli contadino

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Correva l’anno, si leggeva un tempo nel più convenzionale incipit dei racconti storici. E nell’Italia del “tutti a casa”, che con l’8 settembre del ’43 si era illusa di essere uscita dalla guerra, corsero davvero i giorni del 1944. Nel segno della tragedia collettiva rotolarono anzi a precipizio, dovunque ma soprattutto in Friuli, terra travagliata dal confine sempre conteso, e in particolare a Casarsa, che la posizione geografica e militare – l’insediamento di caserme, il ponte sul Tagliamento, la presenza di una stazione ferroviaria di rilievo – aveva elevato a obiettivo strategico da colpire o da presidiare: per gli alleati che vi sganciavano bombe sull’abitato e sui treni; per i partigiani che vi compivano azioni di sabotaggio e disturbo; per i fascisti e i tedeschi occupanti che vi reagivano con rastrellamenti, carcerazioni o altre violenze ancora più cruente.

Casarsa, luogo materno di spensierate vacanze estive prima della guerra, non era più un tranquillo rifugio nemmeno per il giovane Pasolini, che magari temporaneamente, in attesa della fine del conflitto, aveva pensato di riparare proprio lì, in fuga dai pericoli bellici che parevano minacciare Bologna con rischi più elevati. Sul finire del 1942 vi si era dunque trasferito con la madre e il fratello Guido, sistemandosi alla meglio nella grande casa Colussi, nido caldo di affetti protettivi e femminili, pieno di zii, zie e cugini. Con un rocambolesco viaggio di fortuna da Livorno, dove faceva il servizio militare, vi era rientrato anche dopo l’8 settembre ’43: una fuga pure in quel caso, dopo essere riuscito per un soffio a non cadere nelle mani dei tedeschi, inferociti per il tradimento dell’alleato italiano.

Anche nell’annus terribilis del 1944 avvenne una nuova fuga, sia pure ristretta al raggio di una manciata di chilometri e resa obbligata dal precipitare della situazione. Nel maggio il fratello Guido aveva scelto la via partigiana sui monti di confine. Intanto il padre e ufficiale Carlo Alberto era fatto prigioniero degli inglesi e internato nel campo di Gondar, in Africa. Casarsa, paese sempre più minacciato, si svuotava un po’ alla volta e ‘sfollava’ nei villaggi più sicuri del circondario, presso parenti o amici.

Così optarono per questa soluzione anche Pier Paolo e la madre, e in ottobre si ritirarono nel minuscolo borgo contadino di Versuta, nella stanzetta di una casa che Pasolini aveva adocchiato e affittato già l’anno precedente. Complici come due eleganti amici forestieri o quasi, scrisse poi Pasolini, come due giovani fidanzati, fecero il loro ingresso nel paesino per una sorta di esilio da leggenda avventurosa e all’inizio non senza un po’ di sufficienza borghese verso un ambiente rustico così diverso dal loro.

Non fu però una residenza temporanea, come pensavano. E anche quel po’ di sussiego cittadino fu presto smorzato e annullato dalla verità umana del semplice mondo popolare, oltre che dalla paura comune della guerra che anche lì si faceva sentire con il rumore degli aerei notturni, in volo sulle campagne con il loro carico di bombe.

Fu tuttavia in quella cornice atterrita, e forse proprio in reazione ad essa, che nel giovane Pasolini si acuì la febbrile tensione a resistere alla violenza in modi diversi da quelli armati e inoltre utili alla piccola comunità di quel «villaggio di dieci case» appena, sparpagliate tra campi e rogge attorno ad una antica chiesetta rosa. Allora, per il geniale poeta, già consacrato dall’attenzione clamorosa di Gianfranco Contini, Versuta si esaltò a eremo protetto di poesia, da fare, incentivare in altri e insegnare, come per la replica di un rinnovato Decameron al riparo dalla peste della storia violenta.

