Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 Il cuore di Pinocchio, pubblicato da Bemporad per la prima volta nel 1917 e poi riedito, in forma ampliata, nel 1923, è parte della ricca produzione di letteratura per l’infanzia a tema bellico che si diffuse negli anni del primo conflitto mondiale. Scritto dal nipote di Collodi – così figura l’autore Paolo Lorenzini sulla copertina del libro – e illustrato da Carlo Chiostri, già autore dei disegni dell’edizione del 1901 del Pinocchio maggiore, questa nuova riscrittura a tema delle avventure del burattino di legno si presenta anzitutto come un testo vicino alla produzione propagandistica vera e propria. Invece di puntare su una generica celebrazione della nazione in guerra, Lorenzini sceglie di affrontare un tema di grande presa sull’opinione pubblica, ovvero quello della mutilazione. Quella raccontata, infatti, è la storia di come Pinocchio, ormai bambino in carne e ossa, si trasformi in un congegno fatto di parti meccaniche assemblate a causa delle numerose ferite riportate combattendo al fronte.

Le innovazioni tecnologiche apportate agli armamenti, così come le modalità di combattimento tipiche della guerra di posizione, avevano determinato la comparsa di nuove forme di ferimento e mutilazione, che spesso producevano effetti devastanti – e inediti – sul corpo dei soldati. Il personaggio inventato da Collodi, col suo corpo metamorfico, al confine tra l’umano e il non umano, si prestava bene a illustrare in maniera didascalica uno dei contenuti centrali della pedagogia della nazione in guerra: il corpo del soldato è una materia malleabile sulla quale, in nome della patria, si incidono i segni della violenza subita al fronte e si possono, di conseguenza, compiere manipolazioni. L’idea che il corpo sia duttile, trasformabile e adatto a essere integrato da protesi artificiali è la premessa alla base di questa reincarnazione di Pinocchio.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

La Fata è personaggio mutevole, sfuggente, enigmatico. Appare per la prima volta come fantasma, bambina morta dal viso di cera nella casina bianca in mezzo al bosco, per poi rivelarsi potentissima fata nella sua lussuosa dimora dalle pareti di madreperla; ma in seguito perde i suoi fiabeschi orpelli barocchi per divenire una «buona donnina» (Collodi, 2012, p. 145) del popolo, una elegante signora col medaglione, una capretta e un’immagine di sogno. Anche i suoi rapporti di parentela col burattino cambiano nel corso della storia: da spettatrice indifferente di un dramma diventa sorellina, poi mamma di Pinocchio. Non abbiamo neppure notizie certe sulla sua età; sappiamo che abita nelle vicinanze del bosco «da più di mill’anni» (Collodi, 2012, p. 111), ma la incontriamo per la prima volta bambina per poi ritrovarla donna. Ben poco conosciamo del suo ‘vero’ aspetto al di là delle sue trasformazioni e dei suoi travestimenti, se non che è bella e che ha i capelli turchini. Il colore turchino, in effetti, pare l’unico elemento identitario a permanere nelle varie metamorfosi: pure la capretta che osserva dallo scoglio Pinocchio in mare ha il pelame turchino. Più definito, invece, è il suo carattere, per quella tendenza allo scherzo crudele a fini pedagogici che la spinge persino a fingersi morta.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →