1. Ferite e valore d’uso
In una illustrazione pubblicata sul numero 10 della Ghirba, apparso nel giugno del 1918, un militare in licenza – probabilmente un graduato – si ferma a chiacchierare con una ragazza davanti a un teatro improvvisato. Due battute galanti, nello stile leggero della Ghirba, accompagnano l’illustrazione:
Il corpo del soldato, in realtà, appare perfettamente integro, non ci sono fasciature evidenti, né mutilazioni in vista. Un cortocircuito abita la scena: gli effetti della violenza sono appena accennati attraverso il codice verbale ma sono del tutto assenti dall’immagine. Si apre una discrepanza tra ciò che si vede e ciò che si dice, perché mentre per lo spettatore le ferite restano nascoste, per la ragazza corteggiata esse sono il segno – verrebbe da dire il supporto – su cui si innesta l’attrazione verso il soldato: la ferita è la metonimia del coraggio maschile, il residuo tangibile dell’esperienza virilizzante del combattimento, il marchio che ‘erotizza’ il corpo che lo reca e lo rende desiderabile. La risposta del soldato sigilla questo piccolo cerchio di figure: le ferite reali – eppure invisibili all’occhio esterno dello spettatore – producono una ferita metaforica, un vulnus al cuore in cui, in nome del binomio di piacere e sofferenza, il desiderio e il suo doppiofondo masochistico si saldano insieme. I segni della violenza subita parlano di una maschilità compiuta,[2] letteralmente guadagnata sul campo di battaglia e dunque pronta ad essere ricompensata sessualmente. Il dolore della lacerazione della carne non ha posto in questo quadro: se il linguaggio allude alla realtà effettiva di quelle lacerazioni, tutto nella vignetta spinge per cancellarla, trasporla sul piano delle metafore, trasformarla in uno degli enunciati ideologici centrali nel discorso della propaganda bellica: il corpo del soldato ha il suo dover essere in una versione lacerata – o eventualmente distrutta – di sé. È solo in quella lacerazione, il cui dolore non può essere pronunciato, che quei corpi maschili si compiono, svelando la propria disponibilità ad essere usati e liquidati in nome di una rete di enunciati performativi sul sacrificio e la patria che sono alla base del discorso nazional-patriottico moderno.[3] La ferita aumenta il valore d’uso di quel corpo, che diviene attraente, forte e coraggioso proprio in virtù del suo essere lacero. In questa economia paradossale, più il corpo si approssima alla distruzione e più il suo capitale simbolico aumenta. Il corpo inservibile, il cadavere, è quello che vale di più.