Ed ecco che Pasolini, proprio nella più defilata periferia contadina di un mondo altrove in fiamme, fondò l’Academiuta di lenga furlana, un cenacolo-laboratorio di poesia, cultura e ricerca linguistica la cui poetica era «l’estetica del cuore, non del cervello» e in cui raccolse attorno a sé amici, poeti, ragazzi, giovani artisti dal talento in formazione. E, ancora, ecco che vi avviò una scuoletta privata, libera, oggi diremmo a tempo pieno, aperta a fantassins del posto cui la guerra impediva la frequenza alle lezioni regolari. Tutti poeti in potenza, quasi fanciullini pascoliani e «Muse a piedi scalzi», come li chiamò, che venivano da case in cui il libro non c’era e anche solo l’idea di un’attività disinteressata era un lusso o un’ipotesi impensabile. Eppure dei suoi scolari contadini il maestro mirabile portò alla luce e valorizzò la poetica vena d’oro, facendola esprimere in versi, friulani e italiani, di vergine purezza e portandola anche all’onore pubblico della stampa, alla pari delle poesie degli autori più adulti, sulle pagine degli Stroligut, le riviste letterarie fondate e animate in Friuli da un Pier Paolo già infaticabile. E molti furono anzi contagiati e segnati per sempre da quella incredibile paideia di campagna: e infatti chi divenne poi poeta e scrittore per davvero, come Nico Naldini, chi fotografo, come Bruno Bruni, chi pittore, come Federico De Rocco, peraltro già avviato allora sulla buona strada dell’arte, chi perfino prete e missionario in Africa, come Dante Spagnol.

Giovanissimo, 15 anni appena, era anche Elio Ciol, fotografo tuttora vivente destinato in seguito a una lunga carriera di grande maestro della luce da catturare sulla carta. A lui, frut di Casarsa, si deve uno scatto dal valore preziosissimo, non solo perché è un documento raro dell’incanto pasoliniano di Versuta, ma anche perché ne seppe cogliere, o oggi ne lascia immaginare, il particolare fervore giovanile.

Siamo dunque nel 1944, all’esterno della chiesetta rosa, sul prato che in Atti impuri Pasolini descrisse verdissimo. Posizionato in seconda fila, terzo da sinistra, alle spalle dei suoi zuvinins, lui è lì, lontano dal protagonismo della guida riconosciuta, come in effetti era per tutti, quasi intimidito e serio nel volto, appena ombreggiato da un vago sentore di malinconia. Attorno a lui, secondo una gerarchia anagrafica non negoziabile, sono disposti gli altri: i più grandi dietro, i più piccoli davanti, e tutti infagottati in abiti da poveri, raffazzonati alla meglio e, si immagina, rattoppati. Pare la foto scontata di una ‘ingessata’ classe scolastica, con la sola variante di un maestro talmente giovane da non distinguersi più di tanto dai suoi alunni. Eppure, a guardar bene, piccoli segni rivelano l’allegra scompostezza latente del gruppo, appena bloccato e messo in posa da un fermo-immagine provvisorio. C’è chi sorride, infatti, chi si mette di profilo, chi guarda da tutt’altra parte rispetto al fotografo, chi posa la mano sulla spalla del compagno. Volando di fantasia, si potrebbe anche immaginare che immediatamente dopo lo scatto la brigata si sia scatenata in grida e giochi su quello stesso prato calpestato in altre occasioni per gioiose partitelle di calcio insieme al maestro e con una palla di stracci.

È un’immagine tenera da ‘meglio gioventù’ della vita e della poesia, isolata nel cuore della guerra e in seguito destinata a ingiallire, una volta che si esaurì la stagione friulana di Pasolini e il poeta fu espulso con ignominia dal suo Eden rustico. La meglio gioventù sarebbe diventata poi il titolo di un libro consuntivo, un mito e un oggetto di nostalgia. Trent’anni dopo l’oasi e l’idillio di Versuta, con la foto che ne immortala la dolce innocenza, la gioventù si sarebbe rovesciata in «nuova», i giovani in esseri «infelici» coi capelli lunghi e l’antico poeta-maestro in ‘corsaro’ dal volto scavato e dall’irriducibile slancio polemico. Ma questo è un altro discorso.

 

Bibliografia

F. Cadel, La lingua dei desideri. Il dialetto secondo Pier Paolo Pasolini, Lecce, Manni, 2002.

P.P.Pasolini, Un paese di temporali e di primule [1993], a cura di N. Naldini, Parma, Guanda, 2015.

R. Carnero, A. Felice (a cura di), Pasolini e la pedagogia, Venezia, Marsilio, 2015.