La Fata è personaggio mutevole, sfuggente, enigmatico. Appare per la prima volta come fantasma, bambina morta dal viso di cera nella casina bianca in mezzo al bosco, per poi rivelarsi potentissima fata nella sua lussuosa dimora dalle pareti di madreperla; ma in seguito perde i suoi fiabeschi orpelli barocchi per divenire una «buona donnina» (Collodi, 2012, p. 145) del popolo, una elegante signora col medaglione, una capretta e un’immagine di sogno. Anche i suoi rapporti di parentela col burattino cambiano nel corso della storia: da spettatrice indifferente di un dramma diventa sorellina, poi mamma di Pinocchio. Non abbiamo neppure notizie certe sulla sua età; sappiamo che abita nelle vicinanze del bosco «da più di mill’anni» (Collodi, 2012, p. 111), ma la incontriamo per la prima volta bambina per poi ritrovarla donna. Ben poco conosciamo del suo ‘vero’ aspetto al di là delle sue trasformazioni e dei suoi travestimenti, se non che è bella e che ha i capelli turchini. Il colore turchino, in effetti, pare l’unico elemento identitario a permanere nelle varie metamorfosi: pure la capretta che osserva dallo scoglio Pinocchio in mare ha il pelame turchino. Più definito, invece, è il suo carattere, per quella tendenza allo scherzo crudele a fini pedagogici che la spinge persino a fingersi morta.
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, quarantasei tavole in tricromia, quarantasei tavole in rotocalco fuori testo e quarantasei disegni episodici di Giambattista Galizzi, Milano, Labor, 1945
Così un anonimo portavoce della “Labor” introduceva il lettore a un’edizione del capolavoro ariostesco evidentemente allestita ‘in funzione’ delle tavole del pittore bergamasco Giovan Battista Galizzi (1882-1963). Queste ultime, a propria volta, dovevano soddisfare pienamente il «culto del bello» di un pubblico piccolo o medio-borghese suscettibile di scandalizzarsi ancora (1945) per le ironiche oscenità del Furioso. Gli editori non esitarono infatti a sforbiciare con disinvoltura intere novellette, sottolineando nello stesso tempo solo il lato pio della considerevole opera illustrativa di Galizzi, che contava invece anche titoli come The life and death of John Falstaff, i Contes drôlatiques di Balzac, le Notti dello Straparola – oltre naturalmente al suo capolavoro, il Pinocchio per la Sei di Torino (1942). Galizzi, senz’altro uno dei più importanti illustratori della prima metà del secolo, era un noto e premiato pittore sacro, ricercatissimo per chiese e cappelle di città e campagna, ma anche notevole caricaturista e disegnatore satirico (in quest’ultima veste aveva messo, durante la Grande Guerra, la sua matita al servizio della propaganda anti-austriaca).
Un artista ‘laureato’, dunque, non mancante di nessuna unzione ufficiale, accademica o ecclesiastica; eppure, chi guarda oggi le sue tavole non può che venir preso da una netta sensazione di inquietudine. Questo Furioso, ad esempio. La prima impressione – purché molto distratta – può anche essere quella d’una vivacità fiabesca, un vignettismo raffinato e popolare insieme, spirante la grazia ingenua di quei vecchi libri illustrati per l’infanzia passati ‘da bambino a bambino’ per due o tre generazioni. Basta indugiarvi un poco, però, ed ecco apparire inverecondi affioramenti di inconscio e sarcasmi neri, in mezzo ai quali l’ingenuità e il candore permangono, ma nel modo in cui potrebbero essere simulati da un libertino.